Il sistema riproduttivo

fb2

Classico romanzo d’automazione, ma anche di indiavolato divertimento, [i]Il sistema riproduttivo[/i] ha considerato John Sladek fra i grandi della fantascienza e la sua pubblicazione in questa collana non poteva mancare. Molte volte la SF si è occupata di macchine, ma mai con il vigore e l’astuzia di questo grande libro: infatti, che cosa accadrebbe se un giorno venisse inventata la macchina capace di figliare? Un interrogativo che quando il romanzo fu scritto sembrava del tutto utopico e futuribile, ma che oggi, in tempi di robot industriali, ha assunto un nuovo, sinistro colorito senza perdere nulla dell’originario divertimento. Se le macchine di tutto il mondo trovassero davvero il sistema di riprodursi da sole, qualcuno, sulla Terra, sarebbe di troppo…

Prologo

L’avete vista in «Heidi»?

Immaginiamo che sia ancora il 19…, quell’anno fatidico, e immaginiamo che voi stiate passando da Millford, Utah, quel fatidico crocevia della storia. La popolazione, vi informa un cartello tutto ammaccato e sporcato dagli uccelli, è di «3810 abitanti e sta ancora aumentando! Luogo di nascita di Shelley B…»

Luogo di nascita di Shelley chissachi, Millford si trova a metà strada fra Las Vegas, Nevada, e il North American Air Defense Command (NORAD) rintanato nelle viscere d’una montagna del Colorado. Il nome, «Millford,» significa «Guado del Mulino,» ma è onorario; non c’è mai stato un corso d’acqua, in questa parte del deserto, né un mulino, né qualcosa che un mulino potesse eventualmente macinare. Forse il nome fu trovato per ironia, o per un augurio. In fondo, i fondatori di altri centri nel deserto hanno dato loro nomi graziosi, nella speranza che, grazie alla magia contagiosa, ne seguisse una piacevole realtà.

Millford non è graziosa, è vecchia e malconcia. C’è ben poco che la distingua da Eden Acres, Greenville o Paradise. L’emporio degli alimentari, come quello degli altri paesi appena nominati, è dipinto a scacchi bianchi e rossi. Lungo la sua strada principale sorgono facciate familiari: The Eateria; The Idle Hour; Marv’s Eat-Gas; The Dew Drop Inn Motel.

Voi, turisti di passaggio (diciamo che siete un generale d’aviazione del NORAD in viaggio per andare a divorziare), siete molto più interessati al vostro odometro che a quello stabilimento d’imbottigliamento della Coca Cola o quello che è sulla destra. Notate appena una bruttissima fabbrica di mattoni invetriati, con una grande vetrata all’angolo arrotondato. «Società Giocattoli Wompler. Fabbricanti di…»

Il cartello sciupato è ormai alle vostre spalle, perduto per sempre. C’è un solo cartello che vi interessa: «Fine del limite di velocità.» Ah, eccolo. E ce n’è un altro: «State lasciando Millford, Utah, Luogo di nascita di Shelley Belle. Arrivederci presto!» Voi premete con forza il piede sull’acceleratore. Lo sferragliare delle punterie chiede:

Chi diavolo è

Shelley Belle?

Voi siate irritati con Millford. Siete irritati con la vostra scarsa memoria. Siete stufi di tutte le brutte, piccole cittadine del deserto e dei loro cartelli presuntuosi: «La più grande piccola città dell’Universo!» Siete accaldati e stufi e stanchi, e superate un po’ il limite di velocità, mentre fuggite dal luogo in cui si sta facendo la storia del mondo…

Capitolo Primo

I Wompler al lavoro

«Ella era un’immagine di delizia, quando brillò la prima volta alla mia vista. … Ed ora scorgo con occhio imparziale la pulsazione stessa della macchina.» WORDSWORTH

«Scusate il ritardo, gente.» Louie Guthridge Wompler, vicepresidente incaricato delle pubbliche relazioni, entrò nella sala delle riunioni saltellando sulle suole a carro armato. Sorrise agli altri tre membri del consiglio di amministrazione, ma quelli non parvero neanche accorgersene.

«Dov’eri?» chiese il presidente, Grandison Wompler. Le sue guance cascanti tremavano per l’irritazione. «Dobbiamo discutere di cose importanti.»

«Scusami, Papà.» Louie si buttò su una sedia a destra del padre. «Stavo lavorando un po’ sui miei muscoli ‘lati’. Sai, latissimus dorsi? È qui.» E si indicò l’ascella con un dito tozzo.

«Stiamo sciogliendo la società, figliolo.»

«Vedi, sto trovando una definizione molto pulita… Sciogliere la società? Ma perché, Papà? Perché?»

Grandison batté sul tavolo il mazzuolo con un rumore che sembrò un colpo di pistola. «La seduta è aperta,» borbottò.

«Cos’è ’sta storia, Papà?» insistette Louie, irraggiando suo padre con un accattivante sorriso alla Harold Teen.

«Figliolo,» cominciò il vecchio, poi si interruppe. Stava cercando un’espressione che Louie fosse in grado di afferrare. Benché avesse quarantun anni, qualche volta sembrava che fosse uscito da poco dall’adolescenza. Anzi adesso, mentre si baloccava con un estensore a molla e un barattolo di compresse di Proteine Sooper, Louie sembrava addirittura puerile… e suo padre aggrottò la fronte a quel pensiero.

I due uomini non sembravano neanche padre e figlio. Il presidente era alto, abbronzatissimo e robusto, e verso la mezza età aveva messo su un po’ di carne, acquisendo uno spessore dignitoso. Il volto era massiccio e serio, con la mascella austera e le folte sopracciglia scure. Ma intorno alla sua bocca c’erano le rughe lasciate dal riso, e gli occhi neri erano festonati di grinze miti. Senza un filo grigio tra i capelli, Grandison («Granny») Wompler dimostrava dieci anni di meno dei suoi sessantacinque.

Louie, che alcuni chiamavano «Louie il Womp,» era pallido e porcino. Riusciva in qualche modo a sembrare una copia ad acquerello di suo padre, uscita di bucato. I capelli biondi, vagamente ondulati, gli occhi lattiginosi e la carnagione che sembrava pasta per fare il pane gli avrebbero dato un’aria esaurita, se non fosse stato per la sua mole immensa. C’era qualcosa di atletico nelle spalle curve di Louie e nel suo ventre tondo; sembrava un uomo che avesse ricevuto parecchi colpi in faccia. Il naso era appiattito, e tutti i suoi lineamenti erano un po’ spianati, un po’ confusi.

Non portava cravatta, e sotto la stoffa bianca della camicia si scorgeva in trasparenza la scritta «CLUB DELLE PROTEINE SOOPER.» Il suo sorriso, mentre attendeva che il padre proseguisse, era puro e insignificante come una serie di intaccature su vetro, e altrettanto costante.

«Figliolo, non so come spiegartelo…»

«Lascia provare a me, Granny,» Gowan Dill, l’ilare e novantenne direttore della produzione, si rivolse a Louie e disse: «Tuo padre vuol dire che abbiamo agganciato il nostro carro a una stella cadente.»

«Il solito declino estivo, ecco tutto,» fece lagnoso Louie, sempre sorridendo. «Sotto Natale le vendite riprenderanno.»

«Per Natale saremo tutti falliti!» ringhiò suo padre. «Falliti!»

«Declino estivo o…»

«No, figliolo. La verità è che siamo finiti. Nessuno vuole più le Bambole che Camminano di Wompler.»

Le mani nodose di Grandison tremarono leggermente nel sollevare una bambola dal suo involucro di carta velina e nel metterla in piedi. La bambola cominciò a camminare sul piano lucido della tavola, miagolando a ogni passo. Un carillon, dentro la testa, suonava sommessamente la Marcia dei soldatini di legno.

Nessuno sapeva che cosa fosse capitato in realtà a Shelley Belle. Era stata avvolta nella carta velina, per così dire, e messa in disparte, insieme ad altri e più felici ricordi degli Anni Trenta (Al Jolson, i film di Bank Nite, la roadster Cord, l’orchestra di Paul Whiteman), come se fosse stata davvero una solare bambola dai capelli d’oro. Come nessuno voleva ricordare i veri Anni Trenta (le file per le minestre, le file per il pane, le file per i posti di lavoro), nessuno voleva ricordare la vera storia di Shelley (cresciuta, sposata, divorziata, risposata, tentativo di suicidio, particine nei film di Alfred Hitchcock). Sarebbe rimasta sempre come l’avevano vista per la prima volta, nel 1935, agitare i riccioli e sorridere con grande sfoggio di fossette a W.C. Fields o a Wallace Beery. In tutta l’America, le massaie tenevano ben strette le razioni gratuite e restavano a bocca aperta. Mentre quella bimbetta di cinque anni scrollava le spalle e ballava il tip-tap al suono della Marcia dei soldatini di legno, loro facevano schioccare la lingua sbalordite. Non era meravigliosa? Non era il tesoro più grazioso e adorabile e delizioso che esistesse? Non era una bambola viva?

Bambola. Quella parola era esplosa nel cervello di Grandison Wompler mentre assisteva a una proiezione di Heidi al cinema Belmont. Era balzato in piedi e aveva cominciato a bestemmiare allegramente, fino a quando il direttore, Ned Lambert, s’era sentito in dovere di buttarlo fuori. Granny non se l’era presa. Non gli era dispiaciuto neppure di perdersi lo Spin-O-Cash. Cos’erano, per lui, cento dollari d’argento? Dentro gli ribolliva un progetto da un milione di dollari. Andò diritto a casa e scrisse, al centro d’un foglio di carta: «BAMBOLE = DOLLARI».

Perché non fabbricare bambole come Shelley Belle, lì nella sua cittadina natale, e perché non distribuirle in tutta la nazione… in tutto il mondo? Per Dio, avrebbe guadagnato un milione di dollari, e nello stesso tempo avrebbe reso famosa Millford.

C’era stato qualche inconveniente, con il passare del tempo. Aveva già incominciato la produzione quando un’ingiunzione del tribunale gli aveva proibito di far uso del nome «Shelley Belle.» Ma Grandison aveva già creato il mercato; non aveva più bisogno del nome. In poco tempo le Bambole che Camminano di Wompler erano diventate famose per conto proprio; la sua fortuna era fatta.

Persino durante la guerra gli era andata bene. L’impianto principale venne convertito alla produzione di proiettili di mitragliatrici, mentre le presse a caldo sfornavano i copriborraccia. La società aveva vinto due premi «E». Louie si era arruolato nell’esercito ed era stato decorato della Croce del Quartiermastro. Sembra che avesse acquistato più copriborraccia di qualunque altro quartiermastro. A padre e figlio era dispiaciuto vedere che il nemico s’era arreso così in fretta.

Nel 1946 le Bambole di Wompler avevano ripreso a camminare, ma ormai rendevano molto meno. Le vendite scendevano, scendevano, via via che la gente dimenticava Shelley Belle, invecchiata e alcolizzata. Ora, vent’anni dopo, la fabbrica si era fermata. Come diceva Gowan Dill, tra strizzate d’occhio e fragili gomitate, «La produzione è arrivata in fondo, ragazzi. Il reparto occhi è chiuso. Neanche una testa rotola più sulla catena di montaggio. Tanto vale che prendiamo il resto delle nostre bambole e…»

«E le buttiamo via, lo so,» disse con voce stanca Grandison. «Lo so, lo so, lo so.» Fissava con occhi vitrei la bambola che si allontanava da lui.

La bambola aveva immensi occhi azzurri e riccioli dorati, rigidi, a salamino. Indossava un abitino pieghettato rosso-bianco-azzurro con tante stelline d’argento, e un cappellino tondo. Le ginocchia rosee segnate dalle fossette, si scorgevano appena tra la frangia argentea della gonna e gli stivali bianchi con intarsi argentei.

«Miao, miao, miao, miao, miao,» diceva.

«A me sembra bellissima, Papà,» disse devotamente Louie. Era rimasto con il pugno bloccato dentro al barattolo delle compresse di Proteine Sooper. Non gli era venuto in mente che non era il caso di infilare la mano in un barattolo stringendo un estensore. «Mi sembra un ottimo prodotto.»

«Ma non lo vuole nessuno, figliolo. Le bambine non vogliono più le Bambole che Camminano di Wompler. Vogliono le Barby. Bambole che possono vestire secondo la moda.» La sua voce si caricò di furore; diventò paonazzo sotto l’abbronzatura. «Bambole che non sono neanche capaci di muovere un passo!»

«Ehi, Papà, ho un’idea! Perché non fabbrichiamo anche noi una bambola da vestire?»

«Perché non ne sappiamo niente di moda, ecco perché. Le cucitrici di Mrs. Lumsey non sanno cucire altro che piegoline e stelline.»

«E copriborraccia,» gracchiò Dill, agitando i polsini.

Nessuno sorrideva. Grandison guardava la bambola che camminava, e sembrava sul punto di piangere; ma era un uomo forte. Louie fissava, sbigottito, la propria mano intrappolata. Moley, il presidente della seduta, si stava afflosciando sulla sedia, accingendosi a dormire.

«Mandiamo la compagnia al campeggio!» azzardò Dill. Nessuno gli rispose. «Ah, be’,» sospirò. «Proviamo a pensare.»

La bambola, sempre miagolando, arrivò in fondo al tavolo e cadde. Ci fu il tonfo d’una faccia di guttaperca contro il pavimento.

«La fine di una grande era,» mormorò con voce rauca il presidente.

Pensarono. Louie faticava a concentrarsi. Avrebbe voluto essere fuori, a fare un po’ di podismo, o semplicemente ad abbronzarsi. Voleva studiare un po’ il suo karaté. Voleva andare a casa per vedere se la posta gli aveva portato il libro che aveva ordinato: Diciassette sistemi NUOVI per uccidere un uomo a mani nude. E il libro sulla lotta Sumo.

Il guaio dei libri era che non davano la sensazione di uccidere a mani nude. Ed era anche il guaio di abitare a Millford. Non c’era nessun istruttore a portata di mano. Louie voleva imparare tutti i sistemi giapponesi di autodifesa. Voleva imparare a uccidere un uomo con lo Zen… senza neanche toccarlo, dicevano. E poi c’era il Kabuki, e c’era il terribile Origami. Oh cribbio!

Continuò a guardare fuori dalla finestra in cerca d’ispirazione, fino a quando passò sfrecciando un’auto, del colore blu dell’aeronautica. Gli ricordò gli esercizi isometrici. Poi, in qualche cantuccio del proencefalo rudimentale di Louie, un minuscolo circuito si chiuse.

«Ci sono!» gridò. «Ho un’idea!»

Dill gemette. «Basta con le idee!» disse. «Non abbiamo ancora finito di pagare quell’idea della macchina per il caffè.»

L’ultimo prodotto del genio di Louie era stata l’idea di vendere il caffè agli operai con un distributore automatico che aveva comprato e installato nella mensa, a 25 cents la tazza. Per aumentare i profitti, aveva continuato a riciclare i fondi di caffè. In questo modo, aveva pensato, il distributore si sarebbe pagato da solo. Gli operai si erano dichiarati d’accordo. Che il distributore si pagasse pure da solo.

«No, questa è un’idea con i fiocchi. State a sentire. Perché non ci facciamo dare del danaro dal governo?»

«Perché non…» ripeté suo padre, senza comprendere.

«Credo che abbia trovato davvero qualcosa, Granny!» urlò Dill. «Perché non ci facciamo dare del danaro dal governo?»

«Oh, sì, davvero,» disse Moley, raddrizzandosi sulla sedia e aprendo un po’ gli occhi. «È proprio un’idea. Perché non…»

«Perché non ci facciamo dare un po’ di danaro dal governo?» disse Louie eccitatissimo. E si sforzò per completare quel pensiero. La sua mano imprigionata nel vetro si agitò impaziente. «Dal governo… per la ricerca!»

La teste calve annuirono. «Per la ricerca, sicuro!»

«Ma non dovremmo fabbricare qualche prodotto necessario al governo?» chiese Grandison, perplesso. «Qualcosa di vitale per la difesa della nostra nazione? Qualcosa d’importante per il suo benessere? Il governo non getta via il danaro così, vero?»

Quando gli altri ebbero finito di ridere, Dill posò sulla manica di Grandison una mano esile come una zampa d’uccello. «Tu sei un sognatore all’antica, Granny,» gracchiò, ridacchiando. «Forse lo sono anch’io. Dobbiamo rivolgerci a questo ragazzo, per trovare delle vere idee. I tempi sono cambiati, sai. Questa è l’era dell’astronauta. Nei tempi andati, lo ammetto, bisognava fabbricare una corazzata o una piscina municipale… qualcosa di utile. Ma dimmi: da un punto di vista pratico, a cosa serve spedire un uomo sulla Luna?»

«Be’, credo…»

«A niente! Non ha nessuna utilità terrestre!» gracchiò Dill. «Ma, sul serio, il governo spende milioni, zilioni, per mandare un uomo sulla Luna. D’altra parte, se hai qualche idea vera e pratica da vendergli, è meglio che lasci perdere.»

«È giusto!» urlò Louie, balzando in piedi e cominciando a camminare su e giù per la stanza. «Ricordate quella volta che cercai di vendere al governo la mia idea dell’inchiostro invisibile? Latte, era, puro e semplice latte. Le spie potevano adoperarlo per scrivere i messaggi, come inchiostro invisibile. Poi lo bollivi e lo scritto appariva come per magia. Sottoposi la mia idea al Pentagono, ti ricordi, Papà?» Tornò a buttarsi sulla sedia. «Non hanno mai risposto alla mia lettera,» aggiunse con voce più sommessa.

«Il fatto è,» proseguì Dill, battendo sulla tavola la mano rinsecchita, «che se possiamo presentare al governo un progetto completamente, irrimediabilmente inutile, ci concederanno uno stanziamento per la ricerca pura.»

«E come fai a saperlo?»

«Lo so, come so che il presidente della Commissione per le Spese Industriali è il senatore Dill… mio cugino, capite?»

Grandison non si era ancora abituato all’idea. «Ma… ma su che cosa potremmo fare delle ricerche? Non abbiamo gli impianti necessari.»

«A quello pensano tutto loro, non preoccuparti,» sorrise Dill. «Laboratori di cemento armato, rifugi antiatomici, i Marines di guardia, tutto quello che vuoi. La sola cosa che dobbiamo fare è escogitare un progetto.»

«Che ne direste di un robot?»

«Niente da fare,» scattò Dill. «Abbiamo bisogno di qualcosa che sembri più semplice, in modo che gli altri membri della commissione non ci trovino niente da obiettare, ma che in realtà sia così difficile che noi possiamo impiegarci degli anni. Come un aereo più grosso e più sicuro, per esempio.»

«Ma cosa ne direste comunque di un robot?» insistette Louie.

Ignorando l’agitarsi frenetico del barattolo sotto al suo naso, Moley disse: «Allora, perché non costruiamo una macchina che sia capace di riprodursi? Ho letto di un’idea del genere su Life, proprio l’altro giorno. Una macchina che si riproduce… sembra abbastanza facile, no?»

«Ma a cosa serve?» chiese Grandison. «Oltre a fare duplicati di se stessa, che funzioni ha?»

«Un robot,» dichiarò sottovoce Louie, «potrebbe istruirmi nel combattimento Kabuki corpo a corpo.»

«Non hai ancora capito, Granny,» disse Dill, scrollando il capo con fare paterno. «Non serve a niente. Ed è precisamente questo che vuole il governo. Quello che vogliamo noi.»

«Penso che tu abbia ragione,» disse Grandison. E sospirò. «Mi sembra così disonesto.»

«Creeremo migliaia di nuovi posti di lavoro… gli scienziati, i Marines di guardia, i funzionari governativi che seguiranno la nostra attività.»

«Lo so, lo so: ma noi ci guadagneremo?» scattò il presidente.

«Milioni.»

Votarono subito. Furono tutti «sì,» intorno al tavolo, fino a Louie.

«Sì, credo,» borbottò. «Ma, ehi, Papà, cosa ne diresti di un robot? Eh, cosa ne diresti…»

Grandison tese il braccio e spaccò il barattolo con il mazzuolo. L’estensore a molla scattò, spargendo intorno schegge di vetro e pillole marroni, e liberando dalla prigionia le dita grassocce di Louie il Womp.

«Mozione accolta.»

Capitolo Secondo

Anomalie

$UCCE$$O

Scritta sul muro dei Laboratori di Ricerca Wompler

«Anch’io sono un fallito,» mormorò Cal, fissando la medusa nella vasca. Avrebbe dovuto essere di un rosa acceso e con l’ombrello in alto. «Questa è la fine anche per me, vecchio Plagyodus. Ho rovinato il mio ultimo esperimento.»

Ritenne superfluo aggiungere che quello era il suo primo esperimento presso il Laboratorio di Ricerche Wompler, e che lui era stato assunto esclusivamente grazie al prodigioso errore di una macchina IBM. La massa grigia e sgonfia nella vasca, del resto, non pareva ascoltarlo. Una corda attorta di cavetti multicolori partiva dalla massa e arrivava a un gruppo di quadranti. Erano tutti a zero.

Con un sospiro, Cal cominciò a scrivere sul diagramma appeso accanto alla vasca: «Esp. biomecc. 173b abortito ore 17.50.»

Avrebbe perso ben più del suo impiego: la possibilità di svolgere un lavoro che lo avrebbe portato a un dottorato. Tutto quello che tocco, pensò, si trasforma in un fallimento. Come per confermare queste parole, la penna a sfera si rifiutò di scrivere.

Fece una prova, e si accorse che poteva scrivere benissimo sul palmo della propria mano, ma non sul diagramma appeso al muro. Si coprì il palmo di scarabocchi e di firme di prova: «Calvin Codman Potter, Ph. D.»

«È questione d’angolazione,» disse Hamuro Hita, lo statistico del progetto. «L’inchiostro non scorre verso l’alto.»

Cal arrossì, corresse l’angolo e firmò il diagramma. «Grazie. Temo di non avere abbastanza spirito d’osservazione, per uno sperimentatore. In effetti, ho appena rovinato questo esperimento. Credo che d’ora in poi non mi vedrai più da queste parti.»

«Oh, non credo che possano licenziarti per un solo errore. Cos’è successo, del resto?» Hita parlò senza interrompere il suo lavoro, continuando a sommare dei numeri su un calcolatore.

«Ieri sera ho dimenticato di innestare il termostato automatico.» Staccando i fili dagli strumenti, Cal ripescò la flaccida massa grigia e sgocciolante. «Si… si è lessata o qualcosa del genere.» Alzò il coperchio del bidone della spazzatura, vi gettò la medusa e le buttò dietro anche i rigidi fili multicolori. Hita gli indicò con un cenno del capo una sedia accanto alla scrivania, e Cal vi si lasciò cadere.

«È quello che succederà a me, quando scopriranno tutto sul mio conto,» disse, indicando il bidone della spazzatura. «Loro mi credevano un ragazzo geniale e promettente, poiché mi sono laureato primo della mia classe al MIT. Si aspettavano che sbalordissi il mondo. Invece…»

«Invece?»

«Forse è meglio che non ne parli neanche. Diciamo che sono stato assunto per errore, e ho paura che possano scoprirlo da un momento all’altro.»

Hita annuì, e i due uomini piombarono in un cupo silenzio. Dopo aver finita l’addizione, il matematico cominciò a pulire la pipa di radica con la lama di un paio di forbici dall’impugnatura nera. Cal girò lo sguardo intorno a sé, incapace di vincere l’impressione che stava dicendo addio al laboratorio. Addio, computer modulare QUIDNAC; addio, labirinto per «ratti» fototropici; addio, soluzione in cui cresceva un verde albero cristallino, ogni ramo del quale faceva parte di un circuito elettronico; addio, forgia automatica in miniatura. Non dimenticò di dire addio all’ingresso principale, sorvegliato da un adolescente impettito e serissimo che indossava l’uniforme del Corpo dei Marine.

«Qui ostentiamo tutti falsi colori,» disse Hita, estraendo un volumetto in brossura dal cassetto della scrivania. «Sai perché i Wompler mi hanno assunto? Perché Louie voleva imparare l’Origami. Secondo lui, io sono giapponese, ergo…»

«Non ci credo!»

«Ma tu sei qui solo da una settimana. Conosci appena i Wompler, padre e figlio. Non hai ancora incontrato il capo del progetto, il dottor Smilax. Immagino che tu abbia avuto a che fare soprattutto con loro.»

«Vuoi dire i fratelli Mackintosh?»

Hita sorrise. «Ovvero, come li chiamano alcuni, i fratelli Frankenstein.»

«Ma quello che mi hai detto a proposito dell’Origami!»

«Ufficialmente, sono un matematico. In pratica, i miei doveri includono anche insegnare l’Origami a Louie. Ho dovuto studiarmelo anch’io, naturalmente. Per fortuna, ho trovato questo libretto all’emporio.» Sfogliò le pagine del volumetto in brossura. «Comunque, è un buon impiego. Qui posso guadagnare abbastanza per mettere in piedi presto un mio laboratorio statistico, ed è sufficiente che faccia lo stupido per mezz’ora al giorno.»

«Ma come hai fatto a imbrogliarli, se non lo conosci neanche tu?»

«È facile. Vedi, Louie pensava che l’Origami fosse una specie di tecnica giapponese d’autodifesa. Ho potuto stabilire le mie regole, e così andiamo d’accordo. Gli ho detto che ero ‘forbice nera’, e lui è rimasto debitamente impressionato.

«In quanto a Grandison Wompler, non so perché, ma sembra convinto che io dovrei parlare spagnolo. Quei due mi sono piuttosto simpatici. Ci sono addirittura dei giorni in cui riesco a sopportare i fratelli Frankenstein. L’unica persona, oltre a loro, che mi mette i brividi qui dentro è il dottor Smilax.»

«Lo hai conosciuto? Com’è?» chiese Cal.

«No, non l’ho conosciuto, e non l’ha conosciuto nessun altro, che io sappia, eccetto i due gemelli: e questo è strano. Sembra che nessuno sappia niente sul suo conto, se non che è chirurgo e biochimico. Sarebbe logico pensare che il capo di un gruppo di ricerca desideri incontrarsi con i suoi collaboratori, ma lui è così inaccessibile…»

Cal lo urtò con il gomito e indicò l’ingresso, sopra il quale si era accesa una lampadina rossa. Il Marine sfoderò la pistola automatica e prese di mira i due che entravano, fino a quando quelli gli mostrarono i distintivi rossi con i nomi di Kurt e Karl Mackintosh.

Kurt si affrettò per mettersi al passo con il gemello, ed entrambi avanzarono svelti nel laboratorio.

Le loro immense fronti sporgenti, esagerate dalla calvizia avanzante e dalle sopracciglia così pallide da sembrare invisibili, grandeggiavano sulle piccole facce imbronciate e davano loro l’aria di cherubini da grandi magazzini. Erano due esseri grassocci e asessuati, ed era difficile credere che fossero i migliori ingegneri cibernetici al di qua della Cortina di Ferro. L’unico elemento dei loro connotati che non fosse da idioti erano i loro occhi. Irrequieti, guizzanti, intelligenti, avevano il colore blu-acciaio di certe mosche.

I fratelli lanciarono un’occhiata alla vasca vuota, un’altra al diagramma, un’altra a Cal.

«Ci aspettavamo di più, da un allievo del MIT scelto per tenere il discorso al termine dell’anno scolastico,» disse maligno Karl, come se parlasse con il fratello.

«È giusto, Karl. Non solo ha rovinato l’esperimento 173b, ma non abbiamo avuto da lui una sola idea originale, e non ha ipotizzato un solo ordinamento biomeccanico.»

«Vero, Kurt.» I due fratelli, forse perché si somigliavano tanto, parevano ritenere opportuno identificarsi spesso a vicenda. «Vero, Kurt. Comincio a domandarmi se il livello d’istruzione del MIT non sia in declino.»

Hita si schiarì la gola. Virando intorno alle cartellette che portavano sotto il braccio, i due girarono verso di lui. «Ma, signori,» disse Hita, «Potter stava giusto discutendo con me la sua nuova idea di un ordinamento biomeccanico. Una specie di ostrica dal guscio d’acciaio, non era così, Cal?»

«Sì. Una specie di… uhm… ostrica dal guscio d’acciaio. Sì. Vedete, presenterebbe numerosi vantaggi. Troppo numerosi per elencarli tutti.»

«Per esempio…?» chiesero insieme i gemelli.

«Be’, ecco… invece d’una perla, produce un cuscinetto a sfera. Certo, è un sistema lento per produrre i cuscinetti a sfere, ma a noi in effetti non interessa la produzione di…»

«Spero, Kurt, che seguirà questa sua linea di ricerca,» disse Karl.

«E scriverà una monografia,» aggiunse Kurt. «Ma nel frattempo l’assegneremo al Progetto 32 come assistente speciale. Può aiutare a montare i cavi dei circuiti, Karl.»

Cal sentì che era stato punito e che nello stesso tempo gli era stata offerta una seconda possibilità. Stava per esprimere balbettando la sua gratitudine, quando la lampada sopra alla porta si accese di nuovo.

«Buonasera!» tuono Grandison Wompler dalla soglia. «Ehi, le cinque sono passate da un pezzo, e noi non paghiamo gli straordinari, vedete.»

I gemelli Mackintosh si raddrizzarono lievemente. Karl disse: «La dedizione alla razza umana non può venire sminuita da banali questioni d’orario.»

«Il nostro lavoro procede,» intonò suo fratello, «giorno e notte, sempre rivolto al conseguimento della pace nel mondo, una pace definitiva ed eterna…»

«È molto bello. Ma è proprio necessario tenere accese tutte queste luci?» Grandison entrò, facendo cenno al Marine di spostare la canna della pistola, e indossò un camice bianco da laboratorio prelevato da un armadietto.

«Il nostro nuovissimo progetto consumerà immense quantità di energia,» l’informò Kurt. «Ma arrecherà benefici incommensurabili alla razza umana.»

«Magnifico. Ottimo lavoro, ragazzi. Ma mi procurerà un nuovo contratto? Renderà famosa Millford? Indurrà il governo a investire altro danaro su di me?»

I due gemelli si scambiarono un’occhiata per un istante brevissimo. «Certamente,» risposero in coro.

Louie si affacciò alla porta e gridò a Hita: «Oh, sei lì!» Sorrise e salutò con un cenno il Marine di guardia, che stava cercando di decidere se doveva sparargli o no. «Hita, ci vediamo in palestra, okay?» Hita sorrise e annuì, e il bollente intruso si ritirò.

Grandison si guardò intorno e notò lo statistico. «Salve, amigo!» disse con un gran sorriso e si avviò verso di lui tendendo la mano. Hita era l’unico membro del personale al quale Grandison stringeva la mano. «Como esta Usted?»

«Muy bien,» rispose il giapponese, senza entusiasmo.

«Splendido, splendido. Senta, se qualcuno qui non la tratta bene, venga a dirmelo, chiaro? Ho firmato un contratto con il governo, e questo significa che devo assicurare a tutti quanti un impiego giusto e imparziale. Non importa quale sia la vostra razza, il credo, il colore o la religione, siete tutti americani!»

«Ma io non sono americano,» protestò Hita. Grandison finse di non sentirlo.

«Sì, ho ricostruito questa società dal nulla, in meno di un anno… e voglio conservare quello che abbiamo. Abbiamo la mensa migliore, i migliori distributori automatici di caffè, il miglior bowling e la migliore palestra, e i rifugi antiatomici più puliti che si possano acquistare… e voglio che continuiamo ad averli. Voglio che tutti voi ragazzi, bianchi e neri, pieghiate la schiena e ci diate dentro con forza… per la nostra società!»

«Sono certo che facciamo tutti del nostro meglio,» disse Hita, prendendo un paio di forbici. «Be’, adesso devo andare. Adios.»

«Dobbiamo andarcene anche noi, Kurt,» disse Karl. «Dobbiamo conferire subito con il dottor S.; Potter, qui, può farle da guida nel laboratorio, Mr. Wompler.» I fratelli se ne andarono, sincronizzando il passo.

«Ehi,» disse Grandison, nascondendosi la bocca con la mano, «Ho sentito dire da qualcuno che quei due si chiamano Frankenstein.» La voce si abbassò in un bisbiglio confidenziale, l’espressione diventò solenne. «Non sono… non sono mica ebrei, vero?»

«Credo che siano protestanti irlandesi, signore,» disse Cal, cercando di restare impassibile. «Si chiamano Mackintosh. Vuole visitare il laboratorio?»

«Sì, magnifico.»

Davanti ad ogni apparecchio, Grandison si soffermava mentre Cal ne diceva il nome. Allora il vecchio lo ripeteva sottovoce, con un fare vagamente stupito, annuiva con aria saggia, e passava oltre. A Cal ricordava il modo con cui certa gente si comporta alle mostre d’arte moderna, dove i cartellini diventano più importanti degli oggetti esposti. E cominciò anche lui a inventare nomi complicati.

«E questo, come può osservare, è il Mnemonicon Modulare di Mondriaan.»

«…onicon, sì.»

«E la diffrattosfera dell’Empireo.»

«… sfera. Mmm. Capisco.»

Niente poteva stupire Grandison, perché non guardava niente. Cal si scatenò. Indicò la scrivania di Hita e disse: «La termocoppia in chiaroscuro.»

«Coppia? A me sembra una sola. Interessante, però.»

La pipa di radica diventò una «pipetta zigotica,» il portacenere di vetro «la storta di Piltdown,» e la lampada «l’Eolia a condizionamento di fase.» I fermaglietti per le carte diventarono «sfumature.»

«Sfumature. Capisco. Molto bene. E quello che cos’è?» Indicò un oscilloscopio. Cal trasse un profondo respiro.

«Il suo nome completo,» disse, «è angram morfomorfico escatologico pretoriano. È il tipo Endimione, ma di solito noi lo chiamiamo ramificazione.»

Il vecchio lo fissò severamente con gli occhi neri. «Sta cercando di prendermi in giro, per caso? Voglio dire, non sarò uno scienziato esperto, ma sono sicuro di riconoscere un televisore, quando lo vedo.»

Cal gli assicurò che non era un televisore, e lo dimostrò accendendolo. «Vede,» disse, indicando le onde. «Quelli sono i piccoli anapesti.»

«Che mi venga un accidente! È proprio vero.»

Cal procedette a mostrargli alcune dottrine revansciste, prima che il presidente, soddisfatto, decidesse di andarsene.

«Lavori bene,» esclamò. «E abbia cura delle apparecchiature della società. Quelle ramificazioni, sa, non crescono mica sugli alberi.»

Cal cominciò a staccarsi le unghie a morsi, una per una, appoggiandosi a un tavolo del laboratorio e lasciando cadere i ritagli in una storta di Piltdown. Per quanto tempo riuscirò a cavarmela? si chiese. Questi credono ancora che io esca dal MIT. Ed è vero. Ma non dal Massachusetts Institute of Technology. Dal Miami Institute of Technocracy.

Il Miami Institute of Technocrary era l’unica scuola in tutta la nazione che conferiva un diploma di laurea d’Arti Applicate in biofisica. Cal si era laureato in una classe con quattro allievi: Harry Stropp, laurea in Educazione Fisica, Mary Junes, tecnica in Economia Domestica, Barthemo Beele, laurea in Giornalismo. Cal era stato il primo della classe.

Andrò a confessarmi dal dottor Smilax, decise. Posso spiegare che è stato tutto un errore. Spense le luci e uscì. Il Marine di guardia restò solo, ritto sull’attenti nell’oscurità.

Cal sì fermò nel corridoio, davanti al tabellone dei comunicati. Era stato affisso un nuovo avviso, e lui si fermò a leggerlo, per guadagnare tempo.

«PROGETTO 32. Supervisori: DOTT. K. MACKINTOSH DOTT. K. MACKINTOSH. Assistente speciale: POTTER. L’ispezione verrà effettuata il 21 giugno 19… Successivamente entrerà a far parte dello staff: Dott. A. CANDLEWOOD (Psicologia del Comportamento).»

Cal deviò lo sguardo dalla firma (ciclostilata impersonalmente) alla porta con il cartello:

T. Smilax, M.D. VIETATO L’INGRESSO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO QUESTO VALE PER VOI! SETTORE ASSOLUTAMENTE VIETATO

Cal cambiò idea, girò sui tacchi e si diresse verso la porta principale. Quando passò davanti alla finestra aperta della palestra, sentì Hita gridare: «Hai!» E poi un suono di carta lacerata.

Capitolo Terzo

Rapporto sul Progetto 32

«Colui che mi capisce, finisce per riconoscere che le mie proposizioni sono insensate.»

LUDWIG WITTGENSTEIN

TOP SECRET TOP SECRET

TOP SECRET TOP SECRET

I. Finalità del Progetto 32

Progetto 32 è il nome in codice di una serie di esperimenti intrapresi nel Laboratorio di Ricerche Wompler a Millford, Utah, nel 19… La finalità del Progetto 32 consiste nel determinare:

a) se sia possibile mettere in moto un meccanismo autonomo autoriproducentesi, un «Sistema Riproduttivo,» e

b) l’utilizzazione militare, se è possibile, di tale sistema.

II. Precedenti del Progetto 32

Prima dell’inizio del presente progetto, era generalmente considerato non pratico, se non impossibile, realizzare e mettere in moto un sistema capace di autoalimentarsi, di apprendere e di riprodursi.

a) Sebbene i computer siano stati programmati per compiere semplici analogie (1) o «apprendere,» cioè di trarre profitto dai loro errori in semplici giochi, si sono dimostrati poco promettenti come macchine discenti. E perché un sistema sia autonomo, esso deve essere in grado di discriminare parti del suo ambiente, trarre analogie da esperienze passate e trarre profitto da errori di natura piuttosto complessa.

b) Sebbene esistessero già catene di produzione automatizzate «autonome,» si trovavano in balia dell’ambiente per quanto riguardava l’energia ed i materiali.

c) Alcuni computer sono già stati utilizzati per risolvere problemi di circuiti, e in effetti hanno «riprogettato» se stessi. Rimaneva tuttavia quello che sembrava un abisso invalicabile tra questi ed una vera macchina autoriproducentesi.

III. Gli esperimenti

I primi esperimenti comprendevano tentativi di costruire «simbiosi» tra vivente e non vivente: Inculcare nel sistema nervoso di un celenterato un circuito motore elettrico (2); Racchiudere ostriche in gusci di acciaio flessibile (3); Dotare topi di code azionate elettro-idraulicamente (4); e molti altri tentativi analoghi, nessuno dei quali soddisfacente.

IV. La Teoria

In base a questi primi esperimenti, è stato ideato un modular di sistema cellulare, dal funzionamento intermedio tra un polypidon ed una società altamente strutturata. Ogni cellula doveva essere:

a) Organizzata secondo linee simili a quelle delle sue compagne, ed equipaggiata in modo da riconoscere l’ordine e da reagire ad esso.

b) Equipaggiata in modo da riparare avarie infracellulari, nella misura del possibile, e da «mangiare» le cellule non funzionali.

c) Capace di convertire l’energia e il materiale del proprio ambiente in se stessa, e di costruire nuove cellule identiche a se stessa partendo dal surplus d’energia e di materiale, cioè di riprodursi.

d) Capace di impedire la propria distruzione, ricorrendo alla fuga, alla diversione o alla neutralizzazione dell’agente distruttivo. Per esempio, se fatta d’acciaio, essa deve: 1) rifuggire dal contatto con l’acqua marina; 2) verniciarsi per evitare tale contatto; oppure 3) realizzare qualche mezzo chimico per neutralizzare l’azione corrosiva dell’acqua marina.

Non sono stati disponibili mezzi pratici per collaudare e neppure per costruire un modello funzionante di questo sistema teorico, fino al completamento e all’adattamento del computer QUIDNAC.

V. Il Quidnac

Il QUIDNAC, ovvero Quantifiable Universal Integrai DNA Computer, progettato da T. Smilax, presentava tre qualità che lo rendevano raccomandabile per il progetto: a) dimensioni compatte; b) memoria virtualmente estensibile all’infinito; c) capacità di processi analogici complessi di apprendimento. Inoltre, T. Smilax era il capo del Progetto 32.

VI. Princìpi generali di Costruzione delle Cellule

Ogni cellula può essere considerata da alcuni punti di vista come un uovo, con «tuorlo,» «albume» e «guscio.» Ecco uno schema semplificato:

a) Il «tuorlo» consisteva del computer QUIDNAC, unitamente a vari strumenti di abbinamento e di controllo sulle funzioni dell’«albume» e del «guscio.»

b) L’«albume» conteneva utensili automatici da produzione e spazio d’immagazzinaggio per materie prime, utensili e pezzi di ricambio, ed energia.

c) Il «guscio» corazzato metallico conteneva mezzi di locomozione, strumenti sensorii, vernice, semplici estensori e (benché in non tutti i casi) mezzi di comunicazione.

Nell’ambito di questo programma sono state costruite molte varianti, diverse per mezzi di locomozione, apparecchi sensori, mezzi di comunicazione e metodi di produzione. Si prevedeva che, oltre alle varianti proposte dallo sperimentatore, altre sarebbero state adattate e inventate dal sistema stesso.

(1) Tuttavia le controversie che contrappongono la semantica alla sintassi gettano tali dubbi su tali esperimenti da rendere i risultati enigmatici e divertenti, piuttosto che significativi. Quindi, sebbene un computer abbia capito che la risposta a «lancia:? = gatto: atto» era «ancia», non è riuscito a comprendere perché a «testa: letto =? : sedia» dovesse dare come risposta «schiena». Inoltre, un computer ha interpretato la seguente frase «lo spirito è forte ma la carne è debole» come «il whisky è buono, ma la bistecca è poco cotta».

(2) Insuccesso dovuto a temperature ambienti instabili, causa di shock.

(3) Insuccesso dovuto all’imprevista corrasione dell’acciaio da parte dell’acqua marina.

(4) Riuscito, ma di discutibile importanza militare. I risultati sono stati pubblicati separatamente come Mil-P-980089, PROTESI CAUDALI.

«Proprio non lo capisco,» disse Cal, posando il saldatore. Sebbene stesse parlando con Louie Wompler, tutti i tecnici dell’Esercito e della Marina che stavano intorno a loro alzarono la testa, pronti ad approfittare dell’occasione per fermarsi e chiacchierare. Louie se ne stava seduto, con la fronte aggrondata e con un pezzo di carta piegato tra le mani.

«Neanch’io,» disse. «Qui c’è qualcosa che non va. Dovrebbe agitare le ali quando faccio così, ma stia a vedere.» Tirò un lembo, e il quadrato di carta si aprì. Era una pagina d’una rivista di cucina, con la foto di un manicaretto.

«Volevo dire che non capisco il dottor Smilax. Cosa ci fa tutto il giorno, solo là dentro? Non può continuare a lavorare sul Quidnac; pensavo che l’avesse già finito da un pezzo, quando è venuto qui. Perché non possiamo mai vederlo né parlargli? Che faccia ha?»

L’appuntato Martin alzò gli occhi dal diagramma di un circuito. «Sta scherzando?» disse, cacciandosi una Lucky nell’angolo dell’ampia bocca contratta. «Ne ho sentite di tutti i colori sul conto del Vecchio.» Si guardò intorno e si chinò verso Cal. «Ho saputo che fa a pezzi i gattini su quel gran tavolo bianco, là dentro… giusto per divertirsi. Ho sentito dire che è un ciarlatano. Ho sentito dire che non è un vero dottore, solo un chiroterapista che una volta ha salvato la vita a un senatore, e per questo gli hanno dato questo lauto impiego. Ho sentito dire che se ne sta seduto là dentro tutto il giorno a imbottirsi di droga. Ho sentito dire…»

«Stupidaggini!» sputò un tecnico della Marina, con le maniche rimboccate che mettevano in mostra tatuaggi di personaggi di Walt Disney. «La verità è che lui è un russo. Tutte queste precauzioni della Sicurezza sono per impedire che gli altri russi vengano ad assassinarlo. La verità è che ha inventato il sistema per trapiantare cervelli di scimmie nelle teste dei bambini.»

Poi parlò uno scrittore tecnico borghese. Era autore di un famoso manuale militare, L’elevatore a forcone. «A me risulta,» disse cautamente, «che il dottor S. era un famoso chirurgo. Ma mentre operava la madre del Presidente, qualcosa è andato storto. Hanno insabbiato tutto, naturalmente, ma da allora è praticamente in pensione.»

Altri dei presenti li sentirono e si avvicinarono per dire la loro.

«Io ho saputo che i fratelli Frankenstein erano nati attaccati per la testa. Lui li ha separati. Ma ogni tanto gli vengono degli attacchi di mania omicida…»

«… nel racket degli aborti clandestini, vi ricordate? Ne hanno parlato tutti i giornali…»

«Dicono che in Russia avesse scoperto come guarire il cancro, ma poi è stato colpito alla testa e ha perso la memoria…»

«Panpepato,» sospirò Louie guardando l’illustrazione. Sembrava ignaro della discussione che infuriava attorno a lui. «E non posso mangiare dolci, finché mi alleno per l’Origami.»

«… e l’ASPCA scatenerebbe l’inferno se scoprisse quello che sta facendo. Per questo…»

Cal finì il suo lavoro e uscì nel corridoio per allontanarsi dal turbine di teorie sensazionali sul conto di Smilax. Le notizie certe sul conto dell’uomo che stava oltre quella porta proibita si riducevano a zero. Eppure, perché tutte le voci che correvano sul suo conto avevano sfumature orripilanti? Perché nessuno lo vedeva come un vecchio eremita innocuo? Perché tutte le dicerie includevano paradigmi di crudeltà, di demenza, di megalomania? Era come se… ma nessuno poteva mettere in giro voci del genere sul proprio conto. Sul proprio conto? Per un momento Cal si chiese se esisteva davvero un individuo «T. Smilax, M.D.» Cal appoggiò l’orecchio alla porta proibita e ascoltò.

Gli giunse un ronzio meccanico fievole e acuto. Sembrava il rumore di mille trapani da dentista che lavorassero in sordina su mille denti cariati. Il rumore si interruppe per un momento, e Cal udì un altro suono: il guaito di un cagnolino sofferente. Non appena questo incominciò, il ronzio meccanico ricominciò, soffocandolo.

Quando Cal rientrò in laboratorio, Karl gli disse: «La stavamo appunto cercando.»

«Siamo pronti per una prova,» spiegò Kurt. Rimasero ritti, con le cartelle in mano, ai due lati del tavolo da laboratorio, mentre Cal effettuava gli ultimi assestamenti e attivava il sistema.

Era una serie di scatolette di metallo grigio, ognuna delle quali aveva all’incirca le dimensioni d’un pacchetto di sigarette, ammucchiate alla rinfusa in un cubo alto una sessantina di centimetri. Quando l’interruttore che spuntava in cima a ciascuna scatoletta veniva fatto scattare, irradiava a tutte le altre un segnale modulato di avviamento; e per spegnerle si usava lo stesso metodo.

Non appena ogni scatoletta si attivava, cominciava a correre sul tavolo sulle sue rotelle orientabili, evitando di scontrarsi con le sue simili. Quando tutte le scatole erano in movimento, creavano l’illusione di un complicato moto browniano sulla superficie scura del tavolo, di cui esploravano ogni centimetro quadrato.

Kurt e Karl posarono sul tavolo vari pezzetti e frammenti di metallo. I pezzi più piccoli venivano immediatamente divorati dalle singole scatolette, ma le barre più grosse attiravano l’attenzione dell’intero branco. Ormai diventate grandi come pacchetti di sigarette king-size, si buttavano sulle barre come formiche, lavoravano con cesoie e torce minuscole… e ingrossavano.

A Cal dava i brividi guardarle mentre si ingozzavano ordinatamente.

«Qualcuno ha un orologio?» chiese Karl, fissando intento la catena che ornava il panciotto di Hita. Il matematico sospirò.

«E va bene,» disse, consegnando l’orologio a calotta. «Ma ci stia attento, per favore. È un orologio antico, con carica di otto giorni. Un pezzo insostituibile.»

Karl lo fece dondolare per la catena al di sopra del tavolo. Le scatole cominciarono a fremere e a modificare i loro movimenti a casaccio. Si radunarono sotto l’orologio. Karl lo faceva dondolare dolcemente, e il branco grigio reagiva, seguendone eccitato i movimenti. Cominciarono ad arrampicarsi l’una sull’altra, ad ammucchiarsi in una piramide ondeggiante e barcollante, protendendosi verso il corpo metallico dell’orologio, verso il suono del suo cuore ticchettante. Il mucchio grigio cominciò a tremare, di riflesso.

Ogni volta che stavano per raggiungere l’orologio, Karl lo alzava un po’ di più. La sua faccia infantile aveva un’espressione di concentrazione estatica e crudele, mentre stuzzicava la piramide, che diventava più alta e più sottile. Cal vide le scatolette delle file più basse aggrapparsi con gli estensori le une alle altre per consolidare il mucchio. Karl alzò l’orologio una terza volta, una quarta.

La scatoletta più in alto, reggendosi su uno spigolo, si aprì come una minuscola valigia. Due esili verghette si protesero verso l’alto.

«E quelle cosa sono? Sembrano antenne radio d’un’automobile,» disse Louie.

«Stia attento!» urlò Hita. «Sta cercando di agguantarlo!»

«No,» gli assicurò Karl. «Stia a vedere questo.»

Le due verghette passarono oltre all’orologio e salirono uno, due anelli della catena; poi si fermarono. Alcune scatolette si misero a «bere» alla presa di corrente diretta situata sul tavolo e formarono una catena da questa alla piramide. Vi fu un improvviso lampo sfrigolante di luce e l’orologio cadde: la piccola valigia aperta l’afferrò, ritirò immediatamente le corna protese e si richiuse.

«Ehi! Ridammelo!» Il matematico afferrò la scatoletta colpevole e la scosse. Cercò di aprirla a forza, poi la scosse di nuovo.

«Ahi!» All’improvviso la scatoletta piombò sferragliando sul tavolo, cominciò a correre in giro pazzamente e si perse tra le compagne. All’estremità dell’indice di Hita c’era una goccia di sangue. «Mi ha morso!» esclamò incredulo il giapponese.

«Sì!» annuì entusiasta Kurt. «Doveva aspettarselo che si sarebbe difesa. Lei la stava minacciando.»

«Sì, stava solo difendendo la sua proprietà,» aggiunse Karl.

«La sua proprietà!» Hita guardò prima uno dei gemelli, poi l’altro. Sorridevano compiaciuti, come genitori indulgenti. Senza aggiungere una parola, il matematico uscì dal laboratorio.

«Vediamo cosa fanno con questo,» dissero in coro i due fratelli. Spinsero l’oscilloscopio sul suo supporto a rotelle e lo appoggiarono al tavolo. Le creature grige lo notarono immediatamente. Adesso erano di dimensioni diverse: andavano da quelle che quasi non erano cresciute per niente, a quelle che avevano raggiunto il volume di cassette per attrezzi. Finora nessuna si era riprodotta.

Si avventarono intorno all’oscilloscopio e cominciarono ad ammucchiarsi contro il suo fianco. Dalla scatola più in alto uscì un minuscolo cacciavite per sondare l’apparecchio. Trovò una feritoia dell’aerazione, e cercò di forzare. Il cacciavite si ruppe. Vi fu uno scatto smorzato, e il moncherino rientrò.

«State a vedere,» ammonì Karl.

Dalla scatola uscì del fumo, poi un rumore di energico, rapido smartellare. Un attimo dopo apparve una grossa lama di cacciavite ancora rovente. Forzò l’involucro dell’oscilloscopio, ripiegando l’acciaio per aprire un foro grosso come un pugno. Da un’altra scatola uscì un paio di pinze, che entrò nell’oscilloscopio e cominciò a frugare e a rovistare in fretta. Di tanto in tanto si sentiva uno spicinio di vetro infranto. A intervalli regolari, la pinza usciva portando il bottino: una valvola rotta, un pezzo di filo lungo cinque centimetri, mezza resistenza o una scheggia di vetro. La scatola ingoiava tutto, avidamente.

«Ehi!» esclamò Louie, accorgendosi finalmente di quello che stava accadendo. «Se lo vede mio padre!»

Era troppo tardi. In quel preciso momento, Grandison si affacciò sulla soglia. «Se vedo cosa?» Vide la scatola estrarre una manciata di transistor e ingozzarli come se fossero acini d’uva succulenta. «Cosa diavolo succede qui dentro?» Lanciando un’occhiataccia a Cal, gridò: «Neanche due settimane fa le avevo detto di aver cura delle apparecchiature! Cosa diavolo intende fare, a distruggere in questo modo la mia proprietà?»

Cal si mosse per spegnere il sistema ma Kurt lo trattenne per un braccio. «No,» disse. «Commette degli errori, ma imparerà. La settimana prossima ci sarà un’ispezione del generale Grawk dell’Aeronautica. Lasciamolo continuare fino ad allora. Gli daremo un angolo di laboratorio tutto suo, perché possa crescere.» E aggiunse, rivolgendosi al presidente della società: «Non si preoccupi, signore. Questo sistema renderà miliardi alla società per ogni dollaro che costa.»

«Beh, è una consolazione.» L’espressione di Grandison cambiò. «Ma ho avuto una brutta notizia. Hita è morto adesso all’infermeria.»

Cal sbarrò gli occhi. «Cos’ha detto?»

«Hita. L’addetto alle statistiche. È morto per un morso di serpente.»

Con un piccolo scoppio di tuono, il tubo catodico si spaccò. Le scatole continuarono a pascolare tranquillamente.

«Povera ramificazione,» mormorò Cal, con un brivido. «Poveri piccoli anapesti.»

Capitolo Quarto

L’ispettore generale

«‘Es ist ein eigentümlicher Apparat,’ sagte der Offizier.»

KAFKA

Alle tre del pomeriggio del giorno dell’ispezione, quasi tutto il personale dei Laboratori di Ricerca Wompler era radunato sul prato; e tutti indossavano candidi camici da laboratorio. Stavano in file serrate, in un silenzio così perfetto che il suono più forte era il fievole sussurro degli innaffiatoi automatici del prato. In prima fila, con i volti levati verso il sole, stavano Grandison e Louie, che indossavano camici da laboratorio confezionati apposta per l’occasione da Mrs. Lumsey.

Alle tre in punto, un elicottero argenteo scese dal sole. Il tremendo spostamento d’aria fece garrire sull’asta la bandiera americana e i due orifiamma dei premi di cui era stata insignita a suo tempo la società, agitò lievemente la frangia argentata che orlava i camici pieghettati dei due Wompler. L’elicottero si posò sul lussureggiante tappeto verde. Uno sportello argenteo si aprì.

Il generale Grawk uscì, tra un nugolo di donne bellissime. In realtà erano solo quattro donne dai capelli rossi, tutte molto simili, e cioè alte, belle, e dotate di curve che neanche la sartoria dell’Aeronautica era riuscita a cammuffare da spigoli. Erano quattro sane, affascinanti ufficialesse delle Ausiliarie, indaffarate a sistemargli i nastrini, a raddrizzargli la cravatta, a consegnargli il berretto e a riaccendergli il nero mozzicone di sigaro… ad avvolgere, insomma, in una nube di incantevole femminilità…

…l’uomo più brutto che si potesse trovare in un raggio di mille miglia.

Immaginate una faccia rossa e furiosa come quella di un bambino appena nato. Immaginate capelli neri, radi, simili a penne d’oca spezzate, sistemati di qua e di là intorno a una calvizie del colore del deretano d’un babbuino. Immaginate il naso di un pechinese, ma il labbro superiore di un Uomo di Pechino, o sinantropo che dir si voglia, e immaginate ancora il primo perpetuamente arricciato in un’espressione di disgusto ed il secondo contratto in un ringhio invariabile sui denti gialli e storti. Aggiungete occhi sporgenti e sbiaditi, una mascella penzolante che aveva bisogno d’una rasatura dal giorno in cui era stata creata, e il collo di un tricheco particolarmente obeso, completo di tre pieghe di grasso sulla nuca. Ci siete? Adesso aggiungete ciuffi neri per sopracciglia e bozzi asimmetrici a volontà, piazzate il tutto sopra una figura tozza in uniforme, e coronatelo (come fece Grawk in quel momento) con un berretto altissimo carico di fronde d’argento.

Mettendosi il berretto in testa, Grawk accrebbe la propria statura fino ad arrivare all’incirca a un metro e cinquantadue. Sputò fuori il sigaro e si guardò intorno, a braccia conserte.

«Dunque questo,» disse, «sarebbe il grande Laboratorio di Ricerche Wompler, eh?»

«Infatti. Io sono Grandison Wompler e questo è mio figlio Louie. Louie, saluta il generale Grawk.»

«Ciao!» gridò Louie.

Il generale squadrò i Wompler, dalla testa ai piedi, senza ignorare un solo particolare, tranne le loro mani protese. «Carini i camici che avete qui,» disse, puntando un dito verso le frange d’argento. «Chi è il vostro sarto?» Poi, rivolgendosi a una delle ausiliarie: «Prendine nota, Mag. In primo luogo, hanno un servizio di sicurezza inefficiente. Nessuno ha chiesto di vedere i miei documenti. Potevo essere una spia russa, santo cielo. In secondo luogo, credo che i due papaveri più alti, qui, siano froci. Padre e figlio, cribbio! E tutti vestiti con gli abiti di Mammà, immagino, eh?»

L’ampio sorriso di Louie vacillò e scomparve. «Ehi, aspetti un momento,» disse. «La mamma di chi? Aspetti un momento.» Le sue mani enormi si strinsero a pugno.

«Ci tiene tanto che il suo vecchio perda un paio di milioni di contratti governativi?» strillò il generale. «Ci tiene tanto a non lavorare più per il governo? Bene, e allora mi metta una zampa addosso, piccolo. Avanti, mi colpisca!»

Grandison riuscì a impedire che suo figlio accontentasse il generale. Grawk sogghignò lievemente, stiracchiò le pieghe di grasso del collo e si guardò indietro. «Dobbiamo proprio stare qui in piedi tutto il giorno?»

Tutti quanti si accodarono a Kurt e Karl, che guidarono il generale alla porta esterna del laboratorio. Tra la rinnovata indignazione di Grawk, il Marine di guardia insistette per vedere i suoi documenti d’identità.

«Magnifico,» disse lui, mostrandoli. «Veramente magnifico. Questo tipo non vede che indosso l’uniforme di generale dell’Aeronautica Militare degli Stati Uniti. Deve accertarsene. Ma bene. Oh, vedo che qui le cose vanno proprio bene.»

Entrarono.

«Chi di voi è Smilax, il capo del progetto? Lei?» chiese il generale a Karl, che scosse il capo.

«La prega di scusarlo,» disse Karl. «Non può incontrarsi personalmente con lei.»

«Come sarebbe, ‘non può’? Dov’è?»

«Nel suo ufficio.» I gemelli indicarono la porta.

Un sorriso rabbioso fece fremere il labbro scimmiesco. «Capisco. Io non sono abbastanza importante perché esca dalla tua tana per incontrarmi, eh? Un semplice generale con quattro stelle è roba da niente, eh? Immagino che lui parli solo con i Capi di Stato Maggiore o roba del genere.»

Poiché i due gemelli non gli risposero, il generale marciò verso la porta dell’ufficio e provò ad aprirla. Era chiusa a chiave. Alzando delle nocche che parevano fatte per camminarci sopra, bussò seccamente sul cartello SETTORE ASSOLUTAMENTE VIETATO.

Si aprì la porta accanto e un Marine di guardia, armato di mitra, ne uscì fuori.

«Purtroppo lei non può entrare, generale,» disse. «VIETATO L’INGRESSO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO. QUESTO VALE PER VOI,» citò dalla scritta perfettamente leggibile.

«Cosa diavolo vorresti dire? Io sono autorizzato ad accedere ai segreti. Sono qui per ispezionare la fabbrica. Se non sono autorizzato io, chi lo è? Cosa cavolo sta succedendo qui, comunque? Smilax, venga fuori!» Scosse la maniglia e pestò sull’uscio fino a quando il Marine gli puntò contro il mitra accennandogli di levarsi di mezzo.

«Sta’ a sentire,» gli disse Grawk, in tono un po’ più conciliante. «Io ho fatto mille chilometri con quell’elicottero arroventato per ispezionare il progetto di Smilax. E tu vorresti dirmi che quel pazzoide non può neanche uscire dal suo ufficio per parlare con me?»

«Purtroppo no, generale. Il dottor Smilax va e viene come gli pare e piace,» rispose conciso il Marine. «Se vuol mettersi in contatto con lui, sarà meglio che inoltri il suo messaggio ai Capi di Stato Maggiore.»

«…» disse il generale. Cioè, aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Sulla faccia cominciarono a serpeggiargli venuzze purpuree, e gli occhi sbiaditi schizzarono dalle orbite.

Poi girò sui tacchi, lanciando nel contempo una breve risata isterica. «Sta bene,» disse. «Vediamo questo cosiddetto progetto, e facciamola finita.»

In un angolo del laboratorio era stato sgomberato uno spazio considerevole. Lì c’era un oggetto ingombrante, più o meno delle dimensioni di un’automobile, coperto da un telone. I fratelli Mackintosh andarono a togliere il telone, ripiegandolo in fretta, con mosse esperte, e riducendolo alle dimensioni di un cappello.

«Cos’è ’sta roba?» chiese il generale, indicando con la mano il mucchio di scatole grige. Stavano su tre tavoli da laboratorio, fremendo, girandosi lievemente sulle rotelle nascoste perché avevano sentito il movimento attorno a loro.

«È una macchina autoriproducentesi,» annunciarono ì gemelli. «Un Sistema Riproduttivo.»

«Ah sì? Brutto, però, eh?»

Durante l’ultima settimana, spiegarono i due, le scatole avevano divorato più di una tonnellata di rottami di metallo, oltre a una dozzina di oscilloscopi con relativi generatori di segnale, trenta e passa analizzatori, calcolatori da tavolo meccanici ed elettronici, un paio di forbici, un numero incalcolabile di tappi da bottiglia, fermagli, cucchiaini da caffè e chiodi a U (dato che il personale del laboratorio e degli uffici si divertiva a dar da mangiare ai nuovi beniamini), dozzine di batterie per walky-talky e un piccolo generatore a benzina.

Le cellule si erano moltiplicate; avevano più che raddoppiato il numero originale, ed erano cresciute variamente, dalla grandezza di scatole da scarpe e valigette ventiquattr’ore fino alle proporzioni di bauli. Adesso si riproducevano costantemente ma lentamente, in modi diversi. Un baule emetteva, ogni cinque o dieci minuti, un paio di scatolette 7 x 12. Un’altra scatola, straordinariamente lunga, sembrava si stesse segando lentamente a metà.

Il generale Grawk restò imperturbabile. «E cosa fa?» ringhiò.

«Neanch’io ne so molto di queste faccende,» ammise candido Grandison. «Lascio tutte le questioni tecnologiche importanti ai miei ragazzi, qui, Kurt, Karl e Cal. Loro sanno tutto sugli Endimioni e le dottrine revansciste, e roba del genere.»

Con rabbiosa soddisfazione, il generale si rivolse a una delle ausiliarie: «Amy, prendi un appunto. Credo che questo sia un comunista,» sputò disgustato, «oltre che frocio.»

«Lasciamelo picchiare, Papà!» abbaiò Louie. «Lascia che provi l’Origami su di lui.»

Kurt e Karl continuarono a spiegare il sistema, come se non fossero stati interrotti.

«È ergotropo,» disse Karl. «Cioè, può cercare e usare quasi tutti i tipi di energia.» Poi fece un gesto al fratello, come un attore d’operetta a un altro.

«È metallotropo,» aggiunse Kurt. «Alcune cellule sono orientate più verso il metallo, altre verso l’energia. Possiamo dare una dimostrazione?»

Ognuno dei due gemelli sollevò delicatamente una scatola; erano grosse come valigette ventiquattr’ore. «Questa è una cellula che cerca energia,» spiegò Karl. «E quella cerca metallo.»

Le ruote delle due macchine ronzarono, quando i gemelli le posarono sul pavimento. Una girò su se stessa e sfrecciò verso la presa della corrente. L’altra cominciò a correre per la stanza, assaggiando le gambe dei mobili metallici, soffermandosi a mordicchiare lo spigolo di uno schedario. Cal la cacciò via e quella corse a nascondersi dietro a un tavolo da laboratorio, fuori dalla sua portata. Tra il tavolo e la parete, vide la scatola che si avviava verso l’angolo in fondo, in direzione della vasca delle ostriche.

«Carina, per la verità,» disse il generale.

La vasca delle ostriche, con una gamba tranciata, crollò. Quando l’acqua si sparse sul pavimento, la grossa scatola corse via, precedendola e sfrecciando verso la porta. Tra le chele da granchio reggeva un cestino metallico per la carta straccia, un trofeo conquistato faticosamente.

«Fermatela!» urlò Cal. Il generale cominciò a ridere.

«Altolà!» intimò il Marine di guardia. Sparò un colpo d’avvertimento ma la valigetta ventiquattr’ore continuò ad avanzare. Il Marine abbassò il mitra e sparò direttamente alla scatola. I proiettili crepitarono sul cestino della carta straccia. Il Marine scaricò l’arma, mentre la scatola gli guizzava tra gli stivali lucidi e si precipitava fuori dalla porta.

«Tutto quel che doveva fare,» disse Karl, «era raccoglierla.»

Il generale si appoggiò al tavolo, piegato in due dal gran ridere. I gemelli e Cal stavano cercando di intrappolare l’altra scatola. Eccitata dai lampi degli spari, quella correva in cerchio tutto intorno alla stanza.

«Mi pigli un accidente,» continuava a ripetere il generale. «È la cosa più divertente che abbia visto dopo la guerra.» Il suo peso faceva inclinare il tavolo, e le scatole si precipitarono verso di lui, facendolo inclinare ancora di più.

Cal bloccò in un angolo la scatola in caccia d’energia e si piegò per spegnerla. E si accorse che l’interruttore era stato danneggiato, evidentemente da un saldatore: era un grumo di metallo fuso sulla parte superiore dell’oggetto. Poi si ricordò di qualcosa d’altro: sulla tavola aveva visto una quantità di cellule che correvano qua e là con gli interruttori rotti o mancanti. Strano. Avrebbe dovuto chiederlo a qualcuno.

Ma per il momento non c’era altro da fare che raccogliere quella sul pavimento. Cal ne aveva paura, ma aveva ancora più paura che scappasse.

«Attento!» urlò qualcuno. «Ha i piedi sull’acqua salata!»

«Oh, non si preoccupi,» disse Cal. Alzò gli occhi e vide che il tavolo si rovesciava addosso al generale Grawk, e le scatole scivolavano via…

Ma poi la scena si immobilizzò, come un film bloccato nel proiettore. E, come avviene quando una pellicola si blocca, tutto si raggrinzì, bruciò e svanì, lasciando solo un vuoto luminoso e bianco.

Capitolo Quinto

M.I.T.

«O buone usanze di quei tempi antichi, in cui la spada serviva il diritto.»

SPENSER

Cal era cresciuto in una fattoria del Minnesota. Suo padre, Codman Potter, era taciturno persino per un contadino. In effetti, Cal ricordava di avere sentito parlare suo padre due sole volte in vita sua. Codman sembrava un pozzo senza fondo di saggezza: tutte le volte che parlava, la famiglia veniva presa dal panico.

La voce terribile si era fatta udire la prima volta quando Cal aveva otto anni. Sua madre gli aveva regalato un libro delle favole di Esopo, e una sera lui stava sdraiato sul pavimento del soggiorno, leggendo la storia delle rane che volevano un re. Suo padre lo guardò e disse a voce alta:

«C’è un mucchio di cose che non s’imparano sui libri. I libri servono solo a rovinarti gli occhi. È la vita che è importante, non gli stramaledetti libri.»

Atterrita, la madre di Cal gli aveva portato via il libro e l’aveva bruciato. Lui non si era mai sognato di fare obiezioni. Da quella volta in poi, si era limitato a sfogliare le lezioni, a scuola, e aveva evitato di portare a casa gli odiati libri. A casa, il suo unico peccato consisteva nello sbirciare le diciture sulle scatole dei fiocchi di cereali: «Niacina, Tiamina, Riboflavina…» Senza dubbio, pensava, poteva leggere, purché non ci capisse niente.

L’idea di leggere solo le cose illeggibili gli era rimasta fino a quando aveva chiesto al padre il permesso di studiare latino e greco.

«Cosa? Se vuoi andare all’università, per Dio, ci andrai per diventare ingegnere. Altrimenti te lo darò io il latino!»

Allora Cal andò al Miami Institute of Technocracy per diventare ingegnere. Alla stazione, Codman gli rivolse un cenno del capo per tutto saluto.

L’M.I.T. era piccolo. C’erano solo venti studenti e un professore, e nella classe di Cal c’erano solo altri tre allievi. L’intera scuola occupava un grande stanzone sopra una lavanderia a secco. Negli anni che seguirono, Cal avrebbe sempre associato l’odore dei prodotti chimici e il sibilo del vapore al dottor Elwood Trivian.

«Tu nutri un interesse per gli inimicabili classici? Lo lodo, giovanotto. Ahimé, qui non abbiamo tempo di insegnarli. Cogita: sono inutili. Debbo deplorarti a studiare la scienza, e la scienza soltanto.

«Io stesso ebbi una meticolosa istruzione nei classici, e oggi altro non sono che un umile pedagodo. Oh, guadagno meno qui in un intero anno di quel che percepirei in una sola settimana nelle ferrovie, a guidare un treno! E questo non richiede affatto erudizione!»

A metà del corso, Cal cambiò la materia fondamentale, passando da Arte dell’Ingegneria all’Arte della Biofisica. Scrisse a suo padre che questa aveva più a che fare con la vita. In un certo senso, diceva la verità, perché gli permetteva di sedere accanto a Mary Junes, che egli amava.

Mary non ricambiava il suo amore; probabilmente non l’avrebbe mai amato; non sapeva nemmeno come si chiamasse. Sembrava che lei amasse Harry Stropp, il loro compagno di classe alto, robusto e bruno, che aveva scelto di laurearsi in Educazione Fisica.

Mary era una ragazzotta cicciottella, dall’aria dura, con una gran massa di capelli gialli che sembravano cotone sudicio. Indossava sempre maglioncini presi a prestito, assortiti e combinati con calzoni e calzoncini presi in prestito. Aveva la mania delle pastiglie nere per la tosse. Il suo alito sapeva di mentolo, le sue mani erano sempre appicciccose, e la sua bocca larga e sciatta era macchiata di nero. Cal sognava di imprimere un bacio su quelle labbra gommose.

Lui aveva combinato le cose per sederle vicino in tutti i corsi: Attualità (in cui il dottor Trivian leggeva a voce alta il suo quotidiano del mattino), Prassi Fonica e Valutazione della Termodinamica. Lei, comunque, continuava a passare le notti con Harry.

Barthemo Beele, il quarto allievo della classe e studente di Giornalismo, pubblicava la rivista ciclostilata della scuola, The MIT Worker’s Torch. E lamentava energicamente che Mary e Harry si facessero vedere a baciarsi in pubblico, in editoriali intitolati: «Non c’è più pudore?»

Un giorno Harry si buscò un raffreddore. Dopo aver resistito durante le lezioni del mattino, si arrese e andò a casa. Mary si gettò deliziosamente in bocca una pastiglia nera per la tosse e strizzò l’occhio a Cal. «Come ti chiami?»

Dopo una settimana Harry si alzò dal suo letto di dolore, e scoprì che Cal gli aveva portato via la ragazza.

«Non me ne importa,» disse lui, flettendo il braccio robusto e studiandosi il bicipite. «Non è l’unico sasso sulla spiaggia. Ci sono tanti altri pesci nel mare.» Si isolò da tutto e da tutti, andò a nuotare e a pescare da solo, e fece una quantità di footing sul tetto sopra l’aula scolastica. Cal si sentiva terribilmente colpevole ogni volta che sentiva il suono delle tristi e gigantesche scarpe da tennis che correvano instancabili sul tetto.

The MIT Worker’s Torch assegnò a Cal il compito di pronunciare il discorso di chiusura dell’anno scolastico. Lo stesso giorno, annunciò il fidanzamento di Miss Mary Junes con Barthemo Beele.

«Quando è successo?» chiese Cal a Mary, levando il foglio ciclostilato con mano tremante.

«Oh, sai, quella notte della settimana scorsa, quando tu avevi da studiare?»

«Ma… fidanzati

«Già. Subito dopo la laurea, io e Barty andremo a vivere da qualche parte nel West, dove lui ha già un ottimo posto di direttore d’un giornale. Non è magnifico?»

Magnifico. Nei giorni che seguirono, Cal non sapeva più quello che faceva. Pianse senza vergognarsene, strappò tutti i biglietti di lei («Posso prendere a prestito la tua maglietta, tesoro? Grazie, M.»), e fece lunghe passeggiate, qualche volta evitando tutti i luoghi che gli ricordavano il suo amore, altre volte cercandoli. Cominciò a pensare che avrebbe potuto diventare uno scienziato impegnato, dedito alla ricerca della verità.

Quasi tutti i cento e più laboratori, fondazioni e accademie cui aveva fatto domanda per ottenere uno stanziamento di ricerca gli risposero che non avevano bisogno di detentori della laurea piuttosto insolita in Arti Biofisiche. Ma il Laboratorio di Ricerche Wompler inviò una lettera piena d’interesse e una scheda IBM da compilare e da rendere. Nel minuscolo riquadro della scheda dove doveva scrivere il nome della sua scuola c’era posto solo per la sigla MIT. A stretto giro di posta gli arrivò la lettera d’assunzione.

The MIT Worker’s Torch continuò la sua campagna moralizzatrice (ora diretta contro il direttore e la sua fidanzata) fino all’ultimo giorno. Il dottor Trivian tenne un discorso commovente ai suoi quattro nuovi laureati, anche se in gran parte le sue parole furono sommerse dai sibili del vapore provenienti dal piano di sotto, dove vivevano le camicie.

«Oh, non preoccupatevi,» disse Cal. Gli sembrava di stare ancora cercando di acchiappare la cellula fuggiasca, ma continuava a trovarsi in mezzo a nubi bianche. Vapore?

All’improvviso si accorse che le nuvole erano vere: lui stava guardando il cielo. Rotolò su se stesso e si levò a sedere, con le mani affondate nell’erba fresca.

Un cassetto di schedario con la scritta «Segreto» gli passò davanti, inseguito da una torma di individui in camice bianco. «Fermatelo! Acchiappatelo!»

Che strano, pensò Cal con un sorriso tollerante. Inseguire i cassetti degli schedari. Si avviò intorno all’edificio. Altre scatole, fatte di bidoni della spazzatura, armadietti, cartelli piegati, brulicavano sul prato, inseguite da figure umane. Presso la recinzione un gruppo di Marines aveva montato una mitragliatrice leggera. Adesso si stavano difendendo metodicamente dai lenti, ottusi, metodici attacchi di un fornello e di una piccola cassaforte che operavano in tandem. Finalmente un carrello elevatore a forcone arrivò a precipizio, afferrò la mitragliatrice e, apparentemente, la divorò.

Ridacchiando, Cal girò attorno a un altro angolo dell’edificio. L’elicottero giaceva sul fianco, e orde delle scatole metalliche lo stava piluccando. Cominciava a sembrare lo scheletro d’una balena arenata.

Il generale non rideva più; stava urlando ai gemelli: «Qualcuno la pagherà! Il vostro giocattolo sta facendo a pezzi la proprietà del governo!»

«Proprietà del governo un corno!» ruggì Grandison. «Quel marchingegno sta facendo a pezzi la mia proprietà! Se non riesce a spegnerlo…»

«Mr. Wompler, generale Grawk,» disse Karl in tono solenne, «non esiste un modo sicuro per spegnerlo… senza mettere a repentaglio l’intero esperimento, cioè. Non possiamo assolutamente permettercelo.»

«Spegnerlo dovrebbe essere la cosa più facile di questo mondo,» disse Cal. «Ogni cellula ha un interruttore sintonizzato che…»

«Adesso non più,» disse Karl con un sorriso condiscendente. «Era così la settimana scorsa. Ma le mutazioni più sofisticate del sistema si sono liberate già dal tempo di questo apparato.»

«Benissimo, allora, spegnerò quelle che non se ne sono liberate, e le altre le farò a pezzi.»

«No di certo!» esclamò Kurt, furioso. «Provi a entrare in quel laboratorio e a combinare qualcosa, e lei è licenziato!»

Grandison esitò, già meno sicuro di sé. «Forse non dovrebbe…»

«Non mi interessa proteggere la proprietà di nessuno,» disse Cal, senza alzare la voce. «A me interessa proteggere delle vite umane. Sembra che nessuno di voi si renda conto della pericolosità di questo sistema.»

«Che cosa contano poche vite, di fronte a…» cominciò Karl, ma Cal non stette ad ascoltarlo. Sfrecciò oltre l’angolo, verso l’entrata principale, e rientrò nel laboratorio.

Era a malapena riconoscibile. Si erano formate cellule sempre più grosse, alcune vitali ed altre no, che si erano ammucchiate negli angoli della stanza e divoravano la struttura stessa dell’edificio. Dal soffitto, dove prima c’era l’impianto di illuminazione a lampade fluorescenti, pendevano festoni di cavi isolanti. Le lampade erano sparite, e persino i fili di rame erano stati strappati dai rivestimenti isolanti che penzolavano come pelli di serpenti abbandonate. In tutta la sala non c’era un pezzetto di metallo che non fosse stato trasformato in qualcosa d’altro. Paratie di acciaio, armadietti, schedari, scrivanie, tutto era stato fuso e cambiato in forme fantastiche.

Davanti a Cal stava una barriera compatta che gli arrivava alla vita, formata da cellule morte o morenti saldate insieme, come gli esoscheletri dei polipi morti che formano il corallo. Cominciò a scalarla, cercando una cellula che avesse l’interruttore intatto.

Ne trovò una, e fece scattare l’interruttore. Il sistema si spense lentamente, per gradi. Cal sentì il ronzio sommesso delle dinamo che rallentavano nella cantina, il cigolio degli ingranaggi che si fermavano.

Nello strano, improvviso silenzio, Cal uscì di nuovo fuori, nel sole.

Ad eccezione di alcuni Marines, che stavano pestando a morte una valigetta, tutti coloro che fino a poco prima correvano come pazzi ad inseguire le cellule adesso stavano immobili, sparsi sul prato come gruppi di statue. E tutte le statue guardavano Cal.

Finalmente Grandison Wompler si mosse, scuotendo mesto il capo. «Non avrei mai creduto che lei potesse farmi una cosa simile,» disse. «Perché, ragazzo mio, perché? Io l’ho assunto che era appena uscito dalla scuola, le ho offerto la migliore occasione che un giovane potesse sognare, ed ecco che appena gliene capita la possibilità, mi pugnala alla schiena.»

«Ma…»

«Oh, non cerchi delle scuse per tirarsene fuori. Ho saputo tutto quanto, qui, dai Frankenstein. Lei ha appena trasformato una macchina da un miliardo di dollari in un gran mucchio di rottami.»

«È esatto,» disse Karl, annuendo energicamente. «Si rende conto che spegnendo il Sistema Riproduttivo ha disattivato completamente la memoria del QUIDNAC?»

«Ma era impazzito!» gridò Cal. «Ha già ucciso un uomo. Avrebbe potuto…»

«Oh, è facile per lei dire quello che avrebbe potuto succedere,» tuonò Grandison.

«No, Papà.» Louie posò una mano sulla spalla del padre. «Non prendertela così per lui. Non se lo merita.» E condusse via il vecchio. Grandison parve piegare sempre più le spalle ad ogni passo.

«Sì, silenzio assoluto per motivi di sicurezza. Non deve trapelarne una parola,» disse Grawk parlando al telefono da campo. Riattaccò e si voltò a fronteggiare Cal. «Allora, ragazzi,» chiese ai Mackintosh, «cosa ne facciamo di questo qui? Lo fuciliamo? Possiamo farlo legalmente, sapete. Colto in flagrante atto di sabotaggio, eccetera eccetera.»

Un uomo di mezza età dall’aria bonaria e dagli occhiali privi di montatura si avvicinò, e parve interessarsi alla discussione.

«Possiamo risparmiarci il disturbo,» disse Kurt, sogghignando. «Ormai è innocuo… e sono sicuro che quando la Commissione del senatore Dill avrà finito di sistemarlo… se capisce quello che intendo dire…»

«Intanto, lei è licenziato,» disse brusco Karl. «È meglio che se ne vada prima che la facciamo arrestare per violazione di proprietà, eh?»

Grawk rise dell’espressione costernata di Cal.

«Non si disturbi a consegnare il camice,» disse Kurt. «O il regolo calcolatore. Se li tenga. Basta che se ne vada.»

«Ma siete impazziti tutti quanti? Vi ho salvato la vita, probabilmente, e vi comportate come se io fossi un Giuda. Lei, signore,» disse, appellandosi allo sconosciuto dall’aria mite. «Mi dica, le sembro un traditore? Pensa che sia stato davvero un delitto tanto grave spegnere quella maledetta macchina?»

L’uomo sorrise con aria di scusa. «Purtroppo sono personalmente interessato alla faccenda e non posso esserle d’aiuto,» disse, con un lieve colpo di tosse. «Vede, io sono Smilax, e quella che lei ha ucciso era la mia macchina.»

A quanto pareva, non gli restava che andarsene. Mentre Cal si allontanava, sentì il generale che parlava a voce alta.

«Se volete sapere quello che ne penso io, è un maledetto bastardo che se ne va. Un tipo capace di vendere così il suo paese… Be’, è una fortuna per lui che io non sia armato. Perché se ero armato…» Grawk abbassò la voce e aggiunse qualcosa che Cal non poté sentire. Comunque, fece ridere pazzamente le quattro ausiliarie.

Aveva perduto l’impiego, era caduto in disgrazia, veniva scuoiato vivo dal disprezzo di quattro belle donne. Cal non era in grado di pensare razionalmente. Perché, se ne fosse stato in grado, avrebbe rivolto a se stesso una domanda:

Come mai un sistema tanto intelligente ed adattabile, e capace di autodifesa, si era arreso quasi senza combattere?

Capitolo Sesto

Le scatole che divorano Altoona

«Ho insegnato a parlare ai miei ingranaggi Nicky-nicky Poop, tic-toc.»

LOUIS SACCHETTI (attrib.)

«Altoona, Nevada, che sorge presso Parsnip Peak (2.847 m) e non lontano da Railroad Valley, dove non passa nessuna ferrovia, io canto,» scrisse Mary Junes Beele sulla macchina da scrivere L.C. Smith di suo marito. Sotto alla frase, batté una fila di asterischi: tanti fiorellini. La pancia gonfia del suo pollice premette il tasto della spaziatura.

Dalla stanza accanto giungeva lo sferragliare d’una stampatrice a mano. Il direttore Barthemo Beele stava sfornando la seconda edizione dell’Altoona Weekly Truth. La sua mano, pensò Mary, che fa dondolare la culla… Mary maledisse il giornale e maledisse il direttore del giornale, suo marito da una settimana.

I tasti della macchina da scrivere sembravano pastiglie nere per la tosse. Quelle pastiglie nere per la tosse che ad Altoona non si trovavano. Uno dei tasti aveva spezzato un’unghia a Mary. Lei cominciò a rosicchiarla, maledicendo tutto quello che le veniva in mente… maledicendo soprattutto Altoona. Se quel marinaio non l’avesse portata via molto presto, sarebbe morta a stare in quel paesino. Mentre si rosicchiava sprezzante un’altra unghia, Mary maledisse la sua sporca sfortuna.

Anche Altoona aveva una triste storia. Nel 1903, era stata l’unica fornitrice di reuttite dell’intero Emisfero Occidentale. La reuttite era, ovviamente, il metallo con cui si facevano le migliori reticelle per lampade a gas, le più luminose e durature. Non si conoscevano altri possibili usi per la reuttite.

Sulla Park Avenue di Altoona, i magnati di quattro diverse compagnie ferroviarie avevano costruito le loro case accanto a quelle d’una dozzina di proprietari di miniere e di speculatori. Avevano costruito grandi castelli bianchi, sogni gotici tutti cartigli e trafori, con bovindi, bifore e trifore, archi a forma di cuore, torri orgogliose ed edera dappertutto. Il sottosuolo era crivellato dalle gallerie di vecchie miniere, tanto che adesso molte di quelle case pesantissime c’erano sprofondate. Park Avenue era soprattutto una fila di cancellate arrugginite e di terreni invasi dalle erbacce. Di tanto in tanto, tra i grovigli delle altee, si poteva intravvedere una torre, con il cappello conico di sghimbescio.

Soltanto due di quelle stranezze erano ancora salde. Erano entrambe grige, e trascinavano il sudicio merletto dei loro portici; erano aggobbite, panciute, senescenti. Una di esse, dopo che il proprietario, ridotto in rovina, si era buttato sotto uno dei suoi treni, era stata trasformata in magazzino di ferramenta. Adesso conteneva tutte le reticelle di reuttite prodotte tra il 1904 e il 1929… quasi tutta la reuttite esistente. Rappresentava venticinque anni di tentativi di trovare qualche altra utilizzazione che non fosse fabbricare reticelle per lampade a gas.

L’altra casa era ancora, come era sempre stata, casa Smilax. Phineas Smilax, primo ed unico presidente della Gardnerville, Fernley e New York Railway («la linea ferroviaria della reuttite») aveva investito parecchio nel minerale. Aveva sperato che, quando lui e Altoona fossero diventati più ricchi, la linea sarebbe veramente arrivata ad est fino a New York.

Phineas cominciò a costruire la sua ferrovia nel 1885. I lavori procedettero lentamente, in parte a causa di certe stranezze del suo metodo di assunzioni. C’era l’ordine di licenziare chiunque venisse sorpreso a picchiare un cavallo, ad annegare un gattino o a legare un barattolo alla coda di un cane. Inoltre Phineas rifiutava di assumere i coolie, come facevano i suoi concorrenti, e preferiva invece gli studiosi della Bibbia, che a sua richiesta cantavano inni mentre lavoravano. Il suo inno preferito era La ferrovia del cielo. Sebbene pagasse il salario di un dollaro l’ora, per quei tempi principesco, gli studiosi erano così poco adatti a quel lavoro che i progressi si misurarono dapprima in pochi metri al mese, poi in centimetri. Nel 1913, il suo impero si estendeva da Altoona a Warm Springs, novantasette chilometri di panorama coperto di piante d’artemisia selvatica, che Phineas Smilax ispezionava ogni giorno con il suo vagone privato.

Quel vagone era l’unico lusso che Phineas si concedeva, perché amava la moderazione in tutte le cose. Il superfluo del suo patrimonio veniva sempre distribuito in beneficienza, e in particolare non stringeva mai i cordoni della borsa con la Società Protettrice degli Animali. Tutti conoscevano Phineas come un uomo temperato e buono… con i suoi figli come con gli estranei. Non castigava mai suo figlio e sua figlia se non con uno sguardo di rimprovero, e quello era già più che sufficiente.

Forse l’unica pecca che i vicini gli trovavano consisteva nella scelta dei suoi servitori. Phineas dava lavoro, nella sua grande casa di Altoona, a individui usciti dal Manicomio Criminale del Nevada.

«Criminali, puah!» esclamava. «Sono solo poveri sventurati, che languiscono perché nessuno rivolge loro una parola buona.» Per più di vent’anni non aveva avuto altri servitori, e sarebbe stato impossibile trovare dei dipendenti più premurosi e fidati di loro.

Un giorno, nel 1913, Phines era seduto nella sua carrozza privata, e guardava dal finestrino la distesa di artemisie selvatiche, i fiori che rappresentavano l’emblema dello stato del Nevada. «Oggi mi sento vecchio,» disse al segretario, il quale in seguito affermò che quella era la prima volta che aveva sentito lamentarsi il suo principale. «Sento che mi sto avvicinando alla fine.»

Il segretario gli consegnò un telegramma che gli aveva spedito da Altoona il suo maggiordomo. Phineas Smilax lo lesse e cadde dalla poltrona, morto.

Il telegramma diceva: «SUA FIGLIA INCINTA RIPETO GRAVIDA STOP L’HO PICCHIATA CON FRUSTA DA CAVALLI E CACCIATA DAL PAESE ANCHE SE IO SONO IL PADRE DEL BAMBINO STOP PREGO DARE DISPOSIZIONI PER ELIMINARE SUO VESTIARIO RITRATTO ECCETERA STOP FIRMATO CRAGELL.»

La figlia non fu mai ritrovata. Cragell, dopo aver ammesso di avere violentato Lotte Smilax e di averla terrorizzata per costringerla a tacere, era stato rispedito in manicomio. Phineas jr. si era addossato i debiti paterni e si era fatto una famiglia con una serva scema. Dalla propria figlia ebbe un numero indeterminato di figli, e si impiccò nel 1930, dopo aver venduto quel che ancora restava della ferrovia per pagare i suoi fornitori clandestini di liquori. Nella casa grigia vivevano ancora tre generazioni di Smilax analfabeti, che campavano coltivando l’orto. Nessuno di loro parlava mai della parente reproba, Lotte.

Adesso le rotaie arrugginite si estendevano da Altoona in tre direzioni. Sola la Nevada Southern continuava a far viaggiare un treno alla settimana, tra Altoona e Las Vegas. Mary Junes aveva segnato in rosso sul calendario il giorno in cui quel treno sarebbe partito. Quel giorno era domani.

I Beele erano lì da due settimane, e si erano fatti una certa reputazione. Mary non andava a genio a nessuno. Alle donne non piaceva l’aria con cui guardava gli uomini. Agli uomini non piaceva il modo insolente con cui li respingeva. A nessuno piaceva il modo in cui trattava suo marito.

Barthemo, invece, era corteggiato almeno quanto Mary veniva snobbata. In fin dei conti, era il pettegolo più formidabile che si fosse mai visto in paese, dato che nella sua prima settimana di attività aveva già sbandierato uno scandalo nuovo e ne aveva riesumata una dozzina di vecchi. In seguito all’uscita del primo numero dell’Altoona Truth, due famiglie non si parlavano più, c’era in aria un divorzio e un duello. Lui riferiva tutto, con obiettività scrupolosa e con una deliziosa ricchezza di particolari. La gente diceva che un giorno Beele sarebbe stato capace di descrivere imparzialmente anche il tradimento di sua moglie.

Satura di soave odio per il marito, Mary entrò nella stamperia, dove lui stava correggendo una bozza.

«La vostra collaborazione è gradita,» lesse Beele, poi si fermò per aggiungere una «o» che mancava. Non salutò la moglie, non diede segno di essersi accorto della sua presenza, «…per quanto tempo continuerà tutto questo?» lesse, e poi corresse in: «…per quanto tempo continuerà questo abominio?»

«…continuerà questo blablabla?» fece ironicamente Mary.

Beele non smise di leggere.

«Non ci viene mai nessuno in questo maledetto paese,» disse lei.

«Non succede mai niente in questo maledetto paese,» aggiunse.

«L’unica volta che vediamo una faccia nuova in questo maledetto paese,» concluse, «è quando qualcuno si perde sulla strada per Las Vegas.»

«E l’autostoppista? Lui non è diretto a Las Vegas, ma al Deposito Munizioni della Marina.»

«Oh, il marinaio. Quello non conta. Mi sono già stufata di lui,» disse Mary arricciando il naso. «A proposito, stasera posso prendere la macchina?»

Suo marito annuì, senza alzare gli occhi della bozza. «Vedi se ti riesce di scoprire,» le disse, «perché ha tatuati sulle braccia Dumbo e Bambi. Potrebbero essere il tema per un pezzo di colore… l’interesse umano, sai bene, qualcosa per la pagina dei cruciverba.»

Quella sera, mentre Barthemo Beele inseriva sull’Altoona Truth una notizia dell’ultima ora sull’adulterio della moglie di un direttore di giornale, Mary e il marinaio, sul sedile posteriore della Ford, scoprirono di essere molto sbronzi. La Ford era parcheggiata alla periferia del paese, nei pressi dell’entrata della Miniera dell’Albanese Perduto.

«Ho sentito qualcosa,» borbottò il marinaio. «Sarà mica tuo marito, eh?»

«Lui? Non preoccuparti,» disse Mary, posando una mano su Bambi. «Senti, adesso lui è occupato a mettere a nanna il giornale. Lui è un po’… non matto, neurotico, direi. A lui interessa solo mettere a nanna quel maledetto giornale, l’Altoona Truth. Vuole buttare fuori un’edizione della domenica, l’Altoona Altruist. Puah!» Mary buttò giù rabbiosamente un sorso di liquore, poi un altro.

«Ssst! C’è qualcuno qui in giro, pupa. Ehi, forse è l’Albanese Perduto, eh? Ah ah.» Si riempì di gin un bicchiere di carta e lo inghiottì. Finché erano così sbronzi, sembrava che non fosse il caso di smetterla.

«Non dirlo neanche per scherzo!» ansimò Mary. «La gente dice che se vedi l’Albanese Perduto, viene la fine del mondo. Gesù, verrebbe fuori un bell’articolo per Barty, no? Cambiamo argomento. Hai intenzione di portarmi via domani con il treno, sì e no?»

«Sicuro che ti porto via.»

Apparve una sagoma bassa, massiccia, di un grigio spettrale, proprio sull’ingresso buio della miniera. Attraversò correndo il tratto di terreno illuminato dalla luna, dirigendosi verso di loro.

«Cribbio!» urlò il marinaio. «Sono ubriaco fradicio!»

«Puoi bere quanto vuoi,» mormorò insonnolita Mary. Lei non aveva visto la sagoma. «Purché mi porti via dall’Altoona Truth… Voglio dire da…» Si appisolò, appoggiando la crocchia di capelli sudici su Dumbo. Il marinaio non se ne accorse. Guardava fuori nel buio, spaventato, temendo di scorgere qualche altra allucinazione. Dunque era quello il delirium tremens! Aveva terminato solo pochi giorni prima il suo turno di servizio al Laboratorio di Ricerche Wompler, dove si era scatenato l’inferno… quelle piccole scatole grige. Dovevano essere rimaste incastrate nel suo subconscio, e il delirium tremens le aveva animate, teorizzò il marinaio. Qualcosa sferragliò sotto la macchina, ma lui rifiutò di ascoltarlo. Chiuse gli occhi e sorseggiò il gin fino quando si addormentò, con una certa percentuale di alcol nel sangue.

«Ehi, dov’è la macchina?» gemette il marinaio.

«Siamo stati derubati!» esclamò Mary.

Barthemo si affrettò a scattare foto dei due, da vari angoli, mentre lo sceriffo li interrogava sulla rapina. I quattro compilarono l’elenco degli oggetti rubati:

1 braccialetto per caviglia, da donna;

1 fibbia metallica da borsetta;

1 cerniera lampo metallica, da vestito;

1 rossetto;

1 portacipria;

2 dollari d’argento e monete di taglio più piccolo in numero imprecisato;

2 accendini;

1 pettine d’alluminio;

Parecchie forcine per capelli;

Varie chiavi;

2 otturazioni d’argento, di Mary;

1 otturazione d’oro, del marinaio;

1 automobile Ford.

«Andrò a telefonare alla polizia stradale, non appena la linea tornerà a funzionare,» disse lo sceriffo. «È strano, sapete. Quasi tutte le auto, in paese, sono state rubate. Persino le biciclette, e non so che altro. E magari non lo crederete, ma è sparita anche la radio della mia auto.» E si avviò in direzione del Town Talk Bar.

«Molto interessante,» fece meditabondo il direttore del giornale. Anche lui aveva sentito strane dicerie e strane lamentele per tutta la mattina. E adesso, mentre sedeva sull’erba accanto a Mary e al marinaio, la sua mente cominciò a sfornare i titoli per un’edizione straordinaria:

NIENTE RUOTE? ANTI-CLIMAX

«Le linee telefoniche non funzionano,» mormorò. «E neanche la corrente elettrica. Strano.»

«Ti lascio, Barty,» disse Mary.

«E almeno una dozzina di auto rubate. E vecchie, per giunta.»

«Parto con il treno di mezzogiorno insieme a Lovey,» disse Mary, con fermezza. Il marinaio aveva l’aria abbacchiata.

«Si direbbe che qualcuno abbia voluto isolare Altoona dal resto del mondo,» disse Beele.

«Vado a Las Vegas. Non tornerò più.»

«Posso pensare che loro non vogliono farci sapere quel che succede fuori di qui, oppure, molto più probabilmente, loro vogliono impedire che fuori si sappia quello che succede qui. Molto strano.»

«Mostro! Mostro!» urlò Mary, a pochi centimetri dagli occhi vacui del marito.

«Ecco, è un’idea,» disse lui, distratto. «Ci hanno rapiti i mostri venuti dallo spazio, e noi non lo sappiamo ancora.»

Si chiese se alla vicina stazione radar dell’Aeronautica erano al corrente del bizzarro fenomeno… o se ne avevano risentito in qualche modo. Nuovi panorami di titoli si schiusero alla sua vista interiore, chilometri e chilometri di articoli in esclusiva.

NIENTE RADAR?

L’AERONAUTICA ISOLATA

Questa mattina non tosteremo il nostro pane e non potremo fare un brindisi alla nostra azienda elettrica. Le linee sono cadute. Sono cadute tutte le linee che ci forniscono energia, riscaldamento, luce, comunicazioni, i cordoni ombelicali che ci collegano al resto del mondo. Inoltre, non abbiamo più mezzi di trasporto. In città non è rimasto un solo veicolo: né un’automobile, né una bicicletta, neppure un pattino a rotelle. Eppure, ancora più preoccupante è la prospettiva dei danni alla nostra rete difensiva nazionale. Speriamo che la nostra autorità si sbrighino ad accorrere sul posto e a rendersi conto…

Mary e il marinaio non rimasero a disturbare oltre le sue fantasticherie. Si alzarono, si scrollarono la polvere di dosso e si avviarono verso la stazione. Barthemo si chiese se non sarebbe stalo più appropriato un sarcastico comunicato:

A causa di circostanze che, a quanto pare, sfuggono al controllo delle autorità cittadine, ci sarà una breve interruzione di alcuni servizi pubblici…

Poi si accorse che Mary se ne era andata. Alla stazione. Ma se coloro che stavano isolando Altoona dal resto del mondo erano meticolosi come sembrava, era certo che loro non si sarebbero lasciati sfuggire il treno. Avrebbe portato la cinepresa. Li avrebbe filmati proprio nell’atto di rubare un treno: uno spezzone di 60 secondi, con la sua cinepresa nuova.

A mezzogiorno meno un minuto era nascosto sotto il marciapiedi della stazione, con la cinepresa accanto. Quando si era fermato in ufficio a prenderla, una dozzina di persone aveva cercato di attaccare bottone con lui. C’erano storie contrastanti a proposito dell’interruzione dell’erogazione dell’acqua e del gas, di cassette che camminavano… e una diceria particolarmente curiosa a proposito di un Poltergeist nella vecchia casa dei Ruytek, il magazzino delle reticelle per lampade a gas.

CHI INFESTA IL MAGAZZINO?

Il vicinato sconvolto da rumori spettrali

Barthemo Beele non riusciva a vincere l’impressione di non essere solo nell’oscurità.

Il treno da Las Vegas arrivò sbuffando tranquillamente con dieci minuti di ritardo, caricò i sacchi della posta, si rifornì d’acqua, prese a bordo due passeggeri, una donna e un marinaio, e ritornò sbuffando nella direzione da cui era venuto. A parte il fatto che il macchinista dai grossi occhialoni s’era sbracciato a salutare la passeggera mentre saliva in carrozza, sembrava che non fosse successo niente di strano.

All’improvviso, vicino a Beele ci fu uno scricchiolio. Il direttore dell’Altoona Truth si voltò e vide una grossa sagoma massiccia che stava inghiottendo la cinepresa. Sembrava che lo facesse con una certa difficoltà, come se fosse già sazia; eppure restava lì, mentre con le chele da granchio raccoglieva anche le briciole. Dunque era quello!

«Eureka!» gridò e, com’era sua abitudine, tradusse senza che ce ne fosse bisogno: «Ho trovato!» Balzò gioiosamente in piedi e batté con violenza la testa contro il tavolato del marciapiedi sotto il quale si era nascosto. Che altro mangiano le cassette metalliche? si chiese, mentre la coscienza lo abbandonava. Cosa mangerei, se fossi una cassetta metallica? Di certo, non il direttore di un giornale…

Si svegliò in un momento imprecisato del pomeriggio e si accorse che la cosa non era più vicina a lui. Tastò con la lingua e scoprì che le otturazioni erano sparite. E la sua cintura non funzionava più. Non c’era più la fibbia. Questo confermava che non aveva sognato. Cribbio! Era sparita persino la spirale metallica del suo block-notes; persino il piombo della sua matita. Adesso vedeva il titolo a caratteri di scatola:

LO GNOMO METALLICO DIVORA DENTI E FIBBIE

Furba come una volpe, la scatola ha un appetito da capra.

Magari con un disegno della cosa che masticava un barattolo di latta. Barthemo era certo che sarebbe stato sensazionale.

Le voci che raccolse nel passare per Park Avenue erano più che semplici voci. Dischi volanti, migliaia di mostri dall’alito di fuoco, secondo le testimonianze di cittadini rispettabili. Magnifico, pensò lui. Poi diventerà un telepate grande come una casa. Mostrò i denti non più otturati ai propalatori di quelle dicerie. Barthemo Beele si considerava un fedele servitore della verità, nemico dell’immaginazione.

Oh, è come se mi avesse letto nella mente! pensò, fissando casa Ruytek. Il Poltergeist non infestava più l’edificio… era diventato l’edificio. Il grigio castello decaduto aveva preso vita: si inclinava e oscillava in una specie di goffa danza. La mente di Beele rifiutò di funzionare… se non per maledire la perdita della cinepresa. Sarebbe stato un filmato da un milione di dollari, e poteva capitare solo lì nel West, dove i mostri erano mostri.

L’edificio malandato fremeva e si squassava oscenamente… Beele pensò al cadavere putrefatto d’una vedova che ballasse il twist… E poi si protese verso l’alto, come se si alzasse in punta di piedi. Le torri smisero di afflosciarsi e torreggiarono davvero, mentre i chiodi si svellevano stridendo dalle assi, le travi erose dalla muffa si sgretolavano, e da ogni crepa saliva ribollendo la polvere di un secolo.

La vecchia casa fu scossa da un ultimo brivido, scrollandosi di dosso ornamenti e pezzi di finestre come se fossero gocce d’acqua, ondeggiò, si inclinò assurdamente su un angolo e…

Scomparve. Andò a pezzi così bruscamente e completamente che sembrò il trucco di un illusionista. In un istante, l’edificio solido si trasformò in un mucchio appiattito di legname. Un branco saltellante di lucide cassette metalliche irruppe dalle macerie e si aggirò intorno, senza meta, come per orientarsi. Poi le cassette si separarono e schizzarono via in direzioni diverse, ma con fare molto deciso. Il direttore dell’Altoona Truth notò un particolare comune a quella schiera di mostri: sembravano rivestiti di reticelle per lampade a gas, appicciccate chissà come.

I MOSTRI MARZIANI

Saccheggiano un magazzino e indossano reticelle per lampade a gas

Beele seguì una delle cassette su per Park Avenue, fino all’angolo di Broadway, dove si soffermò davanti all’idrante antincendio.

I CANI PROTESTERANNO

Ma la cassetta stava circondando l’idrante. Si aprì e si richiuse racchiudendolo. Un attimo dopo, dal gruppo uscì un piccolo geyser. Beele vide una specie di rozza ruota da mulino, foggiata come una girandola per bambini, girare al centro del getto. Dal gruppo si staccò una piccola scatola che subito schizzò via. Parte della sua superficie, notò Beele, era di ghisa verniciata di rosso.

L’INVASORE SPOSA L’IDRANTE

Può durare questo matrimonio?

In lontananza la torre dell’acquedotto, una gigantesca palla da golf in bilico sul suo tee, cominciò a inclinarsi. La guardò deformarsi e crollare sotto un brulicare di sagome grige.

ADDIO, ACQUEDOTTO MIO

Beele pensò di riempire semplicemente il titolo di punti interrogativi, ma nella cassa dei caratteri non ce n’erano abbastanza. Non ce n’erano abbastanza neppure per tutte le domande che intendeva rivolgere ai suoi lettori.

Tornò sui suoi passi e si avviò verso l’ufficio. Fu per puro caso che sbirciò dall’uscio del negozio di ferramenta degli Smilax (dopotutto, anche quello aveva le finestre fracassate, come tutti gli altri edifici dell’isolato) ma ciò che vide lo indusse ad arrestarsi.

O meno, ciò che non vide. Il negozio era completamente vuoto, saccheggiato, ripulito. Trovò il proprietario, Milo Smilax, che piangeva sdraiato sul pavimento del retro. Naturalmente, la montatura metallica dei suoi occhiali era scomparsa. Balbettò qualcosa a proposito di certe lavatrici. Milo, che non era mai stato troppo coerente anche nelle sue giornate migliori, piagnucolava:

«Sono spacciato, mi hanno rovinato! Quelle stramaledette lavatrici mi hanno rovinato, hanno mangiato tutto, hanno mangiato i fucili. Aiuto mamma quelle mascalzone. Hanno mangiato il carbone e correvano dappertutto come granchi hanno mangiato le seghe e le viti e i coltelli e le canne da pesca e…»

Il dottor Trivian avrebbe detto, se fosse stato lì, che gli scaffali erano «esausti». In pratica, restavano soltanto i cataloghi delle sementi, i cartellini dei prezzi, e un cartello pubblicitario molto malridotto. Milo lo fissò, mentre continuava a blaterare a vanvera. «VI SERVONO OTTIMI UTENSILI?» Le pupille delle due O di SERVONO fissavano l’occhio guercio di OTTIMI. «MIRATE I NOSTRI MIRINI!»

«È la fine! Rovinato! Chiodi, seghe, catene, tutto sparito…»

«La fine? Su su! Non è questo il modo di parlare, Milo! Ammetto che sul momento la situazione sembra molto brutta, ma non abbiamo ancora il quadro generale, vero? Voglio dire, dobbiamo combattere questi cosi, non starcene qui a piangere. Dobbiamo…»

Ma Milo non lo ascoltava: ricadde lungo disteso e riprese a piagnucolare. «Chiodi, viti, bulloni, seghe, chiavi, martelli, tenaglie, asce, lime, fucili, coltelli, ami, doppiette, pistole, accette, coltelli, bombe, pugnali, morte…»

«Su, su,» disse Beele, sgusciando fuori dalla porta. «Si faccia coraggio. Sono sicuro che stanno per arrivare i rinforzi.»

Il problema, rifletté, era interessante. Nessuno sapeva con che nome chiamare gli invasori. Lui avrebbe potuto inventarne uno, aggiungere un neologismo al dizionario. Per esempio, UNCROB (Unidentified Creeping o Crawling Objects: Oggetti Striscianti Non Identificati).

Archiviò mentalmente quel nome insieme al pezzo su Milo.

ATTACCO SFERRATO ALLA FERRAMENTA

Le avide macchine divorano chiodi e scalpelli

Davanti a lui, una bambinetta piangeva seduta sul marciapiedi. Un cagnaccio cattivo, gli disse, l’aveva morsicata al popò. E poi aveva perso la sua bimba, cioè la sua bambola radiocomandata a sette transistor: gliel’aveva portata via un gigante grande e grosso. Beele le disse di non piangere, perché era sicuro che stavano per arrivare i rinforzi.

Allungò il passo per tornare in ufficio. Sarebbe stata la più grande notizia mai pubblicata da un giornale:

LE SCATOLE CHE DIVORARONO ALTOONA

Persino le borchie dei blue jeans d’una bambina!

Incontrò una specie di macchina da scrivere. Era rotta e sformata, ma Beele poté ancora leggere il nome, L.C. Smith sulla piastra posteriore. Beele bestemmiò e si mise a correre. Una cassa di caratteri, che adesso era diventata qualcosa d’altro, uscì ondeggiando dal suo ufficio, lo costrinse a spostarsi sulla porta, e si avviò maestosamente lungo la strada.

Quando entrò, Beele ebbe l’impressione di sentire la stampatrice a mano che invocava aiuto. Spalancò la porta della tipografia e si precipitò dentro, ma troppo tardi! La macchina stava già assumendo la solita forma di scatola. Quando le si avvicinò, quella lanciò un ultimo clangore, si avventò verso la vetrata e piombò in strada. Cominciò a suonare l’allarme, ma venne subito soffocato.

LA STAMPATRICE RAPITA!

L’ufficio era stato ripulito completamente. Che ironia, pensò Beele. Senza rendersene conto, gli invasori meccanici avevano distrutto l’unico mezzo che poteva dar loro la fama meritata. O avevano fatto apposta? Barthemo Beele si precipitò di nuovo fuori.

Era già buio quando arrivò a una cabina telefonica che funzionava ancora, sull’autostrada. L’aprì, infilò una monetina nell’apposita fenditura, e chercò di chiamare i servizi stampa. Ma ogni volta che riusciva a ottenere la comunicazione e diceva «Chiamo da Altoo…» la comunicazione s’interrompeva, e la sua monetina cascava fuori. Beele cominciava a chiedersi se per caso era stato lui a rovinare l’apparecchio quando lì accanto si fermò una macchina della polizia, servizio stradale. Gli uomini che c’erano a bordo, però, non erano poliziotti.

Aprirono a forza la porta della cabina e lo trascinarono fuori.

«Ci dispiace di essere così bruschi con lei, signore,» disse uno, toccandosi la tesa del cappello. «Ma è in gioco la sicurezza della nazione. Lei è Beele, di Altoona? Il direttore del giornale?»

«Sì, ma…»

«Abbiamo ordini precisi di insabbiare questa faccenda, Beele. Purtroppo dovremo portarla via oppure…»

«E sta bene, uccidetemi!» disse lui. Barthemo Beele, l’intraprendente giovane direttore, piangeva. «Ormai, non ho più nulla per cui vivere. Ho perduto la mia macchina tipografica, i miei caratteri, mia moglie, la mia macchina da scrivere, tutto! Avanti, sicari prezzolati al soldo d’una burocrazia fannullona! Uccidetemi! Avete già ucciso l’unica cosa che mi stava a cuore… la mia grande notizia!»

«Volevo dire, dovremo portarla via oppure arruolarla come nostro agente. Lo facciamo spesso con i giornalisti, e poi assegnamo loro incarichi all’estero. Naturalmente, dovremo indagare meticolosamente sui suoi precedenti… ci vorrà un’ora o giù di lì. Cosa ne dice? Le piacerebbe andare in Marocco?»

Agente della CIA! Beele lo vedeva con l’occhio della mente: le palme, gli intrighi, la possibilità di spazzar via la corruzione alla fonte!

«Accetto,» disse, sorridendo tra le lacrime.

Capitolo Settimo

Le gazze di Marrakech

«E in quattro avevano un sembiante, come di una ruota in mezzo ad una ruota.»

EZECHIELE 10:10

Haroun Al Raschid faceva il difficile e fingeva di non capire cosa voleva comprare da lui Suggs.

«Questo mi mette in una situazione imbarazzante,» disse, esalando il fumo del kif dietro la mano ingioiellata. «Vede, M’sieur Suggs, ufficialmente non so nulla della missione francese in questa città. Come posso darle l’informazione che cerca? Se lei se ne servisse, la mia reputazione presso i francesi potrebbe risultarne… come dire?… offuscata. Potrei perdere amici e influenza… e per che cosa?»

«Lei ci deve aiutare,» fece torvo Suggs. «Ci deve dare almeno il nome del loro uomo. So che lo conosce. Haroun sa tutto quello che succede a Marrakech.»

Al Raschid si rilassò leggermente, arrotondando la bocca carnosa in una smorfia di modestia. «Lei mi lusinga, M’sieur.» La stoffa aderente dell’abito gli impediva di stravaccarsi sul basso divano, come sembrava avesse intenzione di fare; era con il massimo sforzo che si muoveva in qualunque direzione, persino per prendere il suo tè alla menta. «Le assicuro che vorrei aiutarla, M’sieur Suggs, come un amico aiuta l’amico. Ma… non so. Il rischio è grande.»

«Lei deve sapere qualcosa di utile.» L’uomo della CIA cercava di trattenere il respiro ogni volta che uno sbuffo di fumo di kif gli arrivava vicino, ma stavolta si sporse sopra il basso tavolo d’ottone e parlò con un sussurro concitato. «Basta che mi dica il nome di quell’uomo, ecco tutto. È per il bene del Marocco e per quello degli Sta… delle Nazioni Unite! Tutto il mondo ne trarrà beneficio.»

«Ah, ma è la stessa cosa che dice quel gentiluomo russo. Chi di voi due dice la verità?» Con uno scintillio d’astuzia negli occhi, Haroun aggiunse: «Che cosa deve credere un uomo semplice come me? Io non sono istruito. Io sono solo un povero mercante, come vede.»

L’ampio gesto della mano ingemmata indicò il pavimento a parquet, gli splendidi tappeti, le pareti a mosaico, le finestre a sesto acuto dai vetri istoriati, e i delicati candelieri simili a gioielli. La stanza era un caos di stoffe e d’altro ancora: ottone, legno, cuoio, seta, lana, argento, velluto. Oltre un’arcata marmorea, Suggs poteva scorgere il fresco giardino dove un pavone bianco passeggiava avanti e indietro tra le piante di limoni.

«Come vede, non ho l’aria condizionata. Non ho la televisione. Non ho nessuno dei lussi così comuni nel suo paese, no, neppure lo spazzolino da denti elettrico.»

Suggs si rimboccò la gellaba ed estrasse un portafoglio smilzo. «Naturalmente siamo disposti a pagare,» disse. «Qualunque cifra ragionevole.»

«Ah!» Le narici esili di Haroun esalarono due sbuffi gemelli di fumo aromatico. «Allora devo vincere i miei scrupoli di coscienza. Ecco la metà destra di una foto dell’uomo che lei cerca. Si chiama Brioche. Marcel Brioche. È pilota delle Forze Aeree francesi… e chissà che altro, eh?»

«Nessuno è esattamente quello che sembra,» disse giovialmente Suggs. Mentre la sua mano sinistra si protendeva per prendere la mezza fotografia, la sua destra, ancora nascosta dalla gellaba, sparò con la pistola a silenziatore. Haroun Al Raschid non si mosse, si limitò a grugnire leggermente mentre sul petto della sua camicia di seta si allargava una chiazza purpurea di sangue.

Suggs non restò a vedere l’inevitabile espressione di sorpresa sulla faccia della sua vittima (dopo nove anni nella CIA, ci si stufava di quelle espressioni), ma ripose la foto nel portafoglio e uscì sulla strada assolata. Alzò il cappuccio, mentre correva. Quei movimenti scatenarono nelle sue budella fitte brucianti di dissenteria.

Una folla di ragazzini laceri l’assediò quasi immediatamente e lo seguì fino all’albergo, cantilenando:

«M’su, M’su! Vuoi gazza, bella gazza? Vuoi bel ragazzo? Kif, fumare! Mister! Ehi! Vuoi foto? Vuoi vedere gazza che balla? Piace frusta di cammello? Me molto forte, M’su! Vuoi che lucida scarpe? Me guida, M’su! Me guida. Vuoi bella gazza?»

Il travestimento non era poi efficace come lui aveva sperato. Nell’atrio dell’albergo, Suggs comprò una cartolina con gli incantatori di serpenti al mercato di Dar El Fna, e un francobollo. «Cara Madge,» scrisse. «Mi diverto sempre molto, anche se tu e Susie mi mancate tanto. Con affetto, Bubby.» La consegnò al concierge per farla spedire.

Scotty, il suo collega, era seduto sull’unica poltrona comoda della loro stanza e leggeva un giornale arabo. «L’hai avuta?» chiese, senza alzare la testa. Suggs annuì, mentre chiudeva la porta a chiave. «Bene. Haroun ti ha dato dei fastidi?»

«Un po’. Ho dovuto ucciderlo.»

«Peccato. Avremmo potuto servirci di lui. Cos’è successo?»

«Te lo dirò non appena avrò finito il rapporto, Scotty.» Si tolse la gellaba, si allentò la cravatta, sedette alla macchina da scrivere portatile e infilò sul rullo un modulo in triplice copia.

«Oggetto: un proiettile, calibro .375,» batté. «Data dell’uso: 1° giugno 19…» Continuò, battendo lentamente, orgoglioso delle spaziature perfette. Quando ebbe finito, tirò fuori la mezza fotografia e la mostrò a Scotty.

«Aveva intenzione di vendere a loro l’altra metà,» spiegò.

L’altro lo guardò sorpreso. «Loro? Credevo che Vovov lavorasse da solo in questa faccenda.»

«Adesso non più. È troppo grossa per Vovov da solo. Loro sanno benissimo quello che sappiamo anche noi… che questo Brioche è un astronauta, che la Francia ha intenzione di mandarlo sulla Luna. Hanno spedito qui il loro migliore agente, Vetch. Forse per controllare il suo subordinato, o forse per pescare Brioche.»

«Come fai a sapere che Vetch è in città?»

Suggs agitò un dito, scherzosamente. «Oh, ho le mie spie, ho le mie spie,» disse. «Ma quello che mi preoccupa è: loro hanno già l’altra metà della foto? Sanno che faccia ha Marcel Brioche?»

«Sei sicuro che sia lui?»

Suggs annuì. «Dobbiamo metterci in contatto con lui prima che loro gli offrano… la Luna.»

Nessuno dei due sorrise. Piombarono in un silenzio meditabondo, intenti a cercare di sbrogliare il mistero della mezza fotografia.

…Perché Haroun gli aveva offerto solo mezza foto? si chiese Suggs. Non aveva senso, se aveva avuto l’intenzione di vendere l’altra mezza ai russi. O forse aveva semplicemente avuto intenzione di tenersela per ricavarne altro danaro. Haroun era troppo furbo per cercare di venderla a tutte e due le parti in causa.

Ma c’erano altre cose che non quadravano. La folla dei ragazzini… l’avevano riconosciuto per un americano, nonostante il travestimento! Forse avevano rubato loro l’altra mezza fotografia? Che genere di foto avevano cercato di vendergli? Ricordò le manine sudice e scarne che lo afferravano… potevano averlo derubato? Forse, d’altra parte, avevano invece cercato di comunicargli qualcosa… per esempio, l’ubicazione del razzo. Cosa avevano detto a proposito delle gazze? «Vuoi gazze?» Ma Marrakech era in mezzo al deserto, a centinaia di miglia dalle gazze! Era un codice, quindi: ma non riusciva a immaginare che cosa indicasse. Stava per chiederlo a Scotty, quando qualcosa lo bloccò: uno sguardo scintillante, scrutatore. A cosa stava pensando Scotty?

…Scott scrutò il suo collega che scrutava lui. Sì, c’era un’aria colpevole stampata sulla faccia di Suggs: un’aria colpevole e preoccupata. Quel giorno aveva ucciso, quasi senza ragione. E poi era reticente circa le sue fonti d’informazione. Come aveva fatto a scoprire cosa avevano intenzione di fare i russi? Che cosa gli passava per la testa in quel momento? Scott si rallegrò di aver preso la precauzione di infilare la pistola a fianco del cuscino della poltrona.

…Se i ragazzini l’avevano riconosciuto nonostante il travestimento, c’era una sola persona che poteva averli messi sull’avviso… la sola persona che sapeva della sua visita di quel pomeriggio… Scotty! Suo collega nella CIA da nove, fantastici anni!

All’improvviso, Suggs provò un senso di paura. Scotty stava nascondendo una pistola dietro quel giornale arabo? Beh, c’era sempre la macchina da scrivere. Il suo carrello poteva sparare un proiettile da fucile… Scotty probabilmente l’aveva dimenticato.

Sembrava impossibile che il collega di Suggs si fosse venduto, ma doveva essere proprio così. A chi? si chiese Suggs. Non ai russi, o avrebbe saputo di Vetch. Allora lavorava per il Marocco? Per la Francia? Oppure giocava un gioco ancora più complicato?

…A che razza di gioco stava giocando Suggs? si chiese Scott. Aveva ucciso Haroun perché il mercante sapeva troppo? Haroun lo aveva accusato apertamente di fare il doppio gioco? Non c’era dubbio che Suggs agisse per conto di qualcun altro, come una rotella dentro alla ruota più grande: ma per conto di chi lo faceva? Si chiese come mai aveva lasciato che Suggs lo ingannasse per tanto tempo. Tutto il suo comportamento lo tradiva… la mezza fotografia, l’aria troppo distratta con cui sembrava guardare un portacenere, mentre l’altra mano era nascosta, alla ricerca d’una pistola.

…Non c’era neanche un po’ di cenere, osservò Suggs, ma ieri però ce n’era. Qualcuno aveva pulito il portacenere. Perché? Notò l’aria troppo distratta con cui Scotty stava sbadigliando. Si stava preparando a giocare la sua carta?

…Suggs si stava preparando a giocare la sua carta?

…Sì, ora!

…Ora! Spara attraverso il giornale!

…Ora! Suggs pestò il tasto del punto interrogativo sulla macchina da scrivere.

Fuoco e acciaio esplosero. Scotty scivolò in avanti, morto.

«Mi dispiace davvero, Scotty,» mormorò Suggs, fermandosi accanto al cadavere. «Vorrei che potessi avere un funerale da eroe, almeno. Ma devo proteggermi, vecchio mio. Il rumore dello sparo richiamerà la polizia. Devo assicurarmi che l’albergo paghi i poliziotti e faccia insabbiare la tua morte.»

Aprì una cassetta d’emergenza e ne tirò fuori un reggiseno di pizzo nero e un rossetto. Affibbiò il reggiseno attorno al torace squarciato del cadavere e gli truccò di rosso le labbra esangui. Poi fissò intensamente la mezza fotografia, mandò a memoria l’indirizzo scritto a tergo, la fece a pezzettini e la ingoiò.

Dei passi pesanti risuonarono per le scale mentre lui se ne andava dal balcone. Suggs lanciò un’ultima occhiata al cadavere.

«Non preoccuparti, Scotty,» disse di slancio. «Quei bastardi la pagheranno, per avermi costretto a far questo. Te lo prometto.»

Capitolo Ottavo

La fine del mondo

«Di che cosa sono fatte le bambine? Contengono destrosio, maltosio, glutammato monosodico, atomi e coloranti artificiali; con aggiunta di propionato di sodio per ritardare il deperimento.»

VECCHIO DETTO

Sebbene il giornalista della televisione sembrasse in preda all’isterismo, Susie Suggs non era per niente agitata. In effetti, non guardava neppure lo schermo del televisore portatile: le serviva solo come peso piatto sulla pancia, mentre eseguiva gli esercizi di respirazione profonda secondo l’insegnamento del rotocalco Lady Fair. Gli esercizi le mettevano sonno, e la voce della minuscola figura sembrava affievolirsi in un ronzio di zanzara. Sembrava quasi che un omettino piccolo piccolo le spuntasse dalla pancia: ma quell’idea era così vagamente inquietante che la svegliò del tutto. Dimenticandosi di contare i respiri, Susie cominciò a prestare attenzione al televisore.

«È un subdolo attacco dei russi? Oppure una delle nostre armi segrete ci è orribilmente sfuggita di mano? Oppure si tratta di qualcosa che siamo ancor meno preparati ad affrontare, un’invasione di esseri extraterrestri? Sapremo tutto fra pochi istanti, dopo questo comunicato commerciale della Vortex Corporation.»

Lo schermo diventò bianco, poi mostrò un grosso missile candido in una rete di nere cancellate di ferro. Il fuoco eruppe dagli ugelli e il cilindro gigantesco si sollevò nell’oscurità.

«Ecco… il Moloch!» intonò con voce solenne un annunciatore. «La più recente arma americana! Guardate come fila!» Il missile salì, si inclinò, e sparì nella notte. «E adesso, guardate il Moloch che distrugge questo simulacro di villaggio nemico!» Qualcosa di bianco piombò a capofitto in un villaggio tra l’erba, e tutti e due esplosero contemporaneamente («Evviva!» gridò l’annunciatore) in un attimo di bagliore accecante.

Stacco, poi inquadratura di un complesso laboratorio, dove un gruppo d’uomini in camice bianco e con le cuffie in testa osservava, su una dozzina di piccoli monitor televisivi, la scena della distruzione.

«Questi uomini esperti e geniali hanno progettato Moloch. Essi fanno parte della Sezione Missilistica della Vortex, uno dei tanti programmi con cui la Vortex si propone di rendere sempre più forte l’America. Ogni uomo, qui, è un genio, interamente votato al nostro programma missilistico in espansione incessante. Sono stati loro a risolvere i problemi del lancio e della guida del Moloch… e di altri diciassette missili militari. Sì, alla Vortex, la rappresaglia è una filosofia di vita.

«La Vortex è molte cose per molta gente. Vediamo qui un’acciaieria diretta dai computer prodotti dalla Sezione Apparecchiature della Vortex. E qui,» disse l’annunciatore, e Susie si interessò maggiormente alla scena, poiché rappresentava una sala operatoria, «qui vediamo il dottor Toto Smilax che esegue un intervento chirurgico a cuore aperto… con un bisturi prodotto dalla Sezione Coltelleria della Vortex.

«Vortex!» esclamò concludendo l’annunciatore. «Prima in guerra e prima in pace… e prima nell’arrivare al cuore dei suoi compatrioti.»

Ricomparve il giornalista. «Altoona, Nevada,» disse. «Fino ad oggi, una delle tante cittadine del West. Adesso… chissà! Forse la vita continua come al solito ad Altoona… a quanto ne sappiamo. Ma da questa mattina presto c’è stata una totale censura sulle notizie, imposta dagli sforzi congiunti dell’FBI, della CIA, e della National Security Agency. Ci è stato impossibile stabilire un qualunque contatto con la cittadina.

«Che cos’è accaduto? In tutta sincerità, non lo sappiamo. Potrebbe trattarsi, come insinuano alcuni, di un’invasione russa, o addirittura d’una invasione extraterrestre. Altre fonti più responsabili ritengono che si tratti invece di una specie d’esperimento, e almeno una fonte solitamente attendibile ipotizza che potrebbe essere un’arma segreta sfuggita al controllo. Noi non lo sappiamo.» Ogni volta che ripeteva questa frase, il viso del giornalista sembrava un po’ più raggrinzito, un po’ più vicino alle lacrime. Per altri quindici minuti disse a Susie tutte le altre cose che non si sapevano. Poi l’annunciatore, con quella sua voce accattivante, che faceva scorrere caldi, piacevoli fremiti nel pancino di Susie, ritornò per presentare il missile Hermes-Aphrodite a due stadi. La pubblicità era così stupida, pensò Susie, riprendendo gli esercizi di respirazione.

Guardò l’orologio Lifetime e notò che si stava facendo molto tardi. Doveva sbrigarsi a prepararsi per uscire con Ron. E aveva avuto intenzione di studiare per la prova di Chimica Organica in programma per lunedì mattina. Era sabato sera e lei non aveva neanche aperto il libro!

In fretta, Susie fece una doccia con Nice, il sapone attivo ventiquattro ore su ventiquattro, che liquida gli odori che agli altri saponi sfuggono, e si passò addosso abbondantemente lo SHUR, per essere proprio sicura di averli eliminati tutti. Dopo essersi cosparsa di talco Lady Clinge, si infilò nella guaina-mutandina Modaform sei volte elastica, la guaina mutandina che r-e-s-p-i-r-a, poi mise il reggiseno Sportivo Modaform, e cominciò a darsi il profumo Classique, il profumo che fa di ogni donna un’imperatrice, di ogni uomo uno schiavo.

Dopo aver indossato il maglione nero e la gonna nera, Susie sedette alla toeletta per farsi la faccia. Dopo aver coperto le lentiggini dorate con il fondotinta blanc, si incipriò con la cipria Kown di Rubella Gorne. E si diede, sulla bocca perfetta, un rossetto bianco che si chiamava Eraser.

Per gli occhi, Susie scelse il solito assortimento di ombretti di Nora Hart, soprattutto ostrica e verde colibrì, ma sfumati con tocchi di borgogna e bronzo. Poi, dopo essersi spazzolati i capelli ed averli spruzzati abbondantemente di Airnet, non le restò altro che scegliere i gioielli.

Su un vassoio di velluto, nel cofanetto di Susie, erano appuntati il distintivo ΔKE di Bob, il distintivo di Giovane Repubblicano di Len, e il distintivo del Vietnam di Jim. Le sue dita passarono su questi, senza fermarsi neppure su Vivi allegro! della Pepsi Cola, Dai, Marmotte! o Vinci con Dewey! ma arrivarono in fondo alla fila e scelsero il Mandala della Pace che le aveva regalato Ron. Mentre se lo stava appuntando, sua madre comparve sulla porta.

«C’è quell’orribile Ron,» bisbigliò la madre, teatralmente. «Oh, mi rincresce tanto che non mi vada a genio, cara, ma è così… così sfuggente. E porta sempre vestiti vecchi. E adesso… adesso si fa addirittura crescere la barba! Ugh!»

Reprimendo a stento la sua repulsione a quel pensiero, Susie disse: «Ma vedi, mamma, è uno dei ragazzi più ricchi di tutta Santa Filomena. Ci terrai, spero, che io abbia un bell’avvenire?»

«Non lo so. Proprio non lo so.» Il viso abbronzato di Madge si incise di rughe di preoccupazione. «Ho sposato tuo padre perché aveva un brillante avvenire nella compagnia d’assicurazione. E guardami un po’ adesso!»

Susie guardò sua madre e vide un’attraente donna di mezza età che sembrava uscita dalle pagine di Lady Fair, al quale Madge del resto era abbonata: capelli scuri striati d’argento, una snella figura da ragazzina; l’unica cosa che tradiva l’età erano le lievi rughe del volto. Susie si augurò fervidamente di poter avere anche lei quell’aspetto, a trentacinque anni.

Madge continuò: «Mi rendo conto che non dovrei cercare di dirti come devi vivere, dopo lo sbaglio che ho commesso io. Tutte le volte che penso a quel mascalzone di tuo padre, e a come si diverte laggiù con quelle sue ragazze dell’harem… neanche una cartolina in più di tre mesi! Bene, oggi sono stata dall’avvocato, e gli intento causa di divorzio. Se lui vuole divertirsi, posso farlo anch’io! Finché il gatto non c’è, i topi ballano!»

Madge aveva l’aria di aver bevuto. Si avvicinò a passi incerti allo specchio e si esaminò gli occhi, tirando di qua e di lì la pelle delle palpebre. Quasi non si accorse che Susie aveva infilato gli stivali di feltro bianco, le aveva dato un bacio di saluto e aveva detto: «Così si fa, mammina! Piglialo a calci nel… nel sedere! Ciao!»

Presso il campus dell’University of California, a Santa Filomena, c’era una strada che ostentava quattro caffè ben frequentati, ma nessuno era popolare quanto The Blue Tit, il Capezzolo Azzurro o la Cinciallegra Azzurra, a seconda di come si preferiva interpretarlo. Per evitare fastidi con le autorità universitarie, il padrone del caffè, Kevin Mackintosh, aveva dipinto sull’insegna una bella cincia azzurra. Come avveniva in tutte le serate festive, una folla s’era riversata nel Blue Tit per ascoltare musica folk e poesia; ma quella sera era una folla cupa e depressa. Molti, come Susie e Ron, erano arrivati in motocicletta sotto l’acquerugiola, e la sala era piena di vapore e dell’odore acido della lana bagnata.

Su di un podio in fondo alla stretta sala, un poeta stava leggendo a voce alta un foglio che teneva molto vicino alla faccia. Quando lui si girò per mettersi meglio nella luce, Susie riconobbe Kevin Mackintosh.

«Tempopoesia numero quattordici,» lesse.

«Johnson nell’Omaha: sonori ticchetti dall’interno dell’orologio. Deve esserci sempre una vittima Nel passo freddo segreto Nessun altro motivo che il patriottismo e il puro disgusto. Ritorna al lavoro, senza stivali. Qui ricerca uno spirito esplosivo.»

«Cribbio!» esclamò Susie. «Gli esplosivi mi fanno venire in mente che avrei dovuto studiare per la prova di Chimica Organica di lunedì.»

«Ssst,» disse Ron. «Dopo domani non ci sarà più un altro giorno.»

«Non so neanche la nomenclatura di Ginevra, niente di niente.»

Ron sorrise. Kevin Mackintosh la guardò incredulo. «La nomenclatura di Ginevra è finita,» disse. «E anche la Convenzione di Ginevra. E anche Ginevra.»

«È la fine del mondo,» spiegò Ron.

«È vero,» disse qualcun altro. «La tromba del giudizio ha già squillato.»

«Cosa vorreste dire?» chiese Susie, con un lieve sorriso. «Non ho mica capito.»

«È la fine di tutto, pupa,» disse Ron. «Come dicono alla radio. Non hai sentito i notiziari?»

«Questa è la nostra festa della fine del mondo,» annunciò Kevin. «Portate chi volete.»

Qualcuno ridacchiò, ma il poeta non sorrideva.

«Per favore, qualcuno vuol dirmi cos’è questa storia?» chiese Susie. Pensava e pensava, ma non riusciva a ricordare cosa aveva sentito al telegiornale delle sei.

«Quella cosa ad Altoona, Nevada,» spiegò Ron, «è un missile russo, oppure l’Orrore da un Altro Mondo, oppure uno dei nostri incubi urlanti. Se è un missile dei russi, rappresaglia nostra. Poi rappresaglia loro. Eccetera, fine.

«Se è una cosa venuta dallo spazio, perché il governo insabbia tutto? Perché è qualcosa di veramente orribile, come un essere che ha inghiottito tutta la città, oppure dei mostri atomici che lanciano raggi X dappertutto. Qualcosa che noi non possiamo fermare, che finirà per vincere.

«Se è una delle nostre armi sfuggita al controllo, cosa può essere? Qualche bomba? Non è probabile, altrimenti le altre nazioni starebbero già facendo un chiasso d’inferno. Molto più probabilmente una malattia atroce… diciamo un cancro contagioso universale.»

Nella sala, tutti tacevano. Si rannicchiavano l’uno contro l’altro, nella semioscurità, attendendo la fulminea luce accecante che li illuminasse e li trasfigurasse nell’istante finale. Le azioni e le parole più importanti non avevano senso, le più banali erano cariche di significato, quasi elevate alla dignità di sacramento.

Susie si sentì venire le lacrime agli occhi. Le sembrava così ingiusto. Lei aveva diciassette anni ed era ancora vergine, e adesso era troppo tardi. Desiderava soprattutto rinunciare alla sua inutile, piccola virtù, ora che veniva la fine di Tutto, ma in un certo senso era un sacrificio troppo piccolo: e poi c’era sempre la possibilità che il mondo non finisse, e allora come avrebbe fatto a spiegarlo a Madge? All’improvviso, furiosamente, Susie provò un sentimento d’odio per la Fine del Mondo! Avrebbe voluto strapparle gli occhi!

«Ma… ma… credo che dovremmo uscire a protestare!» dichiarò alzandosi. Gli altri la fissarono, senza capire cosa intendeva dire. «Non hanno il diritto di farci una cosa simile! Non hanno il diritto di toglierci in questo modo il mondo, quei porci egoisti!»

Uno dei giovani esplose all’improvviso in una risata acuta. «E cosa credi che dovremo fare?» chiese, beffardo. «Scrivere ai nostri deputati al Congresso?»

«No,» disse Susie, seria seria. «Ma non credo che risolveremo niente a starcene qui seduti a piangere, santo cielo! Dobbiamo uscire… e protestare! Dovremmo marciare su quell’Alt… quel posto, insomma, e dire chiaro e tondo cosa ne pensiamo di loro!» Pestò sul pavimento lo stivaletto bianco. «Oppure lasceremo che ci portino via tutto

La sala era tutta un frastuono. Alcuni l’incitavano a continuare, altri riflettevano sulle sue parole. L’atteggiamento sprezzante di Susie era magnifico. Qualcuno cercò invano di far notare che la protesta contro l’inevitabile era inutile.

«Be’, certo che è inutile!» scattò Susie. «Non sono tanto scema da non capirlo! Ma è ancora più inutile starcene qui seduti… a bollire, no?»

«Credo che abbia ragione lei,» fece Ron, sogghignando. «Perché diavolo non andiamo laggiù a protestare? Sono soltanto dieci ore di macchina.»

«Protestare contro cosa?» chiese Kevin. «Contro la fine del mondo?»

«Sicuro, perché no?» fece Ron. «Come nell’Attacco degli Uomini-Fungo: tutti protestavano contro gli esperimenti pericolosi, giusto? Come in Goz, dove facevano dimostrazioni contro l’impotenza dell’esercito, vi ricordate? E nel Giorno che la Terra prese freddo…»

«Va bene, va bene, ma per che cosa stiamo protestando?» chiese Kevin. «Se posso essere così stupido.»

«Per esempio, contro l’isolamento di una città americana ad opera della CIA, e contro la violazione della libertà di parola! Venite, prepariamo un po’ di cartelli, e cerchiamo qualcuno che abbia la macchina per portarci.»

Kevin si arrese. «Lasceremo che sia la tua ragazza a dirigere lo spettacolo,» propose. «L’idea è stata sua. Ma non avrei mai pensato che avrei passato le ultime ore della mia vita a dipingere cartelli di protesta.»

«O a farti arrestare,» aggiunse Ron. «Agli amici questa storia non piacerà.»

«Se vedo un poliziotto,» disse il poeta, «ricordatevi che ho un affare urgente da sbrigare a Tangeri. Non me la sento di andare molto in là con questo scherzo.»

Forse era uno scherzo per lui e per molti dei presenti, che si comportavano secondo una parodia consapevole o inconsapevole di vecchi film: «Ehi, gente,» disse qualcuno, «facciamo una colletta per le uniformi?» «Ho capito tutto! Combiniamo una roba da fine del mondo!» Ma per Susie significava diventare, per un momento, una Giovanna d’Arco. Quando lasciarono il caffè, lei era in prima fila, e camminava decisa pestando gli stivaletti bianchi, in testa al corteo.

Certamente Madge non si era mai preoccupata meno che in quel momento della vulnerabilità dell’innocenza di sua figlia, dopo averla appena sentita insistere sulla parola «sedere» e averla vista arrossire nel pronunciarla. Com’era innocente, Susie, e come era stata invece smaliziata lei, a quell’età!

Madge sentiva appena il rombo morente della Harley di Ron, era appena consapevole della propria mano che accarezzava i distintivi sul vassoio di velluto nel cofanetto di Susie. Madge vedeva se stessa, diciotto anni prima, mentre andava al Webster Beach Club insieme al giovane e bell’agente delle assicurazioni.

Da giovane, Suggs somigliava moltissimo a uno degli amici di Susie, Jim Porteus, pensò. Strano che Susie non l’avesse mai notato. Era un ragazzo così simpatico, così serio, con quegli occhiali dalla solenne montatura nera, così energico, così ansioso di mettere a fuoco il mondo. Madge accarezzò il distintivo giallo che aveva regalato a Susie: «NESSUN CEDIMENTO — SCONFIGGIAMO I VIETCONG!»

Jim valeva già parecchio danaro per conto suo, oltre ad essere figlio di un eminente ginecologo, e presidente della sezione californiana dell’Associazione dei Giovani Americani per la Difesa dell’Iniziativa Privata.

Quando Jim era serio, era serio davvero. Madge ricordava tutti i particolari della prima conversazione che aveva avuto con lui:

«Ha intenzione di studiare medicina anche lei, Mr. Porteus?»

«No, no. Mrs. Suggs.» Si era tolto gli occhiali, sbalordendola con i piani aspri della sua faccia. «No, purtroppo la professione medica è lettera morta, di questi tempi. Nonostante tutti i nostri sforzi per impedirlo, sta per imporsi la medicina socializzata… che ridurrà i medici alla fame.

«No, ho tenuto l’orecchio ben teso quando ho scelto un corso di amministrazione aziendale. L’analisi di mercato sembra molto promettente… molto promettente, glielo assicuro. Gli analisti qualificati sono pochi: è un campo poco affollato, dove un giovane energico e attivo può rapidamente farsi largo. Oppure potrei optare per diritto aziendale, soprattutto per proteggere le industrie neonate dalle rapine dell’aquila federale… o per qualche altro campo affine. Immagino che l’ideale sia la via di mezzo. Forse diventerò un modesto dirigente, una rotella sconosciuta ma importante nella macchina direzionale… un lavoro in cui la ricompensa non consiste nel semplice arricchimento, ma nella piena adesione a un uso discrezionale del potere. Io distribuisco lavoro e ricompense, o punizioni, ai miei subordinati, mentre ricevo la mia giusta porzione dai miei superiori: un anello vitale nella Grande Catena di Comando!»

Sotto molti aspetti, rifletté Madge, ripensando a quella conversazione, Jim sembrava più vecchio di suo marito.

Madge guardò l’ora, sconvolta. Per cinque minuti fu in piena attività, fece il bagno, si profumò, si pettinò, si avvolse in un diafano pigiama di un misterioso grigio nebbia, un attimo prima che suonasse il campanello. Si affrettò ad appuntarsi il distintivo giallo e corse ad accogliere Jim.

«Caspita!» disse lui. «Che buio, qui dentro! Gettiamo un po’ di luce sull’argomento.

«Caspita!» ripeté, guardandola in piena luce. «Sei splendida, Madge.» Si tolse il cappello alla tirolese e la baciò.

Mentre si svestiva, con ordine ed efficienza, Jim parlò delle prossime elezioni studentesche, nelle quali la sua Lega degli Studenti Ultraconservatori, da poco fondata, sperava di vincere alcuni seggi.

«Siamo giovani e dinamici, anche se inesperti,» disse, ripiegando meticolosamente le calze e appendendole alla spalliera della sedia. «I più anziani dovranno spostarsi per farci spazio.»

Madge si spostò e gli fece spazio in letto.

La stessa notte, Woody era seduto nell’ufficio dello spedizioniere, e fissava con occhi vitrei il modulo della Denuncia di Smarrimento. Per ore ed ore si era sentito incapace di cominciare quello strano rapporto… sebbene rivedesse chiaramente tutto nei minimi particolari.

Quando aveva fermato il suo trenino, quel pomeriggio, gli altri del personale erano balzati a terra, a correre verso l’ufficio dello spedizioniere, dove c’era sempre la birra. La corsa Altoona-Las Vegas si fermava sempre lì a Double Flats per via della birra, specialmente nelle giornate afose. Ufficialmente, era ovvio, si fermavano per ritirare gli ordini.

«Dov’è la birra?» chiese allegramente Fats, il frenatore.

«Non sono mica il vostro schiavo!» urlò lo spedizioniere, che non parlava mai in altro tono. «Sapete bene dove la tengo. Voialtri non sapete neanche cos’è il lavoro. Voi non sapete quanto siete fortunati, a starvene sempre fuori all’aria pura. Vorrei essere anch’io in servizio di linea, lo giuro!» Sputò in un angoletto buio e sudicio, dove forse c’era una sputacchiera. Woody e gli altri aprirono le lattine di birra e si sistemarono su varie sedie scricchiolanti qua e là nella stanza marrone scuro. Non erano affatto ansiosi di tornare nel caldo e nella polvere del deserto, anche se avevano quella fortuna.

La vita del ferroviere era una novità meravigliosa per Woody, sebbene ostentasse di odiarla come parevano fare tutti gli altri. Stava già apprendendo il gergo ferroviario, e le differenze tra i vari tipi di carri merci, ma aveva ancora parecchio da imparare. Una cosa che non finiva mai di stupirlo era che non aveva bisogno di sterzare per guidare la locomotiva. Sembrava quasi che si guidasse da sola, inspiegabilmente, anche nelle curve più brusche. Le ferrovie, doveva ammetterlo, erano un’invenzione meravigliosa.

La Nevada Southern era l’unica ferrovia in cui erano ancora in servizio le locomotive a vapore. Woody non avrebbe mai voluto guidare un locomotore diesel o elettrico. Lui amava il calore e il sibilo del vapore.

«È giusto,» disse, unendosi alla conversazione. «Bisogna essere matti a mettersi nelle ferrovie.» Gli altri approvarono.

«Io ne vengo fuori presto,» disse Fats. «Ho un fratello che lavora nei mangimi. Andrò con lui. I mangimi, ecco quello che serve per far danaro.»

«Io lodo,» disse solennemente Woody, «il vincolo fratricida.» La birra l’aveva rinfrescato, lo faceva sentire lucido. Prima, ad Altoona, aveva avuto un’allucinazione, senza dubbio a causa del caldo. Era stato un classico sogno gratificante: una donna che aveva conosciuto un tempo, in un altro stato, era salita sul treno ad Altoona, così gli era parso. Lui si era anche sbracciato per salutare l’allucinazione, ma poiché si trattava appunto di un’allucinazione, lei non aveva ricambiato il saluto.

Finì la birra, si rimise i guanti e si avviò verso la porta. E si fermò.

Mac, il fuochista, era fermo sul marciapiedi, completamente stordito. Fats e il conduttore stavano avviandosi a balzi sui binari, verso il treno.

Il treno si stava muovendo. Si muoveva e accelerava, a tutto vapore.

Ma non poteva andare a tutto vapore. A bordo della locomotiva non c’era nessuno, né per dare vapore né per alimentare la caldaia. A tutti i fini pratici, la locomotiva era vuota.

Rombando e sferragliando, scivolando, la locomotiva, il tender del carbone e l’unico vagone passeggeri si allontanavano. La donna dell’allucinazione pareva essere ancora in carrozza.

Fats si fermò sbuffando. Il conduttore cercò di abbrancarsi al respingente di coda del vagone, mancò la presa e cadde. Rotolò via, sano e salvo, sfiorato appena dalle ruote.

Un miraggio? Ipnosi collettiva?

Woody intinse il pennino d’acciaio nell’inchiostro e scarabocchiò sul modulo.

«NOME: Elwood Trivian, Ph. D. TITOLO: Macchinista. OGGETTO SMARRITO: Un treno. DESCRIVERE LE CIRCOSTANZE: Apparentemente il treno è stato rubato da una…» Cancellò «una» e scrisse: «da quella che sembrava una cassetta di latta grigia.»

Capitolo Nono

Coincidenza

«Gli uomini che arrischiano tutto lo fanno nella speranza di un equo guadagno.»

SHAKESPEARE

Il giovanotto in fondo al banco del bar non indossava abiti Western. Se non avesse avuto niente addosso, non sarebbe stato altrettanto vistoso, almeno in The El Cantina Bar di Goodtime, Nevada. L’El, come lo chiamavano i clienti abituali, era il ritrovo degli sgargiantissimi ospiti di tre ranch di lusso. C’erano le donne ovoidali e infelici del Merry Widow Rancho (in attesa di divorzio); gli uomini ovoidali e infelici del Triple-Tumplebug Ranch (in attesa di divorzio); e i vecchi queruli e sonnolenti, senza un particolare sesso, del Golden Sunset Retirement Ranch (in attesa di morire). Tra i loro colori orchidea, turchese e rossovioletto, tutte le sfumature di un tramonto dipinto, l’abito grigio e gualcito e il camice biancosporco da laboratorio di Cal spiccavano come gli escrementi di un uccello.

A furia di chiedere passaggi verso la California, era arrivato fin lì prima che il sole, la sabbia, il vento, l’asfalto lucido e il fumo dei camion lo avessero costretto a rifugiarsi al coperto.

«Un altro?» chiese il barista, alzando la bottiglia. Il suo nome, ricamato a lettere viola sul taschino della camicia color corniola, era Slim. Il cliente senza etichetta annuì solennemente.

«Ne prendo un altro. E se ne versi un altro anche per lei, Slim.»

«Oh, grazie, Carl. Alla sua.»

«Mi chiamo Cal. Senta, Slim, mi dica, chi sono tutti quei vecchi vicino al muro?»

Slim gli spiegò cos’erano i «ranch per pensionati.» «Vengono qui di tanto in tanto per divertirsi un po’, con i loro accompagnatori.» Indicò un gruppo di uomini e di donne, giovani e dall’aria annoiata, al centro del banco del bar: portavano tutti cappelli neri da cowboy e camicie di seta ocra. Sul dorso di ogni camicia era ricamato un sole che tramontava, o che sorgeva, irradiando raggi neri. I nomi degli accompagnatori erano ricamati in nero all’altezza del cuore.

«Un’altra cosa. Come mai, qui dentro, sembra fatto tutto di ruote da carro e di barili? I tavoli e i lampadari e… Da dove vengono tutte quelle ruote da carro?»

Slim si spostò lungo il banco, sorridendo, per andare a servire due donne di mezza età.

«Oh, Slim, che bestia!» strillò la donna magra dalla camicia nera e lavanda. «Sono ore che aspettiamo!»

La sua amica, piccola e rotondetta vestita di fiammante arancione, disse che Slim era un cattivo ragazzo, e aggiunse che non sapeva se voleva un Daiquiri ghiacciato o no da un ragazzo così cattivo. Non era proprio cattivo? chiese alla sua compagna.

Sullo schermo del televisore a colori apparve una sfilata nel Texas: schiere di cow-girl vestite d’azzurro cielo, con gli stivaletti bianchi che si muovevano come pistoni in passi sincroni e scalcianti. Gli uomini che venivano dal Triple Tumblebug si inumidirono le labbra e cominciarono a ridacchiare.

Cal bevve ancora. Entrarono due forestieri dalla carnagione olivastra. Il più piccolo era alto come Cal, il più grosso era un gigante. Portavano abiti in stile Palm Beach, con le spalle imbottite e cappelli di panama dalla tesa stretta. I loro occhi, comunque, sembravano in ombra. Cal li avrebbe scambiati per poliziotti, se non avesse visto che bevevano, e per giunta whiskey tolto dallo scaffale più alto. C’era qualcosa di familiare, nell’uomo più grosso…

«Un altro, Carl?» Slim gliene versò un altro, prelevò un adeguato quantitativo di moneta dal mucchietto che Cal aveva davanti e aggiunse un altro scontrino alla pila bene ordinata. Un aumento… o era una diminuzione di entropia… oppure era entalpia? Cal cercò di ricordare il dottor Trivian e la Valutazione della Termodinamica, ma i suoi pensieri correvano in ellissi…

Guardo i vecchi lungo la parete, che sonnecchiavano sopra il cribbage o le tabelle del Monopoli e le birre. Di tanto in tanto, qualcuno si svegliava leggermente, diceva qualcosa di stizzito, e poi si riappisolava senza aspettare la risposta.

Il più alto dei due nuovi arrivati, aveva voltato la schiena, ma il più basso si era materializzato a fianco di Cal. «Mi scusi, signore,» disse timidamente. «Il mio amico e io abbiamo fatto una scommessa. Io dico che lei è un medico, e lui sostiene che guida un camion frigorifero pieno di carne. Le dispiacerebbe dirmi chi ha ragione?»

Cal sorrise con modestia perversa. «Per la verità, sono un biofisico. Quindi mi sembra che ci sia andato più vicino lei.»

«Molto interessante.» Lo sconosciuto si esplorò un orecchio con il grosso indice. «Immagino che ne sappia parecchio di matematica, eh?»

«Bingo!» strillò un vecchio di sesso imprecisato, che sedeva davanti a una tavola da cribbage.

Con una certa riluttanza, Cal ammise di avere una vaga conoscenza del Calcolo.

«Capisco. Be’, la ringrazio di avermi fatto vincere la scommessa.» Lo sconosciuto si allontanò, prima che Cal potesse chiedergli come si chiamava il suo compagno più alto. Gli venne in mente «Tennessee», e anche un paio di scarpe da tennis. Per il momento, Cal optò per Dennis Shoe.

Poi si accorse che tutto questo lo stava gridando quando Slim si girò verso di lui e gli sorrise. «Ruggisca un po’ più piano, Carl, vecchio amico.»

«Hai barato!» squittì qualcuno lungo la parete. «Da dove viene fuori quell’albergo, eh? Dimmelo un po’!»

«Bada a come parli,» rispose una voce tremante. «Io ho Via dei Giardini e Parco della Vittoria, e per Dio, devi pagarmi l’affitto!»

«Per favore,» disse una vecchia dalla camicia scarlatta. «Andy può tirare di nuovo, no?»

Si rovesciò un bicchiere di birra. «Ecco, guarda cosa mi hai fatto fare! Tutte le carte degli Imprevisti rovinate!»

«Te lo faccio vedere io chi è che bara!» strillò un vecchietto dall’alto sombrero bianco e dalla camicia di un rosa carico. Il suo gozzo andava convulsamente in su e in giù, sopra il fazzolettone da collo verde. «Tieni!» Balzò in piedi e strappò via la coperta dalle ginocchia dell’avversario, facendo cadere alcune schede. «Ahah!» gridò. «Colto sul fatto, eh? Ecco qui che fine avevano fatto tutte le stazioni, eh?»

Il colpevole, un uomo che sembrava un pappagallo arancione e blu, raccolse un segnalino squadrato di legno rosso e glielo tirò contro. «Prenditi il tuo albergo e vai all’inferno!» ululò. Arraffò la tabella e la rovesciò, spazzando via alberghi, case, dadi e segnalini. «Hai barato anche tu

«…tirare di nuovo, no, Edna?»

«Barato! Ah! Imbroglione!»

«Te lo dò io il baro, per Dio!» strillò l’uomo dentro al sombrero. Impugnò un bastone e cominciò a mulinarlo intorno. «Mi avete imbrogliato tutti! Mi avete imbrogliato tutti!»

Al banco del bar ci fu un certo movimento nel gruppo degli accompagnatori. Un giovanotto si girò sullo sgabello. Sopra il taschino, Cal gli lesse il nome. «Dott. Michaels.» Attraversò la sala in tre balzi e strappò il bastone dalla mano del vecchio.

«Andiamo, Toby. Andiamo Toby, è solo un gioco,» disse.

Il vecchio roteò gli occhi e piagnucolò: «Mi state imbrogliando tutti!»

Il dottore estrasse dalla fondina la pistola nera dal calcio di madreperla, appoggiò la canna sul braccio di Toby e premette il grilletto.

I due sconosciuti dalla carnagione olivastra s’infilarono la mano dentro la giacca.

Toby si rilassò visibilmente, e il suo borbottio si affievolì. Il dottor Michaels tirò indietro la pistola. Cal vide che era di plastica nera. Poteva sembrare un giocattolo, se non fosse stato per quelle due dita di ago lucente che sporgevano dalla canna. Il dottore fece rientrare l’ago e infilò l’arma nella fondina.

«Scusate il fastidio,» disse, sogghignando alla folla in generale. I due forestieri estrassero le mani dalle giacche e risero scioccamente. Il dottor Michaels e un altro accompagnatore calarono il vecchio privo di sensi in una sedia a rotelle. Cal vide che anche quella aveva ruote da carro.

«E lei cosa sarebbe?» disse a Cal una donna vestita di violaceo. «Il dottorino di campagna? A cosa serve quel camice bianco?»

«In Giappone,» cercò di dire lui, «il bianco è il colore del lutto.»

«In Sapone,» disse invece, «il banco è l’odore di prosciutto.»

Le labbra imporporate della donna sorseggiarono il cocktail. Con evidente soddisfazione, lei disse: «Non mi racconti frottole! Lei non è mica un dottore! È solo un facchino del mercato delle carni. Perché non se ne torna alle sue zampe di porco?»

Cal scosse il capo, poi si guardò i piedi, cercando di capire cosa avesse inteso dire la donna. «Perché non…»

«Che schifo!» urlò quella, spruzzando in giro saliva. «Che schifo! Tutto eguale a mio marito! Cribbio, era un vero mascalzone! Si sporcava le camicie apposta! Veniva a casa con le scarpe sudicie e girava per tutte le stanze. Buttava quella lurida cenere in tutti i portacenere di casa. Be’, ne ho avuto abbastanza di quel porco e ne ho abbastanza anche di lei!»

Il cocktail della donna era gelido e schiumoso di panna. L’impatto costrinse Cal a indietreggiare alla cieca di qualche passo. Rimbalzò contro un tavolo e cadde. Dall’alto, delle facce lo guardarono, rosse e arrabbiate. Quattro o cinque voci blaterarono tutte insieme, quello lì le dava fastidio, signora? quel giovanotto ubriaco dovrebbe essere sotto le armi, mica a far finta d’essere un dottore. Un numero imprecisato di mani rimise in piedi Cal.

«È quasi ora che se ne vada, Carl, vecchio amico,» borbottò Slim, girandolo verso la porta.

«Mi chiamo Cal,» implorò lui. «Le farebbe piacere se io la chiamassi Scim, eh?»

«Ah, la mettiamo così, allora?» Slim pestò un pugno sulla testa di Cal e l’afferrò per la collottola: l’altra mano si infilò dietro la cintura. «L’avevo capito che avrebbe creato guai, nel momento che è entrato.»

La porta volò verso di loro.

Cal sfrecciò attraverso la porta, rimbalzò a quattro zampe, e poi rotolò e si fermò contro un muro di mattoni.

Il vicolo era inondato dal chiaro di luna. Cal rimase sdraiato per un po’, cercando di orientarsi. Vide un certo numero di bidoni della spazzatura, un manifesto che annunciava una Quadriglia delle Sedie a Rotelle dal Golden Sunset Ranch, e un suo piede privo di scarpa.

Si alzò a fatica e si aggirò zoppicando fino a quando trovò la scarpa perduta. Quando ebbe finito di vomitarci dentro, se la infilò.

Camminare su due gambe era difficile, perciò Cal avanzò a quattro zampe verso l’ingresso del vicolo. I due sconosciuti vestiti secondo lo stile di Palm Beach lo stavano aspettando. Senza una parola, lo raccattarono e lo scaraventarono sui sedili posteriori di una macchina. Benché fosse troppo buio per vederci bene, Cal era sicuro che si trattava di una Cadillac berlina, nera. L’uomo più basso salì accanto a lui, mentre l’altro si infilava al volante. Ricordava decisamente a Cal qualcuno dei suoi compagni di scuola di due settimane prima. Ma chi? Non Barthemo Beele. E neanche Mary Junes…

«Dove andiamo?» chiese, sforzandosi di tirarsi su a sedere. Lo sconosciuto lo respinse sul sedile e sfoderò una pistola.

«Per la verità, signore, l’abbiamo rapita. Il Professore ci ha dato ordine di sequestrare un matematico.»

«Che professore? Io voglio vedere la quadrisedia che balla a rotiglia.»

«Si metta questo sugli occhi, prego.» L’uomo gli consegnò una fascia di stoffa nera.

«Anche quella pistola lì ci ha l’ago dentro?»

Gli altri risero abbondantemente. «Giusto,» ringhiò l’autista. «Un ago per farti dormire… per un pezzo. A meno che preferisci il grande sonno, è meglio che tu faccia quello che ti diciamo noi. In questo racket noi facciamo sul serio: chi perde non becca niente, chiaro?»

C’era qualcosa di familiare in quella voce, pensò Cal; ma ormai la benda era a posto. Partirono.

Cinque minuti più tardi, dopo una serie complicata di giravolte, si fermarono e i due lo spinsero a un edificio.

«Bene, bene, bene,» tuonò una voce cordiale. «Abbiamo già compagnia, eh? Credo che questo sia il nostro matematico.» Cal immaginò un capo gangster con il sigaro in bocca che si stropicciava le mani. «Toglietegli la benda e guardiamolo in faccia.»

La benda fu tolta e Cal si trovò davanti a una bionda florida dalla faccia simpatica, con una cuffia in testa e una camicia da notte di flanella. Sembrava uscita da un quadro fiammingo, ma per la verità, al posto della candela aveva in mano una bottiglia di scotch e un bicchiere. «Benvenuto a Castel Rackrent!» tuonò. «Vuol bere qualcosa?»

A Cal si contrasse lo stomaco. «Io non… non credo. Lei è… il Professore?»

«Me? Ahah, benedetto, andiamo, io sono Daisy, fidanzata del Professore e sua ex segretaria. Quello è il Professore.»

La bionda si tirò da parte, rivelando un uomo magro e fragile, seduto sul divano. I capelli radi, color pomice, erano disposti in strisce polverose sulla calvizie. Sembrava impegnatissimo a scrivere con una penna d’oca su di un vecchio librone sciupato, così enorme che gli nascondeva gran parte del corpo, anche se Cal vedeva le gambe penzolanti che non toccavano il pavimento.

«Lieto di conoscerla,» disse Cal.

«Lieto di…» gracidò l’altro. Ma Daisy gli si mise di nuovo davanti come un sipario, e quello si azzitti.

«Il suo vero nome è Brian Gallopini,» disse Daisy, versandosi un bicchiere di liquore. «Ma nel mondo della malavita tutti quelli che hanno un’istruzione universitaria vengono chiamati ‘Professore’, vede.»

«Allora non lo è davvero?»

La bionda bevve il suo quarto di litro e se ne versò un altro. «Oh, sì, è professore davvero. Di letteratura del diciottesimo secolo. O lo era. Io ero la sua segretaria. Decidemmo di scappare e di metterci a fare i gangster, quando lui ebbe la sua idea… ma questa è un’altra storia. Mi chiamo Daisy le Duc e, se è furbo, lei deve resistere alla tentazione di chiamarmi ‘Daisy Duck’, perché quello è il nome di Paperina.» Per un attimo la gaiezza svanì dal suo sorriso, poi ritornò a piena forza. «Adesso completerò le presentazioni, così lei potrà pulirsi la terra e il sangue dalla faccia, e potremo vederla bene.

«Questi due sono i collaboratori delle attività criminose del Professore: Mr. John Beaumains, conosciuto come Jack lo Squartarore, per ragioni che nessuno riesce a indovinare, e ‘Harry lo Scimmione’, il cui vero nome è…»

«Harry Stropp!» L’esclamazione sfuggì dalle labbra di Cal, che proprio in quel momento s’era voltato e aveva riconosciuto il suo rapitore.

Harry, poiché era veramente lui, sbirciò sbalordito la faccia incrostata di sporcizia e di sangue. «Calvin Potter!» gridò. «Che cosa ci fai tu qui?»

«Potrei rivolgerti la stessa domanda. Harry, ti sei dato a una vita di crimine?»

Dalle spalle di Daisy si levò una voce stridente. «Sono queste combinazioni a provar l’esistenza di ciò che viene chiamato Destino, e che presiede al nostro universo ‘casuale’. Ne prenderò nota nel mio diario.» La penna d’oca scricchiolò.

«Non preoccuparti,» disse Harry con voce bassa e confidenziale, «anche se mi hai portato via Mary Junes. Oh, per un po’ ci sono rimasto male, lo ammetto, ma ormai mi è passata. Ci sono tante altre mele sull’albero.»

«Bene,» ridacchiò Daisy. «Non teniamo Mr… Potter, vero? Mr. Potter in piedi per tutta la notte. Domattina dobbiamo partire tutti molto presto per Las Vegas. Quindi penso sia meglio che le spieghi perché l’abbiamo sequestrata.

«Il Professore ha ideato un sistema complesso e infallibile per vincere alla roulette. Da un punto di vista simbolico, ci prepariamo a espugnare Las Vegas. Questo sistema non può fallire. Entro la settimana prossima, dovremmo avere le chiavi della città, da un punto di vista pratico.»

«Ma io cosa c’entro?»

«Esattamente!» pigolò il Professore. «Cosa c’entra lei? Sembra che il mio sistema sia perfetto in teoria… cioè, nel complesso è perfetto. Ma i calcoli per piazzare ogni puntata sono troppo complessi per noi. Ed è qui che entra in scena lei, il nostro genio matematico.»

«Sono molto lusingato, naturalmente, ma…»

«Portalo via, Harry,» disse Daisy, con un gesto imperioso. «Chiudilo nel bagno, per stanotte, e stai di guardia alla porta.»

«Ma…»

«Tu, muoviti.» Harry trascinò Cal fino al bagno, lo scaraventò dentro, e lo chiuse a chiave.

Non c’erano finestre. Cal cominciò a camminare avanti e indietro, studiando gli infissi, in attesa che gli altri si addormentassero. Poi si chinò e bisbigliò al buco della serratura:

«Harry! pst! perché non mi lasci uscire? Fammi questo favore, ti prego.»

Harry rise, e la sua risata pareva un rauco latrato. «Fare un favore a te? Questa è grande. E dopo tutto quello che tu hai fatto a me.»

«Senti, Harry, ti chiedo scusa per…»

«Oh, non fraintendermi. Di Mary Junes non m’importa più niente. Niente. L’ho dimenticata. Voglio dire, ci sono tanti altri biscotti nella scatola. Ma… fare un favore a te! Questa è proprio grande.»

Cal si raggomitolò dentro la vasca da bagno e cercò di dormire. Di tanto in tanto, Harry emetteva un altro latrato strozzato. «Cribbio! Questa è proprio grande. Fare un favore a lui!»

La mattina dopo i cinque partirono per Las Vegas. Cal non venne bendato, e poté quindi vedere che il motel dove aveva trascorso la notte si trovava proprio di fronte a The El Cantina Bar.

Mentre lui covava i postumi della sbronza, gli altri quattro incominciarono un’animata conversazione sulla natura dell’universo, interpretata tramite l’opera della coincidenza.

Daisy sosteneva che nella coincidenza si deve vedere la mano della Divinità. Ricordò numerosi casi di date di nascita simultanee, di albinismo, di persone colpite dal fulmine o dalle meteore, e gli strani risultati degli esperimenti del dottor Rhine.

Jack ammise che non aveva torto. Harry riconobbe che le coincidenze, a quanto pareva, capitavano davvero.

Brian Gallopini rispose che sarebbe stato blasfemo imputare alla Divinità le frane nelle miniere, le collisioni di aerei in volo che uccidevano i bambini, gli smarrimenti degli assegni delle assicurazioni da parte delle povere vedove.

Harry continuò a sostenere che gli incidenti capitavano davvero.

Daisy si richiamò alla narrativa del secolo decimottavo. Citò varie coincidenze in Tom Jones e in Humphrey Clinker. Se quelle erano opere degli autori (Fielding e Smollet), perché le coincidenze della Vita non dovevano avere un Autore (Dio)?

«Tuoni e fulmini!» imprecò Brian. «Stai cercando forse di dirmi, o donna, che tu ed io altro non siam che marionette, mosse dal capriccio d’un buffone di romanziere? Puah! Tu puoi creder ciò che più t’aggrada, ma sappi che io son un libero agente. Io comando alla mia mano di muoversi, ed essa si muove. Vedi?» Ed eseguì.

Daisy rise. «Sì, ma solo perché eri destinato a comandarle di muoversi. Tu sei comandato dall’Autore di Tutto.»

Ma il Professore piombò in un tetro silenzio e rifiutò di rispondere. Ormai si cominciavano a scorgere alcuni degli edifici più alti e dei cartelloni pubblicitari più grandi di Las Vegas.

Il Professore offrì a Cal una presa di tabacco da fiuto Bergamot, poi incominciò a spiegargli il suo ingegnoso sistema per puntare alla roulette.

«Ogniqualvolta il giocatore perde la posta,» disse, concitato, «la raddoppia alla puntata susseguente. Poiché è giocoforza che ogni serie casuale obbedisca alle leggi immutabili del Destino, la prima puntata vincente dovrà più che compensar d’un sol colpo tutte le di lui precedenti perdite.»

Cal gemette tra sé, ma non disse niente, ricordando che era un ospite… e prigioniero.

«Gli è un sistema complesso, ma infallibile,» concluse Gallopini. «Eppurtuttavia rivela l’ordinato funzionamento dell’universo. E l’universo è ordinato. Affermar che non sia è credere nella magia. Tanto dir varrebbe che l’uomo di quell’insegna avviarsi potrebbe a camminare nel deserto.»

L’insegna che aveva indicato era una immagine gigantesca d’un cercatore minerario, sopra a un casinò. In una mano l’uomo teneva una ciotola di pepite, mentre l’altra si muoveva in su e in giù, in un gesto di richiamo. Era una delle insegne più famose della città, e di notte si vedeva a parecchi chilometri di distanza.

Sotto gli occhi del gruppo inorridito, sembrò che l’uomo muovesse un passo. Daisy urlò, con la sua profonda voce di baritono, mentre il Professore sbiancava come una parrucca incipriata del Settecento.

«Ah, non è niente. Sta solo cascando. Forse l’abbattono,» disse. Videro l’insegna afflosciarsi e disintegrarsi, con un certo sollievo. Una coincidenza sconvolgente, ma non sovrannaturale. Gli altri si tranquillizzarono, ma Cal rimase irrigidito a fissare l’orizzonte.

«Credo di sapere quello che succede,» mormorò. In lontananza, un’altra insegna crollò, mentre le piccole scatole grige le brulicavano sopra, come formiche. «È meglio che giriamo la macchina e che filiamo a tutta velocità nella direzione opposta.»

«Non dica asinaggini!» esclamò il Professore. «Io son qui giunto per far la mia fortuna, e certo non mi volgerò in fuga al suo comando. Freni la lingua, signore!»

«Torna indietro! Ti prego!» disse Cal a Harry, che stava al volante.

«Per fare un favore a te, immagino,» fece quello, beffardo.

«Ascoltatemi. In questa città si sta aggirando una cosa… un’arma segreta sfuggita al controllo. Non so come abbia fatto ad arrivare fin qui, ma sembra proprio che si sia impadronita di Las Vegas. Ne sono sicuro. Credetemi, rischiamo la vita se entriamo in città.»

«Bubbole e fanfaluche!» scattò il Professore. «Io non le credo, signore. Ma, acciò che lei non possa accusarmi d’esser io iniquo, potremmo arrestarci ad un telefono e chiamar laggiù. Potremmo così prenotar le stanze, e nel contempo dimostrare che l’assurda sua teoria non ha il benché minimo fondamento. Fermati a quel telefono laggiù, Harry. Fermati, ho detto!»

Ma la macchina passò oltre la cabina. Anzi, aumentò di velocità. «Non riesco a tenerla,» disse Harry. «È come se le avesse preso qualcosa. Lo sterzo è bloccato, e c’è una specie di… di cavo che ci tira avanti.»

Erano ormai abbastanza vicini alla città per vedere la distruzione, e torme di sagome a forma di scatola che brulicavano sulle facciate sventrate degli edifici e sulle insegne.

«Cosa facciamo?» urlò Daisy.

«Non possiam far nulla,» disse sottovoce il fidanzato, battendo le dita sul coperchio della tabacchiera. «Parrebbe che noi si debba continuamente accelerare sin quando urteremo qualcosa e probabilmente morremo. Tu puoi prepararti ad incontrare il tuo Autore, mia cara. Ora, poiché forse ancor ci resta un minuto o due, propongo che Mr. Potter ci dica alcunché di codesta prodigiosa macchina.»

Capitolo Decimo

Il dottor Smilax

«Tuttavia, esaminiamo più attentamente i fatti.»

A.J. AYER

Poco prima di presentarsi ai Capi di Stato Maggiore, il dottor Smilax entrò nella toelette maschile adiacente alla sala delle conferenze del NORAD e cominciò a pettinarsi energicamente i capelli. In quelle occasioni, la tensione pareva contrargli il cuoio capelluto, che gli prudeva furiosamente se lui non si affrettava a impartirgli una sollecita e vigorosa rastrellata.

I capelli erano neri, striati di grigio argento, della stessa sfumatura della sua cravatta di foulard. La cravatta era ricamata a neri bacilli d’antrace, meticolosamente annodata e fermata da un minuscolo bisturi d’argento. L’abito era di un grigio sobrio, la camicia di un azzurro televisione, sebbene Smilax non avesse intenzione di comparire davanti alle telecamere. L’unica vera macchia di colore, in lui, era il distintivo della Banca del Sangue che portava all’occhiello, una gocciolina di plastica rossa.

I lineamenti arroganti del volto di Smilax erano addolciti dai baffi ben curati, mentre gli occhiali non cerchiati diluivano la particolare intensità del suo sguardo. La sua, comunque, era l’implacabile espressione di un uomo abituato al comando, non all’acquiescenza. Non era capace di adulare, come facevano quasi tutti gli «esperti» borghesi consultati dai Capi di Stato Maggiore. Smilax dava ordini, non implorava di riceverne, e il suo aspetto da burocrate non bastava a nascondere questa realtà. L’educazione, pensò, concedendosi un sorrisetto ironico, veniva fuori sempre.

Toto Smilax, dottore in medicina, dottore in veterinaria, libero docente di chimica, era il rampollo d’una buona famiglia, sia pure per caso. Una delle prime cose che ricordava era sua madre che scrollava il capo e diceva: «Figlio mio, non voglio che tu vada a finir male come me.»

A cinque anni, lui scoprì cosa significava «andare a finir male»: voleva dire avere un figlio senza essere sposati. Subito Toto cominciò a temere di mettere al mondo anche lui un figlio al di fuori del matrimonio. Ogni mattina guardava spaventato nel suo letto, per vedere se era arrivato un bambino.

Lotte Smilax, la madre, non si era mai sposata. Spesso raccontava al piccolo Toto di essere figlia di un uomo importante del West, e di aver causato il disonore della famiglia perché aveva lasciato che il maggiordomo pazzo la violentasse sotto la minaccia d’una pistola.

«È stato tutto perché mio Papà non mi picchiava mai,» diceva. «Oh, se mi avesse picchiata! Ma con te mi comporterò molto meglio, figlio mio. Non commetterò gli stessi errori di mio padre. Voglio che tu abbia tutte le possibilità che io non ho mai avuto.»

E così dicendo, cominciava a picchiarlo con tutto quello che le capitava: lo stivale, una frusta, un mestolo o una cintura.

La scuola, per Toto, era stata egualmente uno strazio, perché gli altri bambini lo torturavano senza pietà, al limite della loro immaginazione diabolica. Lo punzecchiavano con i compassi, gli rubavano o gli stracciavano i libri, dicevano che sua madre era una «bottana», e che lui non aveva un padre, gli tiravano i sassi, inventavano canzoncine per prenderlo in giro, e lo invitavano a mangiare (d’estate) sabbia e fango e (d’inverno) neve sporcata dai cani.

Facevano tutto questo, naturalmente, perché lui si chiamava Toto. Non era un nome cristiano, e non era neanche il nome di un famoso eroe, vero o fittizio. Era il nome di un cane.

Il povero Toto era stato chiamato così in onore del personaggio letterario più caro a sua madre, il cagnolino di Dorothy nel Mago di Oz. Lotte, bisogna precisare, amava gli animali, e la sua libreria era pieni di libri sui cani, comprese le opere complete di Albert Payson Terhune e Cani di Fiandra, che la facevano piangere ogni volta che li leggeva.

Sebbene fosse inflessibile in fatto di disciplina, la madre di Toto era anche una creatura ricca di calore umano e d’impulsi generosi, che non resisteva mai alla tentazione di portare a casa un cane affamato o un gattino zoppo. In genere, il focolare era allietato dalla presenza di uno o due Lad, un Rex, uno Spot, e magari da una mezza dozzina di Snowball e di Midnight. Spesso Lotte li incoraggiava a mangiare tutti insieme, cani e gatti, a tavola con lei, perché le piaceva avere compagnia a cena, e Toto, per il suo bene, era confinato davanti alla ciotola con il suo nome, sul pavimento della cucina.

Ogni notte, raggomitolato nel suo cestino, Toto sentiva sua madre che usciva per andare alle riunioni della Società Protettrice degli Animali. E lui restava lì a pregare, nominando ciascuna delle care bestiole di Lotte insieme a un tipo diverso di morte dolorosa. Per completare l’elenco, evocava una serie di lente agonie per Albert Payson Terhune, che immaginava fosse il padre di Lotte.

Un giorno, madre e figlio portarono uno dei vari Rex rognosi alla Clinica degli Animali. Toto se ne andò a zonzo per l’edificio, scoprendo i misteri della medicina veterinaria. Dietro una grande vetrata, vide una gatta che veniva sottoposta al taglio cesareo e dava alla luce sei micini. Toto premette il naso contro il vetro, affascinato. Era tutto così bello… il sangue rossovivo, il lenzuolo candido, il mistero della riproduzione, svelato da un coltello lucente. Dunque quello era il sesso!

Il piccolo spirito ardente di Toto respinse tutto ciò che gli era stato insegnato. Avere dei bambini non poteva essere poi così sbagliato. Una cosa tanto solenne e sanguinosa non poteva essere perversa. Giurò che sarebbe diventato veterinario.

Quando Toto ebbe otto anni, il tappeto magico di un’ordinanza del tribunale lo sottrasse alla custodia di sua madre e lo portò a vivere a Dubuque, con due vecchie zie zitelle, miti e simpatiche. Niente più botte, mangiare in abbondanza, un vero letto. E al posto della scuola, un istitutore privato.

Il bambino illetterato, che mangiava allappando come i cani, diventò un giovin signore perfetto, che per nobiltà e raffinatezza superava persino i sogni più rosei delle zie. Le due zitelle non badarono a spese per fargli insegnare tutte le lingue classiche e moderne; e dai migliori docenti imparò la matematica, l’arte oratoria, la scherma e la danza.

Toto si dimostrò un allievo tutt’altro che indegno, e a tredici anni si laureò in veterinaria, e due anni dopo in medicina e chirurgia. Per mantenere agili le dita studiò violino, raggiungendo uno straordinario virtuosismo tecnico. Tuttavia suonava di rado, perché le note alte gli ferivano le orecchie.

A Zurigo, Toto conobbe una giovane anestesista inglese che si chiamava Nan Richmons, e per la prima volta nei suoi vent’anni di vita conobbe una passione più sconvolgente della sua dedizione alla scienza. Non solo Nan era bella e intelligente, ma le sue radiografie mostravano una simmetria cristallina che lasciava Toto senza fiato. Quanto tempo doveva passare prima che egli potesse contemplare dal vero quella matassa del colon, quelle ovaie, le curve perfette dei reni di lei? Quanto tempo doveva attendere prima di poter cogliere il fiore fragile della sua appendice? Chiese a Nan di sposarlo e di diventare il soggetto dei suoi esperimenti chirurgici e — oh, indicibile beatitudine peritoneale! — lei gli disse di sì.

Si fecero le pubblicazioni su due continenti. Toto e Nan trascorrevano la serata progettando isterectomie, e nuove, pericolose tecniche d’anestesia. Poi, senza preavviso, i loro castelli d’etere crollarono.

Uno sconosciuto imbacuccato si recò a far visita a Toto nel suo laboratorio, dove lui stava sezionando un cadavere alla vigilia delle nozze.

«Lei non può sposare Nan Richmons.»

«E perché no?» chiese Toto, oscurandosi in volto. «L’avverto, signore, stia bene attento a come parla di lei.»

«Vuole sapere perché?» Lo sconosciuto rise follemente. «Per due ragioni. La prima è che è già sposata… con me.»

«Non m’importa. Siamo nel 1935, signore! Comportiamoci da persone civili. Il passato non mi…»

«Aspetti! La seconda ragione è… che io le ho già asportato l’appendice oltre due anni fa.»

Toto impallidì e arretrò vacillando d’un passo, posandosi una mano cadaverica sul cuore palpitante. «Buon Dio! Mi dica che ha mentito, mostro!» Lo sconosciuto scrollò mestamente il capo.

«È la verità.»

«E allora ecco!» Toto afferrò un bisturi e glielo porse. «Mi asporti il cuore, signore. A me non serve più.»

Il fidanzamento venne subito rotto. Nan, disperata, si tolse la vita con un miscuglio di cloroformio e di protossido d’azoto. Poi Toto fece lunghi viaggi in Oriente, in Africa e altrove, studiando le più strane tecniche chirurgiche.

Dopo la seconda guerra mondiale, comparve in California, annunciando la propria intenzione di aprire un laboratorio di ricerche. Il Dipartimento della Difesa gli mise subito a disposizione parecchi milioni di dollari. Toto si isolò per un altro decennio, eseguendo ricerche sul dolore, e nel contempo sfornò libri e monografie di altissimo interesse (Chirurgia estetica; La sofferenza, strada della salute; e un testo di pedagogia: Risparmiare il bastone? Mai!). Nello stesso tempo, studiò e conquistò nuovi rami dello scibile: fisica, biochimica, astronomia, biofisica e aracnologia, come altrettante spighe di grano, caddero sotto la falce affilata della sua mente. Nel 19… le sue ricerche culminarono nell’invenzione del computer DNA meglio conosciuto come QUIDNAC.

L’esistenza di questo tipo di computer non era di dominio pubblico; i princìpi del suo funzionamento erano segreto militare, e la sua fabbricazione era compresa soltanto dal dottor Toto Smilax in persona, che in quel momento entrava nella sala delle conferenze del NORAD.

I Capi di Stato Maggiore erano seduti dietro un gran tavolo grigio come il metallo dei cannoni, il più possibile lontani l’uno dall’altro. A una estremità si levava l’esile figura angolosa del generale Ickers dell’Aeronautica, un uomo svelto, simile a un uccello, dalla voce stridula. Un tempo era stato pilota collaudatore, e ne conservava ancora il tipico atteggiamento spensierato nei confronti di tutto, a eccezione della dignità del suo incarico.

All’estremità opposta sedeva una massa plumbea di carne, avvolta nell’uniforme da ammiraglio della Marina. Poiché un tempo aveva comandato un sommergibile (o meglio, una serie di sommergibili, ognuno dei quali riusciva a incappare in un incidente improbabile ma autentico non appena lui ne prendeva il comando) portava ancora un maglione biancosporco a collo alto, sotto la giacca. Ogni tanto riusciva a fare qualche smorfia sprezzante, ma per il resto l’espressione della sua faccia gonfia, da cadavere d’annegato, era di disperazione e di apatia.

Al centro sedeva il generale dell’Esercito R.M.S. («Happy») Meany, la cui faccia sembrava fare di tutto per imitare le espressioni dei suoi due colleghi. Non guardava mai dalla parte di Ickers senza un sogghigno fiducioso e una cameratesca strizzata d’occhio; né dalla parte di Nematode senza un mesto sospiro di commiserazione.

A un tavolo più piccolo, sei metri più in là, sedeva un’ausiliaria che fungeva da segretaria. Quando il dottor Smilax entrò, tutti stavano osservando su un grande schermo lo svolgersi di una battaglia. Metà dello schermo mostrava le linee verdi e le griglie azzurre di una mappa topologica; l’altra presentava sussultanti inquadrature televisive dei combattimenti veri e propri.

Un contingente di paracadutisti era stato lanciato su Altoona. Era una serata buia — non c’era la luna, ricordò Smilax — e le immagini erano traballanti e confuse. (Nematode sosteneva che il nemico interferiva per ragioni sue; Ickers affermava che per lui la ricezione era perfetta). Ogni tanto, una tozza sagoma ingombrante irrompeva dall’oscurità, abbrancava l’arma impugnata da qualcuno degli uomini, e tornava a sparire.

«Che fessi!» sbuffò l’ammiraglio.

Un paracadutista venne colpito basso da qualcosa che sembrava una macchina da scrivere deformata. Lasciò cadere il mitra e cadde, agitando le braccia.

«Sapevo che non sarebbe servito a niente,» disse adagio Nematode, assaporando le proprie parole. «Ma perché mai qualcuno doveva darmi retta? Io sono soltanto l’ammiraglio.» Intrecciò le grosse dita e si studiò le unghie sudice.

«Un uomo abbattuto non vuol dire una battaglia perduta,» insorse Ickers. Scrollò la testa piumata d’argento per sottolineare quanto diceva. «Ha preso una bella botta, ecco tutto. Adesso si finge morto per ingannare il nemico.»

In quel momento lo schermo si oscurò. «Lo sapevo!» gracchiò l’ammiraglio. «Adesso quel coso ha catturato la telecamera.»

«Col cavolo!»

«Sì, ha catturato tutta quella stramaledetta città, e anche i nostri ragazzi. Stasera Altoona… domani il mondo! Sarà la fine della civiltà… e buon viaggio, dico io!»

«Cosa?» strillò Ickers. «Come puoi indossare la divisa del tuo paese e dire una cosa simile! È una menzogna! I nostri Stati Uniti dureranno mille anni!»

«Be’, mi pare che entrambi i punti di vista abbiano qualche merito,» disse il generale Meany. «Perché non sentiamo quello che ha da dirci il nostro esperto in materia, eh? Dottore, perché non ci parla un po’ di questo suo congegno?»

«’Congegno’? Che parola banale per qualcosa cui sono certo che attribuite una grande importanza, signori! Oh…» Smilax si concesse un sarcastico sorriso professionale, mentre si alzava e si dirigeva verso la lavagna. «Mi rendo conto di abbandonarmi un po’ a una diatriba semantica, ma noi scienziati siamo piuttosto rigorosi nelle nostre definizioni.»

Estrasse un gessetto dalla tasca e scrisse «Nomenclatura: IL SISTEMA RIPRODUTTIVO» sulla parte alta della lavagna. I tre uomini attirarono a sé i blocchi per gli appunti e prepararono le penne. Meany scrisse «sist.» e lo sottolineò tre volte.

«Il Sistema Riproduttivo è composto da quelle che noi chiamiamo cellule.» Il dottore lo scrisse sulla lavagna. «Le prime cellule, come sapete, furono fabbricate nel Progetto 32. Erano di tipi diversi, e differivano le une dalle altre sotto due aspetti:

«1) Mezzi diversi di percezione e di comunicazione. Questi includevano rivelatori di metalli, rivelatori di radiazioni, radar, tubi catodici, microfoni, microtorce elettriche, input e schermi grafici, e macchine da scrivere. Soltanto i primi due erano in dotazione standard a tutte le cellule costruite.

«2) Mezzi diversi di propulsione. Questi includevano ruote a ingranaggi, zampe insettoidi snodate, razzi, eliche, e il sistema inerziale, a ‘gatto che cade’. Come un gatto è capace di raddrizzarsi a mezz’aria, così un oggetto può essere azionato in modo da spostare il proprio peso rapidamente. Si muove come un bambino che si aggira in uno scatolone di cartone. Abbiamo appena visto alla televisione un soldato che faceva inconsciamente la stessa cosa… agitava le braccia per recuperare l’equilibrio.»

«Sì,» ridacchiò l’ammiraglio, che non prendeva appunti. «Abbiamo visto quanto gli è servito, vero? È semplicemente morto, ecco tutto.»

Ickers balzò in piedi. «È bello e glorioso morire per il nostro paese!» urlò. «E io vorrei che tutti avessero la possibilità di farlo, in questo preciso momento!»

«Signori, signori,» disse Meany. «Cerchiamo di ricomporre i nostri dissidi. C’è molto di vero in ciò che entrambi avete detto. Forse il dottore vorrà avere la cortesia di esporci il suo punto di vista in proposito.»

«Sarebbe ora di muoverci!» gridò Ickers. Meany riempì di figure geometriche l’unica parola che aveva scritto sul suo blocco. Nematode cominciò a disegnare genitali femminili. «Finiamola di starcene tutto il giorno qui seduti! Io voglio andare là e prendere a calci in pancia quel coso! Uno dei miei ragazzi, Grawk, è qui fuori in corridoio, adesso, e aspetta ordini. Muoviamoci!»

Il dottor Smilax disegnò uno spaccato d’una cellula indivudale. «Le dimensioni variano,» spiegò, «per diverse ragioni ereditarie e ambientali. Le cellule originarie non erano della stessa grandezza, e in alcuni casi le differenze sono divenute assai marcate. L’esterno corazzato di ogni cellula è normalmente inattaccabile alle intemperie grazie a rivestimenti di vernice, di gomma o di plastica. Vi sono aperture dalle quali possono venire estroflessi i vari utensili: ganci, chele, cesoie, saldatori, ecc. In alcuni tipi il rivestimento è sacrificabile. In quasi tutti i tipi può aprirsi per fare entrare ì materiali… o per fare uscire una nuova cellula.

«All’interno della cellula vi è lo spazio in cui hanno luogo la riproduzione e la manutenzione. La manifattura ha portata molto limitata e consiste principalmente nell’adattare gli oggetti trovati a scopi succedanei.

«I supporti delle componenti meccaniche ed elettroniche, come a esempio i circuiti integrati, vengono costruiti su ordine dell’unità di controllo QUIDNAC. Tutti i cuscinetti a sfere e le altre parti che ammettono una certa tolleranza vengono fabbricati per sinterizzazione; i meccanismi più fini vengono lavorati con gli acidi.

«Sono utilizzabili tutte le fonti di energia, se possono venire modificate per adattarsi alla cellula, o se la cellula può modificare adeguatamente se stessa. Avevamo previsto, per esempio, che le cellule sarebbero state in grado di appiccicarsi alle locomotive e di trarre l’energia da queste, e mi risulta che la previsione era esatta.

«Passiamo ora al ‘tuorlo’ del nostro ‘uovo’,» disse Smilax con un altro asciutto sorriso professorale, e indicò il centro del diagramma disegnato con il gesso. «Questa è l’unità di controllo QUIDNAC, in tre sezioni: 1) la sezione DNA; 2) la sezione amplificazione e interpretazione; 3) il collegamento di controllo.

«La sezione DNA è un mezzo complesso e compatto per immagazzinare e recuperare informazioni. Vi sono immagazzinati circa 1010 o dieci miliardi di messaggi, molti dei quali composti di sole tre unità, mentre alcuni sono anche di un milione di unità. I quattordici messaggi più semplici corrispondono alle regole della logica, al calcolo aritmetico, o alla meccanica del trattamento degli altri dati.» E Smilax scrisse:

Messaggio Significato Simbolo convenzionale
AAA «Ooppure…» V
CCC «Se… allora…»
GGG «… e…» .
TTT «… è equivalente a…» III
GAGGAG «zero» 0
GCGGCG «positivo» +
GTGGTG «negativo»
TGTTGT «… è identico a…» =
AGAAGA «Registrare…» (Ricordare)
ATAATA «Cancellare…» (Dimenticare)
CGCCGC «Duplicare…» (Ripetere; Copiare)
CTCCTC «Trasferire…» (Dirmi)

«Questi messaggi sono impressi in codice in una doppia elica di DNA. Vengono attivati soltanto dall’input appropriato. In un certo senso, il QUIDNAC è completamente programmato, poiché è vero che ogni output di messaggi, o risposta, è impresso in codice nella molecola di DNA. Ma le diverse serie, le diverse combinazioni di reazioni non sono prevedibili, se non altro a causa della loro estrema varietà.» Di nuovo il sorriso, di nuovo nessuna reazione da parte degli ascoltatori. «Il numero totale delle possibili combinazioni dei messaggi è uguale alla somma dei quadrati di tutti i numeri da 1 a 1010.

«Tutti i dati dell’input, o stimoli, vengono registrati automaticamente, e comparati agli stimoli precedenti. Se corrispondono, verranno trattati come nei successi del passato; se non corrispondono, vengono escogitate varie analogie in base alle esperienze pregresse. Se non vi sono analogie che paiono avere una relazione sia pur minima al nuovo stimolo, vengono scelte e provate reazioni randomizzate. In pratica, il QUIDNAC apprende, e via via che apprende altera la struttura della molecola di DNA. In generale, le alterazioni consistono nello spezzare la molecola e nel ricostruirla secondo nuovi schemi, un po’ come nelle frasi anagrammate.»

A questo punto scrisse: «DINA MOLLITIS-VERDE».

E sotto: «IL MOL DNA SI DIVERTE».

«Vedete, un mol è un peso, un grammo molecolare, ossia il peso molecolare di una sostanza espresso in grammi. Il peso molecolare nel nostra DNA è all’incirca 287 x 1016, quindi il divertimento sta nel fatto che un mol peserebbe circa tre trilioni di tonnellate.»

Smilax rise cordialmente del sottile scherzo del DNA. Le tre facce davanti a lui, però, rimasero cristallizzate come mascheroni che esprimevano rispettivamente gaiezza, disperazione e indecisione. Il dottor Smilax si schiarì la gola e si accinse a continuare.

«Trilioni britannici o trilioni americani?» chiese l’ausiliaria che fungeva da segretaria. «Tonnellate corte da 907,18 chilogrammi, o tonnellate lunghe da 1016?»

«Me ne occuperò più tardi, se lei prende un appunto.» Un muscolo cominciò a prudere nel cuoio capelluto del dottore. «Ordunque:

«Il secondo stadio dell’unità di controllo QUIDNAC consiste in un sistema di circuiti integrati che traducono e amplificano l’output della sezione DNA. La terza sezione consiste di effettivi meccanismi di controllo, interruttori, relais, e così via, che azionano vari ‘arti’, ‘organi’ e funzioni della cellula. Vengono usati circuiti sintonizzati, in modo che un segnale piuttosto complesso può venire inviato come un ‘clang’ di eccitazione, dal quale ogni cellula ricevente seleziona il proprio segnale. Il nostro sistema nervoso funziona più o meno in base allo stesso principio.»

«Quello che noi vorremmo sapere, dottore,» disse il comandante dell’esercito, lanciando occhiate nervose alle due estremità del tavolo, «e credo di poter parlare anche a nome dei miei colleghi qui presenti… quello che noi vorremmo sapere è com’è il computer QUIDNAC, e come possiamo spegnerlo?»

«L’intera unità di controllo è molto simile a una radio a transistor,» spiegò il dottore. «L’intera massa del suo collegamento di controllo, voglio dire. La sezione amplificatrice è grande più o meno come un orologio per signora. Lo schedario-memoria DNA, naturalmente, è invisibile. Ma si può vedere il suo involucro… ha più o meno la forma e le dimensioni di un puntino tracciato a matita.»

«L’Aeronautica degli Stati Uniti non avrà molte difficoltà a massacrare un po’ di puntini,» disse Ickers, raggiante.

«Be’…» cominciò Smilax, poi sospirò.

L’ammiraglio lanciò uno sbuffo addolorato, che in lui equivaleva a una risata. «Credo che siamo spacciati,» disse. «Ho sempre saputo che la razza umana era destinata a venire annientata da qualcosa di simile a un branco di puntini. È logico.»

«Forse siamo spacciati,» fece accattivante il generale Meany, «e forse abbiamo ancora una possibilità. Credo che sia troppo presto per dirlo. Mi riservo di giudicare quando avremo sentito l’opinione del nostro esperto qui presente.»

«Vorrebbe farmi credere,» chiese Ickers, «che in pochi giorni quei microbi invisibili hanno ammucchiato abbastanza rottami da coprire ventimila miglia quadrate? E che noi non possiamo fermarli?»

«Temo che sia esatto,» disse Smilax, «anche se un po’ pessimistico. Hanno lavorato sottoterra per oltre due settimane, preparandosi alla conquista. Inoltre, hanno soltanto recintato l’area, non l’hanno ricoperta, e credo che si tratti solo di 17.213 miglia quadrate. È evidente che fino ad ora non siete riusciti a fermarli,» aggiunse, abbassando gli occhi. «È per questo che mi avete mandato a chiamare. Io prevedo un unico modo per fermare il Sistema Riproduttivo… anche se probabilmente vi ripugnerà.»

«Lo sapevo che non eravamo spacciati!» strillò il comandante dell’Aeronautica, prorompendo in una risata d’esultanza. «Qual è la sua idea, dottore?»

«Sicuro, parli pure. Tanto, ormai cosa abbiamo da perdere?» disse l’ammiraglio. «La razza umana è spacciata.»

Smilax illuminò una grande carta geografica. «Sembra che il Sistema abbia tre centri di sviluppo, per il momento, e stia recintando l’area che li include. I centri sono: il laboratorio di Millford, Utah; Altoona, Nevada; e Las Vegas. Facendo esplodere tre ordigni termonucleari nell’ordine di 150 megatoni ciascuno, ritengo che potremo neutralizzare il Sistema, a questo punto. Il resto sarà semplicemente un’operazione di ripulitura, mi pare che l’espressione sia questa, usando ordigni termonucleari più piccoli. So già quale domanda state per rivolgermi, perciò lasciatemi dire subito che stimo il totale delle perdite civili non superiore a un milione.»

«Ha detto un milione o un miliardo?» mormorò l’ausiliaria.

«Se questo è il prezzo del nostro impegno,» disse Ickers, sorridendo, «io ci sto!»

«È all’incirca la popolazione del Nevada e dell’Utah messa insieme,» osservò l’ammiraglio Nematode. «E questo è l’anno delle elezioni. Non riusciremo mai a convincere il Congresso a mandar giù l’idea di cancellare due stati dalla faccia della Terra. Tanto vale che gettiamo subito la spugna.»

«Entrambi gli argomenti dei miei colleghi sono validi,» disse prudentemente Meany. «Abbiamo qualche alternativa, dottore?»

«Soltanto il piano di una nuova linea di ricerca per alterare geneticamente il Sistema. Per fortuna o per sfortuna, il Sistema è in grado di trasmettere le caratteristiche acquisite. Entro due mesi circa, potremo…»

«Due mesi!» urlò Nematode. «Tra due mesi il Sistema coprirà l’intero globo terrestre.»

«No, secondo la mia stima, se continua a crescere con il ritmo attuale, in otto settimane raggiungerà una grandezza ottantotto volte superiore a quella attuale. Allora verrà a coprire circa 1.514.788 miglia quadrate, cioè più o meno l’area di quindici dei nostri stati occidentali, escludendo il Texas e l’Oklahoma, ma includendo l’area del Maine.»

«Oh, Cristo.»

Ickers aveva fatto entrare Grawk e sembrava in preda a un giubilo furibondo nell’udire quello che gli andava bisbigliando il suo subordinato. «Splendido! Splendido! Splendido! Glielo dica!»

«So che sembrerà un’idea pazzesca,» disse il piccolo, bruttissimo generale. «Ma forse è abbastanza pazza per avere buon esito. State a sentire. Ricordo di aver visto, una volta, un film di fantascienza, in cui si liberavano del mostro fulminandolo con l’elettricità. Ve lo ricordate? Bene… potremmo provare lo stesso sistema: attaccare l’alta tensione e fulminare il Sistema.»

«Roba da fantascienza,» sbuffò l’ammiraglio.

«Credo che l’idea non sia sbagliata,» disse Smilax. «Potrebbe funzionare… cortocircuitando i circuiti più fini… Ma, se fallisce, non ci guadagnamo niente.»

«Almeno non ci perdiamo niente!» strillò Ickers. Batté una mano sulla schiena di Grawk e abbaiò: «L’idea è sua, ragazzo mio. Se ne incarichi lei. Faccia collegare Altoona con l’alta tensione. Si metta subito all’opera. In bocca al lupo!»

«E quando avrà fatto fiasco,» disse l’ammiraglio, con biliosa buonagrazia, «sarà veramente in bocca al lupo. Sarà l’aviere di terza classe Grawk… se non la faremo fucilare.»

Meany riepilogò. «Corra, Grawk,» disse. «Le auguriamo di avere successo e le intimiamo di non fallire.»

«Non mi preoccupo.» Grawk trasferì fuori dalla porta il sogghigno a denti gialli e il sigaro nero.

Ad Altoona era stata piazzata un’altra telecamera e adesso, poiché Smilax era stato invitato a partecipare insieme ai Capi di Stato Maggiore alla loro partita settimanale al Gioco dell’Oca, i quattro assistettero alla nuova scena sul grande schermo. Un gruppo di giovani stava sfilando davanti alla barriera di filo spinato che i militari avevano eretto intorno alla città. Agitavano cartelli con le scritte: «COS’È’ SUCCESSO AD ALTOONA?, «ABBASSO LA FINE DEL MONDO» e «RENDETECI IL NOSTRO PIANETA».

«Se ne accorgeranno presto di quello che è successo ad Altoona,» disse il comandante dell’Esercito, lanciando i dadi. «Se il piano di Grawk va a buon fine, domani lasceremo ‘filtrare’ le notizie, tramite le nostre solite fonti attendibili.»

C’era una ragazza che sembrava avesse sbagliato corteo. Calzava un paio di stivaletti bianchi, e reggeva un cartello con la scritta «DAI, DAI MARMOTTE!»

Poi la ragazza si girò e Smilax poté vedere un altro messaggio, tracciato frettolosamente a tergo del cartello: «LA FINE DEL MONDO È UN’INGIUSTIZIA VERSO I GIOVANI!»

Arrivò un plotone di soldati che circondarono i contestatori e cominciarono a trascinarli via.

«Dove li portano?» chiese Smilax al generale Meany.

«Li terremo sottochiave fino a domani sera, o fino a quando finirà questa storia. Perché?»

«La ragazza con gli stivali. Mi sembra un soggetto ideale per i miei ultimi esperimenti sul dolore. Chissà…»

«Capisco,» disse Meany, dandogli una gomitata confidenziale. «Ahah, capisco. Naturalmente, la farò tenere per lei. Dove vuole che gliela portino? Qui?»

«Sì, ho organizzato l’infermeria. Grazie.»

«Ahah, vecchio birbante!»

«Lei non sa quanto,» disse Smilax fissando la ragazza… il ritratto vivente di Nan Richmons. Con l’immaginazione, lui vedeva già la perfetta simmetria dei suoi reni.

Capitolo Undicesimo

Beele della CIA

«Fermo là, Marocco.»

SHAXPERE

Mentre aspettava il suo nuovo collega, Suggs ammazzava il tempo scrivendo un’altra cartolina alla moglie. Ne scelse una con gli incantatori di serpenti al mercato di Dar El Fna. «Cara Madge,» scrisse. «Mi diverto sempre molto, anche se tu e Susie mi mancate tanto. Con affetto, Bubby.»

Si chiese se era il caso di aggiungere che a Marrakech le trattative per le assicurazioni andavano per le lunghe (l’attività di assicuratore era la sua copertura), ma decise di non farne niente. Probabilmente Madge pensava che lui se la stesse spassando con le ragazze dell’harem. E sarebbe stato davvero così, se Suggs non avesse avuto una paura pazza delle malattie veneree. Ricordava ancora troppo bene i documentari della CIA sulla sifilide terziaria e sulla gonorrea avanzata…

Un brontolio nello stomaco ricordò a Suggs che il Vicino Oriente aveva in serbo altri malanni per gli incauti. Adesso era pentito di non aver portato con sé una scorta di generi alimentari. Quel giorno Suggs aveva fatto quindici corse al bagno, e le aveva segnate sul suo diario con una specie di torva soddisfazione.

Non sapeva con certezza quale dei passeggeri in arrivo fosse il nuovo collega, ma alla fine puntò sul giovanotto magro con la visiera, che si stava liberando di una torma di ragazzini.

«Lei è Green?» mormorò Suggs, passandogli accanto.

«Eh?»

Suggs gli passò accanto di nuovo. «Lei è Mr. Green?»

«Oh, lei deve essere Mr. Gray.»

«Esatto. Però i miei amici mi chiamano Suggs. B. Suggs. Perché quella visiera?» Suggs si girò per squadrare apertamente il nuovo collega. «Qual è la tua copertura? Immagino che potresti dire di essere un allevatore di pecore, venuto a cercare qualche raro capo da riproduzione.»

«Mi chiamo Beele, Barthemo Beele. Sono ai suoi ordini, Mr. Suggs, ma…»

«Solo Suggs, prego.»

«Suggs, io non so che genere di corruzione dilaghi in questa città, ma vorrei fare del mio meglio per stroncarla. Sai cosa mi è appena capitato? Uno di quei bambini ha cercato di vendermi qualcosa che, ne sono sicuro, era una droga!»

Suggs prese la valigia di Beele e si avviò verso la carrozzella. Quando si furono seduti, diede al cocchiere il nome dell’albergo e si girò verso il nuovo agente per impartirgli saggi consigli. «Non badare a quei piccoli straccioni. Te li trovi sempre intorno e cercano di venderti le sorelle, l’hashish, i fratelli, le madri, il kif e via discorrendo. Ti ci abituerai.»

«Abituarmici! Spero proprio di no! È una vergogna e un delitto! Non hanno un ispettore scolastico, da queste parti? Quei bambini dovrebbero essere a scuola. Ho intenzione di scoprire i capi della malavita che stanno dietro a questa storia. Ma, come dicevo, qui il responsabile sei tu…»

Suggs scrollò con forza la testa e indicò il cocchiere. Per un po’ si scrutarono l’un l’altro in un silenzio infranto solo dallo scalpiccio del cavallo lungo un viale scenografico d’alberi di mandarini, e dai brontolii dolorosi dell’addome di Suggs.

Beele si vedeva di fronte un uomo abbronzato, dal collo taurino, dai capelli un po’ grigi tagliati a spazzola e dai lineamenti regolari che era difficile tenere a mente. Suggs dimostrava una quarantina d’anni e sembrava un ingegnere petrolifero; non c’era niente che lo distingueva dagli uomini comuni, tranne gli occhi freddi e opachi e una sottile cicatrice bianca sulla fronte. Dunque quello era l’aspetto degli uomini della CIA al lavoro!

Si chiese come se la sarebbe cavata lui, nella CIA. Occorrevano intelligenza, coraggio, curiosità e onestà? Barthemo ne aveva da vendere… ma aveva anche quel qualcosa d’indefinibile che distingue l’agente della CIA da tutti i comuni mortali?

Quando Barthemo Beele aveva due anni, era stato abituato a servirsi di uno sgabello con vasino che veniva tenuto in un armadio, davanti al quale pendeva una tenda. Quel piccolo segreto, con la sua aura di vergogna, lo aveva interessato tanto che si sentiva spinto a sollevare la stoffa e a guardarlo una dozzina di volte al giorno. In seguito si era reso conto che la sua curiosità aveva avuto origine da quell’episodio. Infatti, il piccolo «Themo» aveva preso la sciagurata abitudine di sollevare tutte le stoffe pendenti per guardare sotto. E dopo aver sollevato la gonna d’una visitatrice, moglie di un vescovo, «Themo» aveva ricevuto la prima solenne battuta della sua vita.

Eppure, come se il suo motto fosse Video, ergo sum, Barthemo aveva continuato a sollevare le stoffe pendenti ed a guardarci sotto, e non sapeva resistere alla tentazione di farlo. Era capace di alzare l’angolo di una tovaglia e di fissare le gambe del tavolo, affascinato, arrossendo per il senso di colpa e di uno strano piacere che non sapeva definire.

Era diventato un ragazzino magro dedito ai pettegolezzi, che aveva la mania di formare delle società segrete insieme agli amici, e di scrivere sulle staccionate quelle che sperava fossero parole oscene: VERGOGNA, ORGANISMO e soprattutto AMORE. Un giorno, per caso, sollevò una coperta e sotto ci trovò due organismi che facevano l’amore: sua madre e un uomo che non era suo padre.

Barthemo si affrettò a raccontarlo al padre, il quale lo ringraziò per l’informazione prendendolo a sculaccioni e chiudendolo in camera sua per un giorno intero. Quando pensò che il bambino avesse imparato la lezione, Beele padre si calmò e lo fece uscire… a condizione che badasse agli affari suoi. In effetti, Barthemo a quell’epoca si faceva già degli affari: vendeva informazioni alla polizia. Per compensi che andavano da cinque cents a un quarto di dollaro, diceva quali membri di quali società segrete rubavano le gomme da motocicletta ai benzinai e le riviste agli empori. In seguito, contro compensi più consistenti, passava informazioni sui furti di automobili e sui topi d’appartamento. Continuò così anche alle medie superiori, quando i suoi doveri di cronista scolastico gli portavano via gran parte del tempo libero. Quando partì per il college, la polizia gli fece un dono in danaro, e gli disse che era «Il miglior piccolo spione che abbiamo mai avuto.»

Un giorno, pensò Beele mentre la carrozzella procedeva per Boulevard Mohammed V, un giorno lui avrebbe scritto un libro in difesa degli informatori della polizia: Mi chiamavano spione. «Perché,» avrebbe scritto, «coloro che rischiano la vita smascherando assassini, ladri, spacciatori di droga, e tutti gli elementi corrotti e viziosi della nostra società, coloro che compiono il loro dovere di cittadini (poiché la mancata denuncia di un reato è un reato a sua volta) sono considerati dalla società con odio e disgusto?»

In quanto a Suggs, si vedeva davanti un giovanotto magro e nervoso, sul quale la visiera, con il cartellino STAMPA infilato nella banda elastica, sembrava un’inutile affettazione. Suggs si divertì a immaginare coperture più adeguate per Beele. Con un lindo abito scuro e una valigetta ventiquattr’ore, avrebbe potuto passare, forse, per un commesso viaggiatore dell’IBM. Oppure poteva farsi crescere la barba, così sarebbe sembrato uno di quegli eccentrici dei Corpi della Pace… un branco di fanatici comunisti. Fanatismo, ecco: quell’aria da giovane-vecchio, la freddezza della sua faccia e il piglio del vero fantico… quello era Beele. Suggs si chiese cosa ci sarebbe voluto per indurre Beele a uccidere un uomo. Quel ragazzo poteva diventare un killer passabile, con un’adeguata istruzione da parte di Suggs: magari niente di speciale, come Killer. Suggs si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che lui fosse costretto a uccidere Beele.

«A proposito,» disse. «Non azzardarti a mangiare niente o a bere l’acqua di qui. Sto cercando di farmi mandare un carico di viveri e di acqua dall’America. La roba che hanno qui ti ammazza.»

«Dissenteria?»

Quasi per rispondergli, lo stomaco di Suggs brontolò. Ma poi si accorse che non era il suo stomaco: era quello di Beele.

Il giovane annuì, tetro. «Ce l’ho anch’io. Deve essere stato quel sandwich e quel caffè che ho preso prima di partire dagli Stati Uniti.»

Mentre Beele firmava il registro e riempiva il modulo della polizia al banco dell’albergo, Suggs prese una cartolina con gli incantatori di serpenti al mercato di Dar El Fna. «Cara Madge,» scrisse. «Mi diverto sempre molto, anche se tu e Susie mi mancate tanto. Con affetto, Bubby.» La consegnò al sorridente concierge, e ricevette in cambio la chiave della sua camera e una grossa lettera arrivata per via aerea. Era dell’avvocato di Madge. Non c’era bisogno di aprirla.

«Non è giusto!» bisbigliò, cacciandosi la lettera in tasca. «Farmi causa di divorzio proprio adesso! Be’, non ho tempo di preoccuparmene, ecco tutto.» Però si morse le labbra, pensando alle possibili conseguenze che la cosa poteva avere per la sua carriera. Nella CIA, gli uomini con problemi coniugali non venivano promossi.

Appena nella stanza, Beele si abbandonò su un divano mentre Suggs andava avanti e indietro, spiegando la loro missione. Prese un lungo coltello a lama curva e ci giocherellò mentre parlava.

«I francesi stanno per lanciare un nuovo missile da queste parti… Non sappiamo ancora dove. Lo chiamano Le Bateau Ivre, e ho scoperto il nome dell’astronauta… un giovane pilota dell’aviazione francese che si chiama Marcel Brioche. Mi è costata uno dei miei uomini migliori, questa informazione.» Le budella cominciarono a brontolare tra dolori cocenti, e Suggs riprese a camminare come una belva in gabbia.

«So che il lancio avverrà presto, ma non so in quale posto nei dintorni di Marrakech hanno nascosto l’astronave. Perciò il nostro primo obiettivo consisterà nello scoprire la data e il luogo esatto del lancio.

«I francesi hanno due buone ragioni per tenerlo segreto. Innanzitutto,» e si spuntò le unghie con il coltello, «hanno un nuovo supercarburante, migliore di tutti quelli che abbiamo realizzato noi fino ad ora. Noi lo vogliamo, e lo vuole anche la Russia. Solo che noi ci teniamo di più ad averlo, e ti spiegherò perché. È roba così ‘calda’ che i soli ugelli che la reggono sono fatti d’un materiale chiamato reuttite. E l’unico posto al mondo dove si trova la reuttite è…»

«Nel Nevada!» esclamò Beele. Poi, pensando alle scatole lucenti che aveva visto il giorno prima, si chiese se la reuttite c’era davvero ancora, nel Nevada. «Ne facevano le reticelle per le lampade a gas e…»

«Già, già, vedo che sei già stato informato. Be’, i francesi da anni continuano a comprare segretamente vecchie reticelle per lampade a gas, preparandosi a questo coup.

«Il che ci porta alla seconda ragione per cui tengono segreta la missione.» Suggs decapitò un’altra unghia. «Pensiamo che stiano cercando di mandare un uomo sulla luna. E questo significa che se ne faranno forti… con conseguenze atroci per il resto del mondo. Capisci cosa voglio dire?»

Il ragazzo lo guardò meditabondo. «No, credo proprio di non capire,» ammise.

Suggs ringhiò. «Cosa ti succede, sei scemo o cosa? La Francia sulla Luna significa qualcosa di più di un semplice tricolore sul Mare Nubium. Significa che la Francia diventerà padrona della Terra! Ti piacerebbe diventare schiavo della Repubblica Francese, eh? Immagina come si ridurrebbe il mondo: tutti i ristoranti appestati dall’aglio e tutte le strade intasate da quelle automobiline di latta. Ti costringeranno a mangiare le lumache anziché cibo decente, come una bistecca con patatine fritte. Non potrai nemmeno procurarti più una Coca-cola… ti costringeranno a bere quel loro vino schifoso! Musei d’arte da froci! Birra imbevibile! Sigarette che si sbriciolano! Niente deodoranti maschili!»

Suggs girò su se stesso e scagliò il coltello contro la porta. Nonostante la forma goffa, la lama ruotò su se stessa e si piantò fremendo nel legno. «Ecco quello che penso io dei Mangiaranocchie!» gracchiò l’uomo.

«E cosa dobbiamo fare, impedire il lancio alla Luna?» chiese Beele quando trovò il coraggio di respirare.

«Solo come estrema risorsa. C’è un altro sistema, credo. Il razzo che hanno progettato dovrebbe avere una capsula biposto, ma partirà un francese solo. Ora, noi dobbiamo convincerlo a portare con sé uno di noi, in modo che possiamo ‘studiare gli effetti del nuovo carburante’ e avanzare ulteriori diritti sulla Luna. Il guaio è che i russi stanno cercando di fare lo stesso. In città ce ne sono due, Vovov e Vetch.»

«Dovrebbe essere facile convincerlo a mettersi con noi, anziché con quelli,» opinò Beele. «Non vedo cosa si può trovare a ridire, quando si tratta di scegliere tra la democrazia e il totalitarismo.»

«Già, già, e il capo ha autorizzato un pagamento per un quarto di milioni di dirham, anche,» disse Suggs, pensieroso. «Cinquantamila dollari, sarebbero. Spero che Mosca non offra di più.»

«Corromperlo? Hai intenzione di corromperlo

Suggs fissò con aria incredula il suo nuovo assistente, chiedendosi se era possibile essere tanto ingenuo. Le sue meditazioni vennero interrotte da un urgente, bruciante messaggio dei suoi intestini.

Quella sera andarono in un piccolo motel alla periferia della città, affacciato sui Monti dell’Atlante, per vedere Marcel Brioche. Era un giovanotto simpatico dal bel volto immobile, che indossava l’uniforme di gala dell’Aeronautica francese. Un’ombra di sorpresa e di irritazione gli passò sul viso, ma poi sorrise.

«Buonasera, Monsieur Suggs,» disse. «Stavo giusto per andare fuori a cena. Per cosa voleva vedermi?» Stava ritto sulla soglia, e non li aveva invitati a entrare.

«Se conosce il mio nome, forse sa anche cosa voglio,» scattò Suggs.

«Calma, calma. Non ho tempo per le schermaglie. I miei amici possono arrivare da un momento all’altro…»

«Sarò breve, Brioche. Noi rappresentiamo il governo degli Stati Uniti, come lei sa già, senza dubbio. Siamo disposti a trattare…»

«Io no. Bon soir.»

«Aspetti. Le chiediamo solo di portare con sé uno dei nostri uomini, come osservatore. Non abbiamo nessuna intenzione di interferire con il suo volo sulla Luna… se collabora con noi. Sappiamo che l’astronave può ospitare due persone. Che male c’è a prendere a bordo un… un autostoppeur

«Un autostoppista? Parliamo inglese, se non le spiace: e un inglese molto chiaro. Lei mi chiede perché non ci tengo a collaborare con il suo governo. Benissimo, glielo dirò.

«Quando ho sentito parlare per la prima volta di Le Bateau Ivre, tre anni fa, stavo per sposarmi. L’astronave era stata progettata per portarci tutti e due in luna di miele. Ma due anni fa, quando i lavori di costruzione dell’astronave erano progrediti al punto che era impossibile rinunciarvi, lei mi lasciò.»

«Mi dispiace,» disse Barthemo Beele. «Capisco quello che prova. Anche mia moglie mi ha appena piantato.»

«Che strana coincidenza! Io ho appena ricevuto gli atti del divorzio,» ridacchiò Suggs. «Ma sono cose che capitano. Perché non si è trovato un’altra ragazza?»

«Lasci che le racconti quello che è successo. L’uomo per cui la mia fidanzata mi aveva lasciato era un ufficiale di collegamento dell’aeronautica americana presso la NATO a Parigi. Ha avuto una breve relazione con lei e poi l’ha scaricata. Ufficiale di collegamento… drôle, eh? Aveva avuto un breve legame con lei, capisce?» L’astronauta aveva gli occhi pieni di lacrime. Tuttavia non piangeva: sorrideva minacciosamente. «La mia fidanzata si è buttata dalla Torre Eiffel. Vuole sapere perché non l’ho rimpiazzata? La risposta è ovvia, direi. Nessuna potrà mai sostituirla. Ah, ecco qui i mei amici.»

Brioche indicò un taxi che si stava fermando davanti al motel. A bordo c’erano Vetch e Vovov. Brioche calzò i guanti bianchi.

«Ma lei non capisce!» esclamò Beele appassionatamente. «Noi nazioni libere dobbiamo collaborare nello spazio, non farci concorrenza! Dobbiamo unirci per battere la Russia totalitarista.»

«Direi che lo spazio è abbastanza grande per contenere tre grandi nazioni,» mormorò il francese, con un blando saluto militare.

«Cosa ne direbbe di duecentocinquantamila dirham, Brioche?» chiese Suggs, disperatamente.

«Non mi offendo solo perché so come stanno sempre le cose, per voi americani. Cercate sempre di comprare l’onore degli altri. E lo fate, naturalmente, perché voi non ne avete. Bonsoir, messieurs.»

Si allontanò con un gesto noncurante, lasciando aperta la porta della sua stanza. «Non è ancora finita!» gli urlò dietro Suggs. I due agenti russi avevano sorrisi che arrivavano da un orecchio all’altro, quando il loro taxi prese a bordo il terzo passeggero.

«Ci vediamo, Suggs,» esclamò Vovov, facendo un gesto osceno.

Vetch, un ometto dalla barba da erudito e i modi pensosi, se ne stava zitto, lasciando che fosse Vovov a parlare. Vovov riusciva a parlare sempre, allegro e persuasivo, anche quando, come adesso, aveva la bocca piena di toast e caviale. Parlava in inglese, su richiesta di Brioche.

«Caviale e champagne!» gorgogliò Vovov. «Caviale e champagne! L’uno proveniente dalle gelide viscere dello storione del Baltico, l’altro dalle pallide, temperate, ombrose colline della Francia. Si accordano perfettamente, come si accordano Francia e Russia. Ognuno è di per sé perfetto, ma la combinazione è…» Poiché non trovò le parole adeguate, afferrò un altro toast caldo e lo spalmò di caviale.

«Gli americani,» disse, riempiendosi la bocca e soffocandosi un po’. «Gli americaniff sono porciff! Porciff!»

«Eh?» L’astronauta in realtà non gli prestava attenzione, e lasciava sgassare il suo champagne. Ne aveva già bevuto troppo e, come sempre, lo faceva precipitare tra i pensieri malinconici dell’unica persona con la quale avrebbe voluto bere champagne.

«Ffsuini! Sono tutti… mi scusi… suini!» disse Vovov.

«Suini? Sì, esattamente.» Brioche pensò all’uomo che aveva tolto la vita alla sua amata… il suino che si chiamava generale Grawk.

Solerte, il cameriere che era fierissimo del suo scarso inglese portò loro dell’altro champagne. «Encore bouteille de suino, messieurs?» E lo versò prima che potessero rifiutare.

«Gli americani non conoscono l’amore,» proseguì Vovov. «Loro hanno solo i supermarket e le superstrade. Fabbriche e vita di massa. Puah!» E spalmò il caviale. «Qual è la loro arte? Il fumetto. I canti dei lavoratori negri, rubati e cantati dagli sfruttatori bianchi. I film western. Non è bastato loro di sterminare i poveri indiani, no, dovevano anche glorificare il loro genocidio. L’indiano deve continuare a cadere dal suo cavallo, per soddisfare la sete di sangue dei decadenti imperialisti. Bah! Mi ricordo un film, La battaglia di Comanche Arroyo, dove facevano la stessa sequenza un sacco di volte: si vedeva un indiano che continuava a cadere morto da cavallo. Speravano che il loro pubblico depravato non lo notasse.»

«Era quel film con John Wayne?» chiese Brioche, interessato.

«No, credo che fosse… me lo sono scordato. Ma vede, era quello dove il colonnello vuole restare a tenere il forte, ma il capitano, quello giovane che è innamorato della moglie del colonnello… Be’, lui…»

«Oui, oui, je… lo ricordo benissimo!» esclamò l’astronauta. «E poi il capitano porta uno squadrone verso Comanche Arroyo, anche se sa che sarà la morte certa, che verranno tutti massacrati, perché sa che in questo modo darà al forte il tempo necessario per mandare a cercare i rinforzi!»

«Ricorda le sue ultime parole?» Vovov cominciò a piangere, mentre riempiva di nuovo i bicchieri di champagne. «’È la cosa di gran lunga migliore che io abbia mai fatto, e ora andrò a ricevere la ricompensa più grande’. Ah, anche un uomo forte si sente commuovere, di fronte a un discorso così.»

«Ah, sì. Un film meraviglioso.»

Dopo alcuni minuti di silenzio assorto, Vetch parlò. «A costo di rovinare il nostro piccolo festival cinematografico,» disse in tono asciutto, «devo pregarla di ritornare all’argomento principale della nostra conversazione. E cioè, Marcel Brioche, è disposto a portare con sé un osservatore russo nel suo viaggio alla Luna? Non le offriamo un compenso, un prezzo materiale… questo modo di comportarsi lo lasciamo agli americani. No, noi possiamo offrirle solo la consapevolezza di contribuire al rovesciamento dell’imperialismo e all’espropriazione degli espropriatori.»

Brioche scosse il capo. «No, non posso aiutarla. Io sono per la Francia, solo per la Francia. L’unica persona che avrei voluto portare sulla Luna con me… è lontana, lontana, al di là della Luna, ormai. Andrò da solo.»

Si alzò e si congedò, chiuso in un desolato silenzio.

In russo, Vetch disse: «Ho paura che dovremo ucciderlo. Peccato che non lavori dalla parte giusta. È un tipo onesto.»

Notò che Vovov stava guardando nel vuoto, con gli occhi rossi e un’espressione vacua dipinta sul viso. Vetch gli diede una gomitata.

«Non prendertela così,» disse. «Ricordati, siamo agenti segreti. Non possiamo permetterci di fare amicizia con i nostri commensali, proprio perché può darsi che dobbiamo ucciderli. Un agente non ha amici. Dobbiamo essere pronti a sacrificare chiunque…»

«Ssst!» disse Vovov, la faccia larga contratta per l’irritazione. «L’avevo quasi ricordato… il nome dell’attrice che faceva la parte della moglie del colonnello. Era Virginia Mayo? No…»

Capitolo Dodicesimo

La nostra eroina

«Dell’amore come spettacolo, Bathsheba aveva una discreta conoscenza; ma dell’amore, soggettivamente, non sapeva nulla.»

HARDY

Quando Aurora fermò la macchina, B476 si arrampicò sulla spalliera del sedile e cominciò a squittire, lamentandosi per quella cessazione del movimento.

«Su, andiamo,» disse lei. Ma B476, un ratto da laboratorio bianco e nero, continuò a fremere innervosito fino a quando Aurora non gli accarezzò la schiena con il pollice.

Accendendosi una sigaretta, lei si appoggiò alla spalliera e guardò i pali storti del telefono, simili agli alberi di navi bloccate dalla bonaccia. Gli alberi cominciavano a gettare ombre molto lunghe, ormai, e Aurora si era persa.

Spalancò il cassetto del cruscotto, poi lo rinchiuse subito. L’istinto la spingeva a cercare lì dentro la carta stradale del Nevada, mentre sapeva benissimo che era nella tasca del suo impermeabile, appeso nell’armadio a casa sua, a Santa Filomena, lontana parecchie centinaia di chilometri.

Quante centinaia fossero, lei non ne aveva idea. Era evidente che quella strada stava diventando un sentiero per mucche, e che portava a nord, non a est. Era partita da Santa Filomena quella mattina, con l’idea di arrivare a Millford prima di notte. Sembrava che l’ultimo cartello «DEVIAZIONE — VIETATO L’ACCESSO — ZONA MILITARE — PERICOLO» l’avesse dirottata nella direzione sbagliata. Adesso poteva trovarsi a una dozzina come a un centinaio di chilometri di distanza dall’autostrada dell’Utah. Comunque, sembrava non ci fosse altro da fare che tirare avanti.

Con un sospiro, schiacciò la sigaretta nel portacenere già strapieno. Poi lo estrasse e lo vuotò fuori dal finestrino. Il vento s’impadronì del turbine di cenere e lo portò via in scie che il sole colorava di arancione pallido. La polvere tornava alla polvere, le ceneri alla cenere del deserto. Yucca Flats non poteva essere molto lontana. Alcune particelle di pulviscolo continuarono a volarle intorno in un insensato moto browniano, faville di luce ardente.

Il fulgore precipita dall’aria Tante belle regine sono morte; E la polvere ha chiuso gli occhi d’Elena…

B476 e B893 si erano raggomitolati vicino a lei sul sedile. I ratti da laboratorio erano sempre deboli e delicati, ed erano sensibili al rinfrescarsi dall’aria, quando calava il sole. Era assurdo, si disse Aurora, preoccuparsi tanto della sorte di un paio di ratti malaticci, quando la razza umana stava per essere strangolata dalla propria invenzione. Era…

Anormale?

Una volta, una rivista aveva scritto, a proposito dei bambini prodigio: «È errato supporre che non possano vivere esistenze felici, equilibrate, piene. L’idea popolare dei bambini prodigio nevrotici è infondata.»

Aurora aveva tre anni quando aveva letto quell’articolo e ne aveva valutato le promesse. Era così? Lei avrebbe avuto davvero un’esistenza felice, piena, equilibrata? Dunque lei era eguale a tutti gli altri? Oppure era destinata, come suo padre, a uno speciale tormento?

L’ipotesi vera era la seconda, e lei lo sapeva già quando aveva tre anni. Quando parlavano con lui, gli altri chiamavano suo padre «Charlie», ma dietro le spalle, lei lo sapeva, gli davano «dell’inventore matto», e ridevano di lui, con una sorta di paura negli occhi. Come lei avrebbe capito più tardi, quella era la ragione di tutti i brutti scherzi. Non ne avevano risparmiato uno, dal rovesciargli la latrina all’appendere un water nel granaio fino a spassi più maligni, come bruciargli la rastrelliera del granturco quand’era piena. Lui sembrava non si arrabbiasse mai: era solo perplesso. Soffiava nella pipa spenta, di solito vuota, e osservava il cane avvelenato o il chiodo piantato nel serbatoio del trattore come se fosse una specie di equazione da risolvere con un’attenta concentrazione.

Adesso, mentre Aurora ingranava di nuovo la marcia e si avviava per quella strada evanescente, le sembrava quasi che qualcuno stesse giocando un brutto scherzo a lei. Vide un altro cartello, «DEVIAZIONE»: indicava due solchi di ruote di carro che non potevano condurre da nessuna parte. Lei obbedì, scrollando la testa.

B476 le si arrampicò sulla spalla, si rannicchiò tra il collo di lei e la spalliera del sedile e si accinse a dormire. Lui e B893 non erano utilizzabili per gli esperimenti. Erano ratti «di scarto» che, a causa di difetti genetici o di condizionamenti particolari, erano inutili per gli esperimento comportamentistici. Lei aveva preso l’abitudine di portarseli a casa, per quei pochi mesi che vivevano. Certo, erano scherzi di natura, erano anormali… ma Aurora sapeva empatizzare con l’anormalità.

Aurora era un genio in una comunità in cui il genio era trattato come una pericolosa deviazione della norma. La simmetria campaniforme della normale curva di distribuzione dei Quozienti d’Intelligenza, nella sua prima scuola, era diventata una gobba simile alla rocca di Gibilterra, prima che la notassero e!a spedissero ad una «scuola differenziale per bambini eccezionali». I suoi compagni di classe avevano palati fessi, catarratte agli occhi e menti opache. I maestri non capivano bene perché Aurora fosse finita lì: la sospettavano di avere qualche difetto nascosto e perciò più orribile.

Aurora non era rimasta a lungo alla scuola differenziale. Studiando a casa, a dieci anni aveva preso il diploma delle scuole superiori con un corso per corrispondenza. A tredici anni si era laureata summa cum laude in psicologia del comportamento all’University of Minnesota, e a diciassette era diventata Professore Associato di Psicologia all’University of California a Santa Filomena.

Era stato allora che aveva assunto l’aspetto scialbo e prudente che aveva preso il posto del vero carattere nella sua vita professionale. Portava i capelli corti (ma non troppo), le unghie corte e laccate di chiaro, scarpe con mezzi tacchi. Oltre al sobrio vestito a giacca che indossava, ce n’erano altri cinque nel suo armadio, a casa, di varie sfumature di grigio. Si truccava e si ingioiellava solo quel tanto necessario per non farsi notare per quel tipo di donna che non si trucca e non porta gioielli. Non che ad Aurora (la vera Aurora, racchiusa nel profondo della sua figura professorale) non sarebbe piaciuto essere ammirata, ma la sua posizione richiedeva un tatto particolare. Doveva rendersi poco appetibile agli occhi dei suoi studenti maschi (molti dei quali erano più vecchi di lei), per tenerli a debita distanza. Doveva sembrare più vecchia agli occhi dei suoi colleghi, che nonostante tutto tendevano inconsciamente ad essere scettici nei confronti dell’efficienza dei giovanissimi. Così la mimetizzazione delle aule e del laboratorio era diventata un’abitudine. Aurora aveva vent’anni, se ne sentiva venticinque, si comportava come se ne avesse trenta, e qualche volta la gente gliene attribuiva trentacinque.

Due figure erano ferme sulla strada, a sinistra; evidentemente aspettavano che qualcuno desse loro un passaggio nella direzione da cui arrivava Aurora. Rallentò per chiedere se sapevano la strada per Millford, Utah. Quando i due si girarono, Aurora rimase sbalordita nel riconoscere un suo allievo, Kevin Mackintosh.

«Che ci fa qui nel Nevada, Mr. Mackintosh?» gli chiese, frastornata.

Il giovanotto aveva gli occhi vitrei. Invece di risponderle, diede una gomitata al suo compagno. «Siamo davvero andati,» borbottò. «Quella pollastra lì mi sembra una delle mie prof.»

«Oh, era roba buona,» assentì l’altro, guardando da un’altra parte. «Quale pollastra?»

Aurora si innervosì un po’. Innestò la prima e tenne il piede sull’acceleratore. «Avete idea da che parte sia la strada per l’Utah?» chiese, incalzante.

Kevin Mackintosh pareva guardare nel vuoto. «La strada per il Tao?» mormorò. «Le Sette Vie. Guardi!» Levò le braccia verso il tramonto. «Apocalisse! Le vergini sagge accendono le lampade! La nera yoni della Notte accoglie il lingam fiammeggiante del Giorno!»

«Già, la Guerra dei Mondi,» disse Ron.

«Signora, il mio amico Ron, qui, ed io, abbiamo visto l’Inferno. Abbiamo visto la fine del mondo in smagliante technicolor. I paracadutisti che combattevano alla morte contro i Mostri venuti dallo Spazio. Hanno arrestato i nostri amici, ma noi siamo scappati.»

«Chi è stato?» chiese Aurora. «I Mostri Venuti dallo Spazio?»

«No, i paracadutisti. L’esercito. È la fine della civiltà.»

«Pentitevi!» urlò l’altro. «Avete visto Gorgo

«Il mio amico, qui, ed io stiamo attraversando il Sahara anche se non abbiamo acqua, e andiamo in Marocco.»

Aurora si rilassò un po’, riconoscendo un paio di studenti non troppo intelligenti del college, che drammatizzavano il loro primo incontro con la droga. «Se non v’interessa molto il modo in cui ci arrivate,» disse, energica, «potete venire con me nello Utah… spero.»

«No, grazie, signora. Dico sul serio, andiamo in Marocco; Ron ha la carta di credito delle linee aeree di suo padre. Ne abbiamo fin sopra la testa di questo paese. Bisogna andare in Marocco, con Dorothy Lamour e Bing Crosby e Bob Hope e William Burroughs.» Cominciò a cantare, con voce stonata, una versione approssimativa di «The Road to Morocco».

«Ho capito,» disse il suo compagno. «Hai visto Casablanca

«Se mai ce la faremo a trovare un passaggio per andarcene da qui. Non passano altro che jeep e carri armati, come in Campo di battaglia, e mica si fermano.»

«Così, se ne sono andati?» fece Aurora, e premette l’acceleratore.

«No andati,» spiegò paziente Mackintosh. «Armati.»

Quando Aurora si allontanò, Ron la guardò e lanciò un urlo. «Oh mio Dio, sto proprio andando! Oh mio Dio! CÈ UN RATTO CHE LE SPUNTA DALLA TESTA!»

«Già! Ehi, Ron, hai mai visto Giorni perduti

Un cartello la informò che le luci a sinistra erano quelle di Piedport, Nevada, sei chilometri più in là. Mentre Aurora stava per esalare un sospiro di sollievo e per infilare la deviazione (perché almeno a Piedport ci doveva essere un albergo), le luci della cittadina si spensero. Si fermò e attese per parecchi minuti, ma non successe niente. Era inutile stare lì ferma, e tanto valeva continuare e arrivare a un centro abitato che almeno avesse l’illuminazione.

La radio fece udire solo uno squittio che allarmò B476. Nessuno dei pulsanti pareva avere altro effetto che quello di variare l’intensità del sibilo. Era strano, perché non poteva essere più tardi delle nove. Avrebbe dovuto esserci una dozzina di stazioni.

Regolando i comandi a mano, trovò una stazione molto debole, a sud-est.

«…voi continuate a mandarci lettere e cartoline, eh? Indirizzatele tutte a me, siamo felici di avere vostre notizie… chiedeteci pure tutte le canzoni che volete… Ecco qui un comunicato, gente, sembra che abbiano avuto un guasto alla rete di distribuzione dell’elettricità dalle parti della California, Nevada, Oregon, Utah, Washington… Iowa, Kansas…»

Nel bel mezzo di questo elenco allarmante, la stazione si perse. Aurora trovò una stazione di San Francisco, ma quella si limitò ad esortarla a non telefonare all’azienda elettrica.

«Stanno facendo tutto il possibile per ristabilire il servizio. Ripeto il bollettino con il messaggio del Pentagono: «Il guasto è stato causato da un corto circuito di una centrale nel Nevada, in seguito ad un esperimento di cui non è consentito divulgare la natura, ma che era d’importanza vitale per la sicurezza della nazione. La corrente verrà ridata al più presto possibile’. Questo era il comunicato del Pentagono. E adesso, ve lo ripeto ancora una volta, non telefonate all’azienda elettrica…»

Aurora cominciò a vedere dei veicoli militari parcheggiati sui due lati della strada. Sembravano abbandonati, oppure gli occupanti si fingevano morti. Forse in quello che Mackintosh e il suo compagno le avevano detto c’era del vero, più di quanto avesse immaginato. E la caduta della corrente…

Si portò sul bordo della strada e parcheggiò. Conoscere i potenziali pericoli del Progetto 32 era inquietante, ma vedere concretati quei pericoli era troppo orribile perché potesse rendersene subito conto. Doveva evitare quel pensiero, si disse, spegnendo i fari. Aveva bisogno di contemplare la serenità del cielo.

Era il più luminoso che avesse visto, dai tempi della fattoria nel Minnesota. Non c’erano luci che nascondessero le stelle, e Aurora si stupì di quel fulgore. C’erano Sirio e Aldebaran, che indicavano le Pleiadi, e Orione. C’erano Castore e Polluce. Lei ripensò alle notti in cui aveva imparato i loro nomi, sbirciando con uno dei telescopi inservibili e pieni di crepe di suo padre.

In quella stagione la fattoria odorava di granturco ed era immersa nel frinire dei grilli… era sempre così, per tre stagioni all’anno. A intervalli irregolari, per tutta la notte, l’unico animale da allevamento della fattoria, il Gallo, si metteva a cantare. Per il Gallo, qualunque momento era l’alba; era come l’orologio rotto sulla mensola del camino e l’orologio rotto del corridoio. Di tanto in tanto, suo padre decideva di aggiustare uno degli orologi, ma lei non li aveva mai sentiti funzionare.

Suo padre aveva inventato una macchina per scuoiare i polli, ma non aveva avuto il coraggio di provarla, neppure sul Gallo, e neppure su qualunque altro pollo. Perciò, sebbene fosse un apparecchio molto bello, e su questo erano d’accordo tutti e due, era finito in mezzo al prato; aveva finito per arrugginirsi, e il Gallo vi si appollaiava per annunciare l’alba alle 11 di notte.

Sul prato si erano aggiunti altri ornamenti, con il passare degli anni. Un pallone aerostatico che perdeva. Una specie di doccia meccanica per gli uccellini, che gli uccellini evitavano. Un modello perfezionato di macchina per cucire. E circa 168 telescopi, il primo incominciato quando Aurora era nata e sua madre era morta, l’ultimo rimasto incompleto diciassette anni più tardi.

Ogni volta, suo padre molava con diligenza le lenti per un giorno o due, poi passava ad altri progetti. Di tutti i telescopi sul prato, l’unico funzionante era quello che suo padre aveva acquistato da un rigattiere e aveva riparato con lo scotch. Con quello, Aurora aveva scrutato il quadrato di Pegaso, Vega e il trono di Cassiopea, le stesse stelle immutabili che adesso guardava attraverso il parabrezza.

Una sagoma nera e orrenda si mise tra lei e le stelle. La portiera dell’auto si aprì e uno gnomo dal collo taurino, in uniforme, salì accanto a lei. Lasciò la portiera aperta per un momento, per vederla meglio.

«Calma, pupa,» ringhiò, agitando una pistola. «Sono il generale Grawk dell’Aeronautica degli Stati Uniti, e non ho mai violentato una donna in vita mia. Non ne ho mai avuto bisogno, se capisce quel che voglio dire. Certo che c’è sempre una prima volta, no? Ahah!»

«Come sarebbe? Scenda dalla mia macchina!» Aurora lo disse con il suo più severo tono professorale. Lui ridacchiò.

«Requisisco questa macchina, signora mia. Emergenza nazionale. Forse avrà sentito che è mancata la corrente dappertutto?» Si puntò il pollice sul petto. «Sono stato io. Comunque, ho bisogno di una macchina con autista, e lei è la prescelta.» Si fece un po’ più vicino. «Non è poi così male, vede.»

Un fievole squittio risuonò sotto al generale.

«Si alzi! Si è seduto sul mio ratto!» gridò Aurora.

Si compì una trasformazione istantanea. Quello che un attimo prima era un piccolo scimpanzé aggressivo, sogghignante, sicuro di sé, urlò e volteggiò per finire sul sedile posteriore. Il corpo di B893 giaceva schiacciato sul cuscino del sedile anteriore. Aurora lo prese per la coda. Era morto. Un sorriso strano le aleggiò sul volto, mentre lo sollevava, rigirandolo nella luce.

«RATTObuttiviaquelRATTOvialontanodaMEbuttiviaquelRATTO!» urlò lui.

«Scenda dalla mia macchina. Subito.»

La canna della pistola le fece schizzar via dalla mano B893 fuori dalla portiera aperta. Grawk ritornò sul sedile anteriore e la guardò con un’espressione mutata, più rispettosa. «Mi è simpatica,» disse. «Non perde la calma, lei. Il suo ratto, eh? Che bell’idea. Ma adesso muoviamoci. Svolti a destra alla prossima pietra miliare.» E sbatté la portiera. Aurora non si mosse.

«Ho un altro ratto in macchina con me,» disse freddamente, assaporando ogni parola. «Vivo.»

«DOVE? Oddio, ce l’ho addosso? Dove?»

«È al sicuro, fuori dalla sua portata, per il momento. Ma se non butta la pistola sul sedile posteriore e non comincia a comportarsi da gentiluomo, questo ratto glielo infilo dentro al colletto!»

«Sta… sta scherzando.» Un lungo silenzio. «Su, non può essercene un altro… c’è?» Un altro lungo silenzio, poi la pistola cadde con un tonfo sul sedile posteriore.

«E adesso, generale, la condurrò dovunque vorrà andare, se mi dice cos’è tutta questa storia.»

«Andiamo al quartier generale del NORAD, nel Colorado. È più sicuro,» disse lui, con voce turbata. «Non posso dirle cosa ci faccio qui… è un segreto.»

«Se ha qualcosa a che fare con il Progetto 32, può dirmelo,» fece Aurora e gli passò la borsetta. «Lì dentro ci sono i miei documenti.»

«Chi è lei?» Il generale frugò nella borsa, tirò fuori una carta e vi puntò contro una lampada tascabile. «Aurora Candlewood, Ph. D. Consulente Psicologico Speciale del Progetto 32. Una bambina come lei? E che significa quel titolone, pupa?»

«Se lei sta per dirmi quello che immagino, significa che il Progetto 32 ha un bisogno disperato della mia presenza.»

«Glielo dico io di che cosa abbiamo bisogno,» fece lui. «Di un bravo ammazzadraghi.»

«Giusto. E adesso, per favore, le spiace dirmi qualcosa di più sul conto del drago?»

Capitolo Tredicesimo

Il viaggio meraviglioso

«Rudis indigestaque moles»

OVIDIO

Mentre la macchina accelerava, a bordo la conversazione rallentava: fino a che, mentre volavano nella periferia della città deserta, i cinque erano piombati in uno strano silenzio.

L’auto sbandò, rallentò, scese sballonzolando sui rulli d’acciaio in un tunnel buio. Cal la sentì sbatacchiata qua e là da getti di vapore e d’acqua: poteva sentire l’odore dell’acqua saponata. C’era lo stridore delle seghe sull’acciaio, e la tenebra fonda esplodeva e lampeggiava di guizzi lividi. In quella luce strana, Cal si accorse di essere solo. Gli altri quattro, la macchina, tutto ciò che gli era familiare era scomparso, tranne il pezzo di sedile cui era ancora legato dalla cintura di sicurezza, che si muoveva in avanti sui binari invisibili verso un appuntamento misterioso.

Attraverso una doppia porta irruppe in una sala invasa da una luce rossosangue, piena di figure mute e ben vestite. Manichini, pensò Cal con un senso di sollievo. Negli angoli, c’erano arti muti e nudi, a mucchi da carnaio. La metà superiore di un manichino, precariamente eretta, scivolò lungo un piano inclinato oleoso, sbatté con la faccia contro la parete e cadde riversa. In lontananza suonò una campana. Gli spruzzatori innaffiarono l’incendio inesistente, mentre delicate turbine idrauliche giravano sotto di loro. Nell’ombra atrosanguigna, la faccia sfasciata e senza naso del manichino ricevette la pioggia.

Brian Gallopini sì ritrovò inesplicabilmente solo, mentre il sedile al quale era legato usciva nell’arida, gialla luce del sole. La luce sfolgorò biancorossa nella sua retina; socchiuse gli occhi per sbirciare i globi. Soli artificiali? No: vasche per pesci rossi, vasche d’oro innalzate sulle leve verso il sole; un’offerta al sole. I pesci rossi galleggiavano a pancia in su.

I gatti strisciavano sui ripiani superiori, e andavano dal nulla al nulla. Alcuni portavano orologi d’oro o d’argento allacciati intorno alla parte mediana del corpo. Uno si soffermò per il tempo sufficiente perché Daisy potesse leggere l’orologio. Non andava bene. Daisy vide la data cambiare, dal 7 all’8, con uno scatto. Il gatto lanciò un breve grido e si mosse più in fretta. Solo allora, lei si accorse che tirava un piccolo barattolo pieno di pezzi di macchina.

Elicotteri giocattolo a due pale si aggiravano per la sala, intessendo sottili fili di rame in bizzarre trine prive di senso. Jack sbadigliò.

Ogni barattolo sembrava arrugginito quanto bastava per lasciar passare qualche batterio. L’accumulo di gas era terribile, come Harry dimostrò allegramente. Piantò il suo coltello in una scatoletta che gli fece esplodere sugo nero sopra la mano. Lui rise.

«Crauti!» disse. «Crauti marci!»

Cal non rise. «È strano. Quasi tutte le scorte sono andate, e il resto è marcito. In pochissimi giorni. Misterioso. È rimasto qualcosa?»

Harry rise ancora. «Niente di cui valga la pena di scrivere a casa,» disse, affondando il coltello in un altro barattolo, che schizzò fuori ricotta nera e grigia.

Più tardi Cal vide il modo in cui il sistema incorporava quei barattoli esplosivi in una specie di motore a combustione interna, usando un vecchio cilidro d’automobile, e ricaricando otto lattine dopo ogni rivoluzione. Ma in quel momento stava osservando i carrelli da supermarket.

Ferrifere erano le ruote maestose del suntuoso «mostro d’acciaio», o locomotiva, che stava su rotaie di metallo ferrico, lucido e brunito. Appariva possente e, in questo caso, l’apparenza non ingannava, perché in effetti stava sbuffando, impaziente di partire. Il vapore usciva sibilando con insistenza e dava energia alle bielle ironiche, e poi il colosso scendeva su solchi inclinati verso un enorme giro della morte. Salendo tra i ruggiti alla velocità di 180 chilometri orari, il leviatano continuava a fare un giro della morte dopo l’altro. Inserito in un cerchio verticale, alto quattrocento metri, avrebbe continuato così fino a quando non «fosse finito il vapore».

Jack seguiva con gli occhi la locomotiva, aspettando che cadesse. I suoi fari verdazzurri, del colore delle Calliphoridae, splendevano nella foschia pomeridiana. La locomotiva faceva girare una gigantesca manovella, fatta di travi d’acciaio piegate, che aveva come manico un palo telefonico. La manovella muoveva un sistema d’ingranaggi sopra una gru appollaiata sul tetto di un basso edificio, che poteva essere una fabbrica o una scuola.

Gorgogliando, la fila di lavatrici automatiche ricominciò il suo complicato balletto. Ognuna delle tozze lavatrici balzò al suo posto. Se avessero cominciato a muoversi verso di lei, si disse Daisy, si sarebbe messa a urlare. Anche se non sarebbe servito a niente.

Comunque, era un posto come un altro per starsene seduta, a dare un’occhiata a un giornale abbandonato.

IL LANCIO DELLA SONDA PER VENERE

Che idea oscena. Non diceva niente dei movimenti delle lavatrici, notò Daisy. Naturalmente, non c’era un titolo come Entrano in scena le lava-attrici.

Una delle macchine lanciò grandi lingue di fiamma verde.

Quanti cosmetici esistevano per rendere o per conservare belle le donne! Brian Gallopini (Ph. D.) non se ne era mai reso conto. Lì Lady Clinge, la Regina Esther, il Principe Gloriani ed altri nobili si contendevano il privilegio di prendersi cura della superficie delle signore. Ma attualmente facevano a gara per fornire alle grosse macchine simili a scatoloni lubrificanti alla cold cream e carburanti profumati. Una grossa di travi metalliche era stata legata insieme, formando un’elica per azionare un grosso coso a forma di cassa, che le casse più piccole adesso stavano caricando: una specie di gigantesco modellino d’aereo senz’ali. Il modello cominciò a muoversi, maestoso, e uscì dalla facciata sventrata dell’officina, e la sua elica gigantesca frullava sollevando una trina di spuma.

Su di un carro coperto con la scritta WAGONS WEST COCKTAIL LOUNGE, tirato da un cavallo, che si dirigeva lentamente verso est, giaceva un mucchio di figure nude.

«Manichini,» assicurò Harry a Cal.

I due erano in sella a pony meccanici del supermarket, diretti verso ovest. Quando passarono davanti a un casinò in piena attività, Harry indicò gli esseri simili a zombie che stavano dentro. Senza pensare a niente, infilavano monete nelle slot-machines e tiravano le leve. Le ruote giravano, si formavano le combinazioni, ma niente li scuoteva. Non erano macchine, eppure non erano inequivocabilmente umani. Erano i soli elementi di tutta Las Vegas che rimanevano esteriormente immutati, benché al servizio di un nuovo padrone. Con una mano reggevano i club-sandwich e li mangiucchiavano, senza concedersi pause nel loro lavoro.

«Judo,» borbottò Harry in tono d’ammirazione, mentre guardava due scatole grosse come cani che si facevano guerra. «O qualcosa del genere.» Una aveva per scudo un cartello piegato, sul quale era ancora visibile la parola KENO. Kenogenesi? si chiese Cal. Che altro poteva aizzare così un fratello contro il fratello?

La scatola che sembrava un bassotto combatteva con due paia di cesoie tagliafili, mordicchiando le zampe delicate dell’altra, una scatola alta, tipo airedale, che era armata di una sfera di piombo fissata a un bastone e cercava di ridurre il bassotto ancora più piatto. Keno sarebbe riuscito ad accorciare Fido? Oppure Fido avrebbe ridotto Keno alla sottomissione?

Con un ronzio rabbioso si affrettò a intervenire la macchina a raggi X uscita da uno studio di dentista e dipinta di color lavanda. Cal trascinò via Harry prima che entrambi ricevessero una dose letale di radiazioni.

«Kinematografo!» gridò il Professore, ispezionando gli apparecchi a lui sconosciuti dell’officina elettronica. «Fonogramma! Stereofono!» Si fermò davanti a una videocassetta. Poiché non aveva mai visto prima la televisione, Brian si incantò a vedere il vecchio documentario sulla sonda venusiana, che scorreva avanti e indietro come un palindromo.

Da ogni parte sorgevano elaborazioni meccaniche in stile rococò. Daisy le guardava, incapace di concentrare lo sguardo, di comprendere. La vita senza fine di un elevatore di cereali sollevava lungo un piano inclinato una quantità di bocce da bowling e le faceva cadere dalle finestre del secondo piano del casinò. Attraverso fori collimanti, le palle da bowling precipitavano nella cucina del seminterrato dove, poiché la loro energia potenziale si era convertita in energia cinetica, la loro quantità di moto si trasformava in impulsi quando esse urtavano, una ad una, le leve di una pressa. Notte e giorno, la pressa stampava intelaiature d’alluminio per nuove cellule, nuove cellule, nuove cellule. In compagnia dei club-sandwich, le bocce da bowling venivano poi issate al pianterreno a mezzo del montacarichi. I sandwich venivano convogliati su nastri trasportatori fino agli organismi che essi alimentavano e che a loro volta facevano funzionare le dinamo a un braccio, mentre le bocce da bowling rotolavano in un pozzo di caduta, arrivavano sulla strada e venivano caricate sull’ascensore in attesa. L’ascensore era azionato da ingranaggi a orologeria, da un sistema idraulico e, in ultima analisi, dai barattoli di crauti che esplodevano in un’altra parte della città. Questi facevano oscillare i pistoni, girando una manovella che comprimeva l’aria in lunghi serbatoi cilindrici. I cilindri formavano poi i rulli per il trasporto di oggetti pesanti nei dintorni dell’ascensore dove, connesso a motori ad aria, un sistema idraulico e gli ingranaggi tolti dall’orologio di una torre, li faceva funzionare incessantemente. L’energia per modellare le lamiere d’alluminio era fornita dall’evacuazione della riserva d’acqua della città, attraverso turbine idrauliche. L’alluminio veniva fuso in una vasca del reparto animali di un grande magazzino vicino, riscaldata dai raggi del sole concentrati attraverso le vaschette dei pesci rossi. I rottami di alluminio venivano scaricati nella vasca da una catena di gatti.

«NESSUN’ALTRA PALESTRA PUÒ FARVI UNA SIMILE OFFERTA!» Harry lesse l’insegna alla luce della lampada tascabile. «Mangiate quanto volete e dimagrite egualmente!» Il cartellone raffigurava degli uomini in varie posizioni di tortura raffinata: con le braccia tirate da pulegge in posa da crocifissi; frustati dalia cinghia ad anello di un vibratore; piegati in due come feti sotto una piattaforma carica di pesi schiaccianti; e distesi come Prometeo, con il fegato rivolto al cielo, e i manubri stretti nelle mani protese e sofferenti.

Harry lesse il cartellone una seconda volta. Poiché aveva appena finito di salire cinque piani di scale trascinando qualcosa, aveva bisogno di riprendere fiato.

«O Magica Sonda!» intonò il Professore. Ne era incantato, e fingeva di incantarla a sua volta; stava in posa, levando il bastone come una bacchetta magica sopra il televisore. Il razzo arretrò lentamente verso terra e inghiottì e spense le sue fiamme come un mangiatore di fuoco da luna-park.

«O Levitazione!» mormorò. «O Tenebrosa Opera di Monsieur Mesmer!» Come rabdomante, protese la bacchetta magica verso il lavello nell’angolo. Come aleumomante, sparse della limatura di ferro su un magnete.

«L’immagine dell’assassino,» ammonì, «apparirà sulla retina della vittima!»

Ma ora, magicamente, l’immagine sullo schermo si trasformò. Un uomo sorrise, poi versò della birra in un bicchiere, fino a coronarlo di spuma. In un’altra parte del negozio, si stava svegliando un juke-box.

Harry si mise la lampada tascabile sotto al mento per tenerla ferma e l’accese. Daisy lanciò un urlo, e lui rise.

«Sono soltanto io.»

«Dovrebbero chiuderti in gabbia,» gracidò lei.

«Se ritira quello che ha detto,» fece lui, «le confiderò un segreto. È morto qualcuno, e io so chi è.»

«Morto? Chi?»

«Cal. Poveraccio, ha avuto un incidente.» Harry fece un esperimento: coprì la lampada tascabile con le dita, per vedere le ossa in trasparenza. «Una brutta caduta.»

All’improvviso, Brian non fu più solo. I jukebox erano con lui, e suonavano 200 DELLE VOSTRE SELEZIONI PREFERITE. La loro musica lo trascinò in un passato di minuetti e di valzer, di marce patriottiche, mentre gli slittavano davanti in lente giravolte, riempiendo la sala di luci e di suoni.

Chiazze di azzurro cobalto, di fragola, di verde pallido, di ocra turbinavano sulle pareti e sul soffitto. Su uno dei jukebox un pannello ondeggiava celeste, sbiadiva in un lilla orchidea, poi ammiccava rosso scarlatto. Il cromo e l’alluminio e il vetro assumevano le ricche tinte — corallo, turchese, rubino, cedro — e le moltiplicavano fino a che tutta la sala squillava di colori. Brian si sentiva la faccia trasformata in un mosaico di rosa, propora, ambra, sentiva i ritmi della luce palpabile che arpeggiavano sui suoi occhi, mentre le chitarre, gli zufoli e gli ottoni sonanti arpeggiavano sui suoi timpani. Con le labbra beate e multicolori formava le parole cretine delle canzoni, sommerse da quel tumulto. Era meraviglioso, e lui faceva parte di quel prodigio: prese posto nel corteggio mentre i jukebox sfilavano verso la porta. Isole di carminio e d’indaco volavano sul soffitto e sulle pareti davanti a lui, sfrecciando e contraendosi e convergendo verso l’uscita. Lui sentiva che avrebbe seguito la parata dei jukebox praticamente dovunque, via e via fino a quando lui stesso non sarebbe divenuto altro che un suono per la strada.

La luce rossa filtrò attraverso le dita di Harry e scintillò su qualcosa che stava nella polvere.

«Cal è morto! Oh, che peccato,» fece Daisy. «Mi era abbastanza simpatico.»

Harry sorrise nell’oscurità. «Oh, Cal è sempre stato abbastanza simpatico alle donne,» disse. «Ehi, ma dove va?»

«Guarda, sta succedendo qualcosa in quel cinema drive-in,» si voltò a gridare lei. «Forse gli altri sono lì.»

«Mi aspetti,» disse Harry, inginocchiandosi per raccogliere la moneta.

Lentamente un divano-letto si aggobbì, ripiegandosi a organetto come un bruco per misurare il suo progresso lento, ma straordinariamente morbido.

Visitate Parigi! esortava un manifesto sul camion pieno di scarpe rotte. Il manifesto mostrava la torre Eiffel, un venditore di palloncini, un chiosco. Cal, disteso sul letto di scarpe rotte, ebbe tutto il tempo di pensarci sopra. La caduta lo aveva lasciato senza fiato.

U-H — pV (è immagazzinato nel cimitero).

Dal ventre di ROBO il robot uscirono suoni da ventriloquo. Fabbricato con i pezzi di un meccano, faceva lampeggiare le lampadine che fungevano da occhi, agitava le braccia rigide e manifestava in modi simili la propria cordialità. Era ritto nella vetrina buia di un negozio di giocattoli, con i cristalli infranti.

«Ciao, Terrestri,» tuonò rivolto a Daisy. Nel passare, lei sbirciò nell’interno, dove un secondo ROBO si alzava in quel momento, barcollando. Questo aveva solo un braccio, e la testa era formata da un barattolo di latta che portava ancora l’etichetta Pere Harmony.

Daisy e Harry passarono oltre, in fretta. I ROBO non dissero loro addio

«Ci tengono prigionieri a Las Vegas,» batté Cal sulla telescrivente, poi spostò la levetta da TRASMISSIONE a RICEZIONE. La telescrivente tacque per un lungo attimo, riflettendo, sferragliando. Poi rispose: «Ci tengono prigionieri # (%$H) (?e) U¼½pa wE a 77 bEin XXXaX a K ½||* ozzz %3/4%#½ s" aa é$§£ ||EHWKY ffl3/4ffi¼ffl wyG è ↔ ¼W$s"

Sul grande schermo venivano proiettate delle radiografie. Brian Gallopini attendeva, sbadigliando, che incominciasse il film.

Nella forneria, Jack trovò il pane fresco ammucchiato sul piano di carico. Il forno cuoceva il pane automaticamente, ma nessun camion veniva a portarlo via.

Jack aveva avuto fame da un po’, senza rendersene conto. Quella, si disse, era psicologia di massa. Subconscio in azione. Quello che tu hai sempre dentro, veramente (in quel momento, però, era a stomaco vuoto) ma non lo sai. Un pannello segreto si spalanca e viene rivelato l’assassino. Oppure è come una radiografia.

Urlando e agitando le braccia, Cal corse verso le figure d’ombra. Quelle non si voltarono a guardarlo, e lui rallentò il passo.

Passarono sotto un fioco lampione azzurrato: un esercito di pseudouomini in marcia. Molti indossavano bretelle e cinti erniari complicatissimi, che luccicavano e si flettevano nella semioscurità.

Cal vide una cabina telefonica dall’altra parte della strada. Guizzando e schivando, attraversò impacciato la colonna, vi entrò e sollevò il ricevitore. Il telefono era muto. Afonia. Neppure un suono, tranne…

Luccicando e cigolando, l’esercito continuò a zoppicare, ad allontanarsi nel buio.

L’orologio zodiacale sullo schermo segnalava il TEMPO CHE MANCA ALL’INIZIO DEL FILM. Ad ogni minuto che passava, un dodicesimo del quadrante dell’orologio scompariva. Il Professore, che non aveva mai visto un film in vita sua, osservava attento, ma non riusciva a capire che cosa accadeva a tutti i settori che svanivano.

Mentre l’automobile sbandava, rallentava, scendeva sballonzolando sui rulli d’acciaio di una stazione di lavaggio, il Sistema Riproduttivo aveva scoperto una macchina per fare il ghiaccio nella cucina del Silver Horseshoe Casino. Mentre l’automobile veniva fatta a pezzi e lanciata in varie direzioni, il Sistema Riproduttivo scoprì nelle custodie polverose dello studio televisivo un buon numero di vecchi film dell’orrore. Mentre Brian socchiudeva gli occhi davanti ai soli artificiali nel Reparto Animali del grande magazzino, il Sistema Riproduttivo scoprì un «motore» di vetro, esposto per pubblicità in un autosalone, e si accinse a farlo funzionare.

La faccia schiacciata e priva di naso del manichino ricevette la pioggia, mentre i gatti strisciavano sui ripiani superiori. Harry guardava un uomo dipinto su una parete metallica, come se fosse un insetto. Il Sistema Riproduttivo guardava i caratteri stampati dei libri della biblioteca e ne decifrava il significato. Poi li bruciò, gettandoli in una caldaia. Il fuoco della caldaia era basso, soffocato dalle ceneri dell’Enciclopedia Britannica, dell’Enciclopedia Americana e di Mrs. Thrumbold, la bibliotecaria.

I carrelli per la spesa, sospinti da bombolette spray d’insetticida, vagavano per le corsie del supermarket Faresafe, mentre Harry piantava il coltello in un barattolo e rideva. Cal osservava i carrelli, ma Harry, indebolito dai fumi, cadde svenuto. Cal lo trascinò fuori, mentre Jack guardava sbadigliando gli elicotteri giocattolo. Dentro al freezer del Silver Horseshoe Casino, le cellule armate di piccozze lavoravano meticolosamente, foggiando ingranaggi di ghiaccio.

Jack osservava la colossale locomotiva che scendeva lungo le guide inclinate verso un enorme giro della morte, e aspettava di vederla cadere. Daisy guardava una lavatrice che lanciava lingue di fiamma verde. Un bambino, che era entrato strisciando in una casa semisfasciata per dormire, fu svegliato da uno strano rumore.

Cal e Harry guardarono gli esseri simili a zombie che infilavano le monete nelle slot-machines. Daisy osservò l’ascesa delle bocce da bowling, senza riuscire a concentrare lo sguardo e senza comprendere. Il defunto sindaco di Las Vegas salì, quando il suo corpo si riempì di gas, alla superficie della sua piscina. Un’elica gigantesca sollevò una trina di spuma.

Trascinandosi dietro il cavo penzolante e camminando impettito, un flipper messaggero salutò un altro flipper messaggero, quando lo incrociò, mostrandogli un 450 e una Super Special Light.

«6.000.000,» rispose il secondo flipper.

Il Professore contemplò l’ascesa e la discesa della sonda venusiana. Il defunto sindaco di Las Vegas ridiscese sul fondo della sua piscina. Gli ingranaggi di ghiaccio non funzionarono.

Cal salvò Harry da una macchina a raggi X tutta decorata, che innaffiava di radiazioni la strada. Jack si era perduto. Una banca era stata saccheggiata. Sulla morbida cenere grigia del danaro giaceva un guardiano morto, con la fondina vuota. Qualcosa cercava di entrare nella stanza dove stava il bambino.

«O Levitazione!» esclamò Brian. Harry sferrò un pugno a Cal e gli fece perdere i sensi, lo trascinò su per cinque piani fino a un tetto, e lo buttò nel vuoto. Cal non levitò. «L’immagine dell’assassino apparirà sulla retina della vittima!» Quel tetto ricordava a Harry un altro tetto, sul quale lui aveva saltato la corda tanto tempo prima. Mentre scendeva, lesse alla luce della lampada tascabile il cartellone che faceva pubblicità a una palestra.

Visitate Parigi! disse un manifesto a Cal quando questi riprese conoscenza. La caduta sul mucchio di scarpe l’aveva lasciato senza fiato. Al tramonto il motore di vetro si avviò, funzionò per un attimo, ed esplose in schegge lucenti. «Ciao, Terrestre,» disse ROBO. «Ci tengono prigionieri,» batté convulsamente Cal. Jack ricordò di avere fame. Un divano-letto pieghevole lo trasportò nel cinema drive-in. Brian e i juke-box salutarono rumorosamente Cal, Harry, Daisy e Jack. Cal salutò cordialmente Brian, Harry, Daisy e Jack. Jack, felice di essere stato ritrovato dopo essersi perso, salutò tutti con notevole sollievo. Daisy si mostrò sorpresa nel vedere Cal, ma salutò lui, Brian e Jack. Harry salutò Brian e Jack. L’ultimo settore dell’orologio sullo schermo scomparve. Incominciava il «Film», un centone di pellicole educative provenienti dalla scuola (ora trasformata in fabbrica), di trasparenti raffazzonati e di vecchi film dell’orrore:

«Le macchine sanno fare tante cose,» disse una voce deliziosa e deliziata. «Sì, le macchine sanno fare tante cose. La mamma vi cuce i vestitini con una macchina, e li lava con un’altra!»

La donna che cuce viene bruscamente sostituita da un sauro che agita furioso la coda, sferzando i grattacieli. Sotto la sua zampa c’è un’automobile. Scena di un sotterraneo, una ragazza legata a una ruota gigantesca. «Sappiamo che tu non avresti parlato sotto la tortura, Goodfelloe, ma non sopporterai di vedere lei straziata dalla mia ruota!»

Un orrore indicibile lo invade quando i raggi della luna piena fanno spuntare il pelo sulle sue mani. Egli diviene più di un lupo… e meno di un essere umano. Una forma scura si muove tra le nebbie di Rue Morgue, seguendo un’esile fanciulla. Il dottor Frankenstein strappa il lenzuolo che copre il suo esperimento… e il tavolo è vuoto! Papà falcia il prato con una macchina.

«No!» disse il bambino, indietreggiando verso un angolo del materasso sudicio. La stanza era pazzamente inclinata. C’erano dei punti in cui l’intonaco si era staccato, e le canne del graticcio sembravano ossa sbiancate.

Il nero carro funebre con lo stemma del Conte Alucard sferraglia nella notte transilvana. Non c’è il cocchiere. Strani esseri vegetali hanno circondato la piccola fattoria. «Dunque mi credete pazzo? Credete che sia una follia, il desiderio di creare la Vita?» Il bambino si lava i denti con lo spazzolino elettrico ed è felice.

Un pannello si apre, rivelando… «Ma mi dica, dottore, quale è la sua teoria a proposito di questi delitti misteriosi?» «Teoria? Come sarebbe a dire? Perché dovrei avere una teoria, io? Dove vuole arrivare?» Le macchine mungono le mucche.

Il medico si rialza e si toglie gli occhiali. «Strano. Se almeno sapessimo che cosa ha lasciato quei due piccoli segni sulla sua gola.» Le macchine rendono la vita più facile e più lieta.

«No,» disse il bambino. La scatola grigia conosceva bene la sua parte. Avanzò in silenzio, levando alto il braccio con l’ascia.

«L’esercito non può far niente, signore. I mostri si sono impadroniti della città.» Una ragazzina che ride e corre sui pattini a rotelle; un ragazzino consegna i giornali, informando un’elegante bicicletta cromata. «Qui nella giungla, mia cara, vi sono molti misteri su cui coloro che vivono fuori di qui preferiscono non indagare.» «Qui, nella grande Catena di Mesabi, c’è una delle più grandi miniere scoperte nel mondo! Le macchine hanno bisogno di ferro.» Un egittologo solleva un oggetto. «Uhm. Sembra lo Scarabeo della Morte. Ma come diavolo è finito nella stanza del povero Emerson?» «Papà usa le macchine nel suo lavoro…» Tornio, calcolatrice, camion del latte e trapano da dentista si spartiscono lo schermo in parti eguali.

Appare la radiografia di un braccio fratturato. «Questa deve essere la Città Perduta!» esclamò l’esploratore più anziano, scostando le felci per guardare. «…E anche nelle ore di svago.» Carrello da golf, cinepresa, mulinello per canna da pesca, fucile da caccia. «Nessuno può sentirti anche se gridi, mia cara. Siamo soli nel castello. Ah! Ah! Ah! Ah!»

Cal pensò alle due macchine che combattevano. Kenogenesi. Alteravano i propri geni con il passare del tempo. Era inevitabile che di tanto in tanto succedesse una cosa del genere. Una specie di demenza. Si avventavano sui loro simili. Normalmente, pensava, erano incapaci di uccidere di proposito. Era inconcepibile che potessero sempre riconoscersi tra loro, in tutte le mutazioni. No, molto più probabile che rispettassero tutte le forme di vita. Ma…

«Le macchine sono buone con noi, finché noi siamo buoni con loro.» Papà dà l’olio al tosaerba. «Guardami negli occhi, mia cara.» Il mesmerista inturbantato si piega sulla fanciulla pallida. «Negli occhi. Negli occhi.»

«Ci sono macchine che fanno più belle le donne…» Quattro donne sotto i caschi, dal parrucchiere, leggono Popular Mechanics. «Non può essere stato un essere umano a far questo!» «Le macchine…» «Santo cielo! È… una testa umana!»

La scatola avanzò in silenzio, seguendo tutte le mosse del bambino, costringendolo a rincantucciarsi nell’angolo. L’ombra della lama dell’ascia si allungò. Ma all’ultimo secondo si arrestò, misteriosamente sgretolata dalla ruggine.

«No! La luce del sole… non la sopporto! Arrrgghiaaaa!» La Città Perduta viene sepolta da un rapido fiume di lava; la casa schiantata degli Usher scivola nello sciroppo limaccioso della palude; il castello è in fiamme; l’isola misteriosa sprofonda per l’eternità; gli alieni si dissolvono sotto la pioggia. Mentre la testa del mostro affonda fumigando nel calderone d’acido ribollente, nel suo occhio c’è quasi un’espressione di supplica. «Vi sono certi misteri,» intona lo scienziato dai capelli bianchi, «che è meglio lasciare nelle mani della Divinità.» «Grazie a Dio è tutto finito!» singhiozza sua figlia, gettandosi tra le braccia del giovane scienziato e distogliendo lo sguardo dal cadavere dell’invasore alieno. Il giovane scienziato scuote la testa dai capelli tagliati a spazzola, e guarda l’alieno. «Chissà se è finita davvero?» mormora.

Appare la testa del manichino dal naso sfondato, illuminata di rosso, con una distanza enorme tra i due occhi. «Sì, le macchine sanno fare tante cose,» gorgoglia. «Non sei felice di essere una macchina?» Lo schermo si spegne.

L’unico jukebox rimasto di quelli che avevano fatto parte del corteo del professor Gallopini si accende, risplendendo di turbinanti luci colorate. «Ti vedrò nei miei sogni,» promette alle cinque figure in fuga. Dietro di loro, lo schermo gigante ondeggia e crolla.

Capitolo Quattordicesimo

Buono fino all’ultima goccia

«Ecco, nonno, mangia il resto del porridge… Io… io ne ho già mangiato tanto.»

SHELLEY BELLE nella parte della Piccola Nellie, ne Il vecchio negozio di curiosità

Da dieci miglia di altezza, la cittadina di Millford sembrava un nichelino lucente. Da un miglio, sembrava una crostata. Dalla campagna circostante, sembrava un serbatoio di petrolio dal diametro enorme. Finora, era stato impossibile indurre le pattuglie esplorative a scoprire che aspetto aveva dall’interno. Si pensava che gli abitanti fossero morti o fossero scappati da un pezzo.

Nell’elegante mensa, tutta acciaio inossidabile, del Laboratorio di Ricerche Wompler, non c’era assolutamente niente da mangiare. I Wompler, padre e figlio, erano sdraiati su due tavoli paralleli, troppo deboli per muoversi. Grandison girò la faccia sparuta per guardare il figlio che stava leggendo una rivista.

Già il primo giorno avevano mangiato tutto il ketchup e la mostarda… e per la verità, era stato Louie a mangiare quasi tutto. Poi non avevano più trovato niente, salvo le briciole delle Proteine Sooper scovate nelle tasche della giacca di Louie… e anche di quelle, il grassone aveva fatto la parte del leone. Adesso stava divorando con gli occhi la rivista, specialmente le bellissime foto di manicaretti.

Non era giusto, pensò Granny, mentre notava quant’era grasso suo figlio. A Louie non doveva dispiacere troppo di separarsi da una fettina di quel lardo. Oppure, se gli dispiaceva, Grandison poteva attendere che si fosse addormentato. In cucina c’erano dei coltelli bene affilati…

«Ehi, papà! I polli hanno dato ancora qualche uovo?» chiese Louie, levandosi a sedere con uno sbadiglio. E mosse le ampie spalle carnose, stirandosi con finta stanchezza.

I polli — il pollo - era un uccello sparuto appollaiato su un lampadario, fuori dalla loro portata. Di lassù aveva continuato a tentarli per due settimane. Non scendeva mai a portata di mano, non cadeva morto di fame, non deponeva uova… non «dava» uova, come diceva Louie. Per tutto piumaggio, aveva un ciuffo lacero di fili multicolori che gli penzolava dal collo: era senza penne. Ciangottava sommessamente tra sé, giorno e notte, con un ritmo regolare. Dopo un po’, Grandison aveva cominciato ad avere l’impressione di avere un grillo infilato nell’orecchio. Qualche volta avrebbe preferito vedere il pollo andarsene, a costo di rinunciare a mangiarlo, altre volte si convinceva che era un’allucinazione. Ma l’uccello, con aria contenta, lo fissava di continuo con il suo occhio lucente. E ciangottava.

«Non ha fatto l’uovo, figliolo, e temo che non lo farà. Temo che quello sia un gallo.»

«Oh, Papà, come conosci bene le scienze naturali. Cosa c’entra un gallo con le uova?»

Granny sospirò. Alzò gli occhi, aguzzandoli, verso l’uccello, cercando di indovinare il sesso. Di solito, la sua conclusione dipendeva dall’umore. L’uccello scrollò la cresta con aria di sfida. Decisamente, era un gesto da gallo.

Louie stiracchiò le costolette-con-lardo e sbadigliò, mettendo in mostra due etti di lingua. Dopo essersi frugato con diligenza le tasche in cerca di briciole, tirò fuori il suo dinamometro e lo premette.

«La mia forza aumenta man mano che il peso cala,» disse. Dopo aver letto il dinamometro, appoggiò il braccio su una bilancia da carne e lo pesò. «Quando peserò ventidue chili, avrò una presa da quattrocentocinquanta chili! Caspita!»

Grandison immaginò quel braccio amorosamente tolto dalla bilancia, avvolto in carta rosa su cui una matita scarabocchiava il prezzo. Vide le grasse dita bianche che friggevano in una padella.

Il pollo lanciò un grido, poi un secondo.

«Incrocia le dita, figliolo,» mormorò il vecchio, levandosi a sedere senza far rumore. «Forse stasera potremo mangiarci una frittata.»

Il suono diventò un cluck-cluck regolare, e l’uccello barcollò vertiginosamente sul sostegno. Una lucente superficie ovoidale occhieggiò sotto l’elica di coda. «Tienti pronto ad afferrarlo al volo, figliolo!»

«Lo prendo. Papà. Lo prendo, lo prendo, lo…»

Louie si buttò in tuffo mentre l’ovoide cadeva, ma la fame gli aveva rallentato i riflessi. L’uomo gli scivolò tra le dita e piombò sul pavimento.

E rimbalzò.

Al piano di sopra, nel laboratorio, Kurt e Karl Mackintosh eseguivano il loro lavoro muovendosi speditamente, senza scontrarsi mai, parlandosi di rado, sorridendo sempre, come due statue a orologeria. Con la loro collaborazione, il Sistema li aveva dotati di energizzatori idraulici alle braccia e alle gambe che moltiplicavano velocità e forza. Gli energizzatori erano foggiati come pezzi aderenti d’armatura; guanti, braccioli, cosciali, gambali e copripiedi, attivati da pompe elettriche e da pistoni idraulici. I regolatori a tensione, inseriti nei muscoli di Kurt e di Karl, azionavano le pompe. Sebbene non lo dicessero mai, Kurt e Karl si sentivano due superuomini, nelle loro nuove armature. Cigolavano e sferragliavano aggirandosi nel laboratorio, soddisfatti della vita. Amavano tanto lavorare che il Sistema li aveva dotati anche di un impianto automatico di alimentazione per fleboclisi.

In cambio, i due eseguivano nuovi esperimenti su simbiosi animale-macchina. Seguendo gli ordini del dottor Smilax, trasmettevano direttamente tutti i risultati al Sistema, per mezzo di una tastiera che stava in un angolo. Inoltre, gli insegnavano i rudimenti della psicologia del comportamento, dell’economia keynesiana, della teoria dell’informazione, e gli mostravano come doveva semplificare i programmi.

Kurt e Karl si identificavano accostando l’orecchio destro a una piastra metallica. Si sintonizzavano con il Sistema, preparandolo a ricevere le loro informazioni.

Quando lavoravano bene, c’erano delle ricompense.

Quando lavoravano male, c’erano delle punizioni.

La ricompensa era l’accensione di un cartello luminoso con la scritta: «BRAVO!»

La punizione era una lieve ma sgradevole scossa elettrica.

Qualche volta Kurt riceveva più punizioni di Karl.

Qualche volta Kurt riceveva più ricompense di Karl.

Qualche volta erano pari.

Con il passare del tempo, ci furono meno ricompense, e nessuna punizione, per l’uno e per l’altro. Si stavano adattando al sistema come un orologio sincronizzato. Come un orologio, come un orologio, come un orologio sincronizzato.

Ticchettando mentre camminavano, Sferragliando mentre lavoravano, Parlando mentre camminavano Lavorando, lavorando come meccanismi a orologeria.

Louie sedette sul pavimento e pianse sull’uovo di ghisa.

«Finiscila di piagnucolare,» ordinò Grandison. «È inutile piangere sul latte versato. Inutile gettare olio sul fuoco. Dalla padella nella brace. Jack l’Asso non poteva mangiare il grasso…» Si arrestò, sull’orlo del delirio e tacque, mentre guardava le grandi spalle grasse del figlio (spalle da manzo) scosse dal pianto.

«Se avessi un quarto di dollaro,» si lagnò Louie, «potresti almeno prendere una tazza di caffè.»

«Il distributore automatico del caffè! Cristo, perché non ci avevo pensato? Probabilmente è pieno di zucchero e di latte in polvere! Diavolo, figliolo, dobbiamo scassinarlo…»

«Ma, Papà, non ha ancora finito di pagarsi da sé…»

Troppo debole per rispondere, il vecchio si alzò dal tavolo e si avviò verso il lucente distributore automatico del caffè. Cominciò a prenderlo a calci e a pugni, fiaccamente, maledicendo la prudenza che lo aveva indotto a comprare il modello antifurto.

«È inutile, Papà. Ci vuole un quarto di dollaro. L’onestà è…»

Louie s’interruppe, vedendo l’espressione di suo padre. Il vecchio estrasse un quarto di dollaro dalla tasca, lo insinuò con mano tremante nella fenditura e prese furiosamente a pugni i pulsanti della doppia panna e del doppio zucchero. Scese un bicchiere, e la macchina lo riempì per metà di un grigio liquido untuoso. Grandison l’afferrò e bevve, e lo zucchero gli ravvivò il sangue.

Quasi subito la macchina fece scendere un altro bicchiere e, ronzando, lo riempì a metà di liquido grigio e tiepido. Grandison lo prese e l’offrì al figlio, mentre scendeva un terzo bicchiere.

«No, no, grazie, Papà, non devo bere caffè. Fa male alla circolazione, quando si è in allenamento.»

Grandison prelevò un altro bicchiere dalla macchina, che ne fece scendere un altro ancora e cominciò a riempirlo. «Per cosa diavolo ti stai allenando?» chiese.

«Oh, niente di speciale. Solo per tenermi in forma, vedi. Non si sa mai, potrebbe capitare di imbattermi al bar in qualcuno che vuole fare il bullo o qualcosa del genere, vedi.»

Grandison era troppo occupato, ormai, per chiedersi se Louie era davvero pazzo o no. Il torrente di liquido grigio e untuoso ormai usciva ininterrotto dalla macchina, sebbene il carico dei bicchieri di carta si fosse esaurito. Un gruppo di bicchieri restò impigliato sotto al beccuccio, e il liquido spruzzava nella sala. Grandison si allarmò quando si accorse che il getto non dava segno di affievolirsi. Doveva esserci una scorta di quaranta litri o di ottanta, vero? E ormai, aveva riversato sul pavimento di acciaio inossidabile un quantitativo di liquido addirittura superiore.

Quando tutto il pavimento fu bagnato e viscido, Grandison si sentì prendere dalla frenesia. Cominciò a correre da una delle porte d’acciaio inossidabile e di gomma all’altra, provando a smuovere le maniglie e a bussare, sebbene si rendesse conto che era tutto inutile.

Poi, con sua immensa sorpresa, udì un rumore oltre una delle porte. Dei passi!

«Aiuto! Aiuto!» gracchiò, e batté i pugni sull’accaio lucente.

Sentì una chiave stridere, e la porta si spalancò. Il pollo chiocciò e volò via attraverso quel varco, sbattendo le grandi ali membranose di pipistrello, mentre l’elica caudale ruotava lentamente.

Un Marine con la barba ispida stava davanti a lui, con la mano sul calcio dell’automatica, e scrutava il pavimento.

«Cosa succede qui dentro? Chi ha manomesso il distributore automatico del caffè?»

Mormorando un rauco ringraziamento, Grandison tentò di passare dalla porta. Il Marine gli bloccò la strada.

«Calma, amico. Voglio vedere il suo lasciapassare. E voglio anche sapere che cosa stava combinando con quel distributore.»

«Il mio lasciapassare? Ma io sono Grandison Wompler,» fremette il vecchio. «Non mi riconosce? Io sono il vecchio Granny Wompler…»

«Non m’importa se lei è il presidente di questa fottuta società in persona. Non può uscire di qui senza un lasciapassare!»

La porta sbatté, scaraventando Granny indietro di un passo. Perse l’equilibrio sul liquido viscido e cadde. Non valeva neanche la pena di rialzarsi.

Finalmente arrivò Louie e lo aiutò a rimettersi in piedi. «Non badargli, papà,» disse, indicando con il pollice la porta chiusa, contro la quale, adesso, batteva una marea di caffè alta trenta centimetri. «Fai finta che non esista. Ehi, senti questa!» E sventolò la rivista. «Ricetta per il Piccione Louisiana: Marinate una coppia di piccioni grassi nel Tio Pepe tiepido, al quale avrete aggiunto…»

Capitolo Quindicesimo

Da Marrakech alla Luna!

«Décidémment, nous sommes hors du monde.»

RIMBAUD

Poco dopo il tramonto, due uomini stavano in una viuzza buia, nei pressi dello Jardin Abdallah. Parlavano a voce sommessa.

«Io ho fatto tutto il possibile,» disse Marcel Brioche. «Mon général, il resto è nelle mani del bon Dieu.»

«Parli inglese, vache! I muri hanno le orecchie, a Marrakech. Mi dica esattamente quali misure ha preso per garantire la sicurezza di questa missione… in altre parole, della sua persona.»

«Innanzitutto, ho fatto credere a entrambi gli agenti, cioè al russo e all’americano, che ho concluso una specie di accordo con la parte avversa. In questo modo li ho sbilanciati, fino ad ora, mettendoli uno contro l’altro. Se avrò fortuna, saranno così occupati a spiarsi reciprocamente, o a combattersi, che mi lasceranno in pace.»

«E se non avrà fortuna?»

«Ho dato ordine al mio cameriere Antoine di indossare un duplicato della mia tuta spaziale e di nascondersi vistosamente, per così dire. Cioè, lui deve avviarsi furtivamente, per vie secondarie, verso il luogo del lancio, che conosciamo solo noi tre, tirandosi dietro tutti coloro che potrebbero avere intenzione di seguirmi. Se qualcuno vuol farmi la pelle, spero che commetta un errore cruciale.»

«E Antoine è al corrente del rischio?»

«Come me, è un buon francese. E per un buon francese, i rischi non esistono.»

«Capisco…» La voce del generale si spezzò.

«Qualcosa che non va, generale?»

«No, Brioche, niente.» L’uomo più vecchio si portò una mano alla fronte. «Non… non pensavo che questa missione potesse mettere a repentaglio la vita di un uomo.»

«Probabilmente il rischio è minimo, generale. Come ho detto, solo noi tre sappiamo dove avverrà il lancio. Persino i tecnici che hanno montato segretamente l’astronave sono stati ricondotti in Francia sotto scorta armata, e non potranno comunicare con nessuno fino a dopo il decollo. Antoine rappresenta solo un fattore di sicurezza.»

«Sì, forse ha ragione.» Le nocche delle dita del generale sembravano voler spianare le rughe d’ansia sulla sua fronte. «Continui, la prego.»

«Non c’è altro da dire. Mi recherò al luogo del lancio passando per le strade principali, con un normale tassi. Indosserò l’alta uniforme, come se uscissi a cena. Mi incontrerò con Antoine sul luogo del lancio e lì indosserò la tuta spaziale. Il decollo avrà luogo allo scoccare della mezzanotte.»

«E allora bonne chance, mon ami,» disse il generale, con voce stranamente soffocata. «Lo Spirito della Repubblica sia con lei, stanotte!»

L’astronauta si allontanò a grandi passi: le parole del suo superiore gli brillavano in cuore, accanto all’immagine della ragazza suicida. Non vide la figura furtiva di Vetch che usciva da un voltone e piazzava in mano al generale una banconota di grosso taglio.

«Congratulazioni,» disse Vetch, non senza sarcasmo. «Non è stato facile, vero? È bastato che tradisse il suo paese e due dei suoi compatrioti, e adesso potrà pagare i suoi debiti di gioco.» La faccia di Vetch era in ombra e il generale poteva scorgere solo la punta della sua barbetta satanica.

«Demonio! Lurido…»

«Ah ah! Che le prende, generale? Non è contento del suo lavoro di questa notte?»

«Sono un miserabile,» confessò il vecchio, tremando per l’emozione. «Vorrei essere morto, pur di non aver commesso un’azione così spregevole!»

«Perché pensare a una scelta?» chiese tranquillo Vetch. Il suo movimento fu rapido e sciolto. Senza un grido, il generale traditore crollò sul marciapiedi, con un pugnale nel cuore.

«Questo non ti servirà, dopotutto,» disse Vetch, strappando la banconota dalle dita contratte del morto. «Sei stato ricompensato come meritavi.» E rise, rauco.

«Ora, ecco il mio piano,» disse Suggs, mentre aiutava Barthemo Beele a infilarsi l’argentea tuta spaziale. «Quando arrivi all’astronave, tu fingi di essere Brioche. Nel frattempo, io ucciderò il vero Brioche, lasciandoti il tempo per imparare a capirci qualcosa dei comandi. Poi indosserò la sua tuta e ti raggiungerò, se posso. Tutto chiaro?»

Fissò il casco bianco, ma Beele fece segno che voleva parlare, e perciò Suggs tornò a svitare i bulloni.

«È proprio necessario che tu ammazzi Brioche? Mi sembrava un tipo a posto, Suggs.»

«È un mangiaranocchi, Beele, non dimenticarlo. I mangiaranocchi continuano a imbrogliare da anni i turisti americani. Sono tutti viscidi e sporcaccioni e carogne e traditori, e quelli di loro che non sono froci sono comunisti. Quindi muoviti, Beele.» Prima che Beele avesse il tempo di ribattere, Suggs tornò a sbattergli il casco sulla testa.

Quando Vovov indossò la tuta spaziale di stoffa argentata — realizzata in modo da apparire identica a quella del francese — e se ne andò, Vetch caricò la pistola, ne controllò il funzionamento e avvitò il silenziatore.

«Povero Vovov,» sospirò. «Povero stupido. Lui crede di star per fare un viaggio sulla Luna, quando sta semplicemente per fare il grande viaggio. Senza dubbio gli americani lo scambieranno per Brioche e lo uccideranno. Perfetto! Sembra la trama di uno dei loro assurdi film che piacciono tanto al povero Vovov! Naturalmente, se non riescono ad ammazzarlo, dato che gli americani sono così inetti, dovrò occuparmene io. Gli ordini sono ordini.»

Estrasse dal taschino il telegramma in codice e lo rilesse. «’Dare a Vovov trattamento speciale. Sospetti esistenti da tempo ora confermati da tua descrizione di sua ammirazione per Virginia Mayo. Il Comandante.’ Ah, povero Vovov!» disse ancora, sospirando con molta soddisfazione mentre calzava i guanti neri. «Quel povero scimmione non si rende neanche conto della propria decadenza.»

Appena il suo cameriere se ne fu andato, Marcel Brioche ebbe qualche dubbio. «Come faccio ad essere così egoista?» gridò, battendosi la fronte con il palmo della mano. «Antoine ha una fidanzata in Francia. Io non ho nessuno che mi aspetta. Come posso chiedergli di correre un simile rischio? No, non posso! Non posso lasciargli fare una cosa del genere!» Brioche arraffò un fermacarte. «Lo raggiungerò e scambierò di nuovo i vestiti con lui. Non posso chiedergli di indossare la tuta che io dovrei portare con fierezza… di affrontare la pallottola che io sarei lieto di ricevere!» E si precipitò fuori nella notte caliginosa.

La figura in tuta d’argento uscì nel chiarore del lampione per un secondo soltanto, ma bastò. Suggs lanciò il coltello, ringhiando: «Prendi questo, lurido mangiaranocchi!»

La figura cadde in ginocchio, fremette, e cadde lunga distesa. L’agente della CIA accorse, svitò il casco e scrutò i lineamenti immoti.

«Vovov!» esclamò. «Oh, stanno facendo i furbi, dunque. Credevano di farti salire a bordo spacciandoti per Brioche, eh? Be’, Vovov, prenderò io a prestito questa tuta. Tanto, stanotte tu non partirai certo per la Luna.» Suggs indossò tuta e casco più in fretta che poté.

Barthemo Beele aveva quasi raggiunto il luogo del lancio. Aveva avuto cura di percorrere solo i vicoli bui, e fino a quel momento non aveva notato niente di sospetto. Il suo unico errore, pensò, era stato di indossare il casco. Si fermò nella lunga viuzza dietro la moschea, si liberò del casco e si asciugò il sudore. Ancora pochi metri da percorrere. Ancora pochi…

All’improvviso sentì un suono di passi precipitosi. Da ogni direzione si levarono echi ingannevoli, e in quella viuzza tortuosa era impossibile vedere qualcuno fino a quando non ci andavi a sbattere contro. Invano Beele si girò di qua e di là, tendendo l’orecchio nell’oscurità echeggiante.

All’improvviso un braccio gli serrò la gola: si sentì strattonare all’indietro in una presa soffocante. Una voce gli bisbigliò all’orecchio:

«Lo faccio per il tuo bene, Antoine! Tu hai qualcuno che aspetta il tuo ritorno.»

Qualcosa lo colpì dietro l’orecchio e Beele…

Suggs aveva tutte le ragioni, pensò. Brioche è un pessimo attore, sicuro. Chiunque aggredisce volutamente un agente della Cia in questo modo senza essere stato provocato merita che gli si spari come a un cane.

E mentre pensava questo, Beele piombò bocconi in un abisso stellato.

Vetch vide la figura uscire in fondo alla viuzza dietro la moschea, in tuta e con il casco in mano. Benché fosse troppo buio per vederlo in faccia, Vetch capì, poiché era troppo piccolo per essere Vovov, che doveva essere il cameriere.

Dovrei ucciderti, pensò. Ma tu sei un uomo coraggioso che non sa quel che fa. Tu sei solo uno strumento del malvagio imperialismo. Rendo omaggio al tuo valore, o cameriere, continuò, impugnando la pistola per la canna. O figlio del proletariato!

Si avvicinò con una dozzina di rapidi passi felini e sferrò il colpo, mirando dietro l’orecchio. «Compagno lavoratore, perdonami!» gridò Vetch. L’uomo cadde con un gemito. Vetch non seppe trattenersi dal soffermarsi per girarlo, per vedere se gli aveva fatto troppo male.

«Toh, Monsieur Brioche!» esclamò, scrutando con una certa sorpresa la faccia dell’astronauta. «Dunque, si è scambiato di nuovo d’abito con il suo cameriere, eh? Come in una pessima farsa francese… o in un film americano!» Infuriato con se stesso per aver chiamato «compagno lavoratore» quell’aristocratico di Brioche, Vetch si trattenne a stento dallo sparare all’astronauta. Tuttavia si costrinse a calmarsi e indossò la tuta spaziale del francese.

«No, non sono un assassino,» disse. «Lascerò fare ai suoi superiori… quando scopriranno che lei ha fatto perdere alla Francia la sua unica astronave!»

Rimase immobile un momento, scosso da una risata silenziosa al pensiero della sorte che sarebbe toccata a Brioche. L’Isola del Diavolo era ancora una colonia penale? Se lo augurava. Ricordava di averla vista in certi vecchi film americani…

Ma poi udì dei passi e in fondo alla stretta viuzza comparve un’altra figura in tuta spaziale. Vetch sfoderò la pistola e si acquattò nell’ombra.

Mi fai pena, Vovov, pensò, appoggiando la canna della pistola sull’avambraccio. Ma tu sei uno sciocco, e gli sciocchi sono collaboratori pericolosi. Addio, collega!

Lasciò che la figura lo superasse e passasse un po’ oltre, poi premette il grilletto. Il primo colpo silenzioso fece tremare il casco dell’uomo; i due successivi gli distrussero completamente la testa.

Vetch si affrettò a procedere verso il luogo del lancio senza fermarsi a guardare il corpo dell’ultimo proletario che avrebbe avuto occasione di vedere.

Suggs rimase sorpreso nel vedere un’altra figura in attesa accanto alla rampa di lancio segreta, con addosso una tuta spaziale come la sua. Nella sua mente si levarono spettri non evocati, ma egli li scacciò. No, doveva essere Beele. Era strano che il suo giovane aiutante se la fosse cavata così bene. Doveva aver liquidato un paio di russi, lungo il percorso… e a mani nude! Lo spaventava un po’ l’idea di salire a bordo dell’astronave insieme a quell’uomo.

Suggs alzò entrambi i pollici per segnalare che andava tutto bene e la figura rispose al segnale. Era Beele, ovviamente. Suggs scrutò attentamente il razzo, camuffato con tanta astuzia. Dunque era così che ce l’avevano fatta quei furbi mangiaranocchi! Doveva riconoscere che erano in gamba, i bastardi.

Vetch rimase sorpreso nel vedere un’altra figura che arrivava alla rampa di lancio, con addosso una tuta spaziale come la sua. Nella sua mente si levarono spettri non evocati, ma egli li scacciò. No, doveva essere il cameriere, naturalmente. Come se gli leggesse nel pensiero, la figura fece un gaio segnale con i pollici in su, come si conveniva a un esponente della classe lavoratrice, e Vetch rispose con tutto il cuore. Certo, era il cameriere! Il robusto contadino aveva giocato i porci capitalisti che credevano di essere i suoi padroni.

Vetch scrutò attentamente il razzo, camuffato con tanta astuzia. Nelle sue orecchie, il count-down (con la voce cantilenante d’un registratore) era arrivato a quatre-vingt dix-neuf. Vetch si agganciò meticolosamente la cintura di sicurezza.

«Ehi, uomo, questa sì che è roba buona,» disse Ron. Lui e Kevin Mackintosh erano stravaccati sulle sdraio, su di una terrazza buia da cui si contemplava quasi tutta la città. Sorseggiavano tè alla menta per placare la sete data dal kif. «Questa sì che è roba buona,» ripeté.

Kevin annuì, infastidito. Gli sarebbe spiaciuto dover dire a Ron che un vero fumatore di kif non diceva mai che quella era roba buona.

«Ehi,» disse Ron, indicando con un gesto pigro oltre la balaustrata della terrazza. «Ho appena visto due marziani, giù per la strada.»

Marziani, Cristo! pensò Kevin. «E cosa facevano?» chiese, in tono sognante.

«Si sparavano, uomo. Come nella Notte dei Fallopodi, sai? Come nell’Invasione dei dischi volanti. Erano tutti d’argento, con grosse teste bianche. Si sono sparati con delle pistole a raggi che non facevano rumore. Uno ha ammazzato l’altro. E poi lo ha scuoiato.»

«Sì? Come nella Cosa venuta dal Vuoto

«Sicuro, e poi dopo ne ha ammazzato un altro ancora. Il corpo è ancora laggiù.»

Kevin si sporse dal parapetto e guardò giù. C’era un corpo inerte, dalla pelle argentea. Era senza testa. Un brivido di gelo lo invase. Era proprio come in Io, il mostro minorenne dalla spiaggia. Mantenendo un’espressione disinteressata, Kevin tornò a sdraiarsi. In quel momento, la terra cominciò a tremare. A pochi isolati di distanza, si accese una batteria di riflettori. I tremori crebbero d’intensità, facendo tintinnare i bicchieri di tè sui piattini.

«Vedi anche tu quello che vedo io?» gridò Ron. «Lo vedi?»

«Uomo, certo che questa è proprio roba buona,» mormorò Kevin, spalancando gli occhi sbalordito.

Un minareto si innalzò lentamente nell’aria, sorretto da una colonna di fiamma.

Capitolo Sedicesimo

Il cuore segreto del dott. S.

«Sono costretto a compiere su me stesso, nella completa oscurità, operazioni di delicatezza estrema.»

JOHN BERRYMAN

«L’onore non è un abile chirurgo, dunque? No.»

SHAKSPEIR

La simmetria perfetta del corpo di Susie Suggs era in equilibrio sull’orlo del lettino di fintapelle nera, che era l’unico mobile della stanza. Susie non piangeva più, ma un cipiglio insolito turbava la sua fronte… tuttavia anche quel cipiglio era perfettamente simmetrico. A scatti ritmici, gli stivaletti bianchi battevano contro il lato del lettino. Quando si accorse di aver rosicchiato via lo smalto da un’unghia, cominciò a lavorare sull’altra.

Il dottor Smilax non soltanto aveva appreso tutto ciò che poteva apprendere sul conto di Susie Suggs, grazie al contenuto della sua borsetta e dal fascicolo personale del Servizio di Sicurezza intestato a suo padre, ma l’aveva anche studiata piuttosto a lungo attraverso uno spioncino. I suoi movimenti, aveva osservato, erano svelti ma aggraziati; era impulsiva, ma generosa e ansiosa di piacere. Dopo avere indossato un camice bianco ed essersi infilato in tasca uno stetoscopio, il dottor Smilax aprì la porta ed entrò nella stanza.

«Io sono il dottor Smilax, mia cara,» disse senza sorridere, sedendole accanto per auscultarle il polso. «E lei è Miss Susan Suggs di Santa Filomena, California. È esatto? I suoi amici la chiamano Susie?»

«Sì?» La voce di lei era rauca per la paura; cercò di tirar via la mano. Smilax le imprigionò il polso.

«Su, non ho intenzione di farle del male, mia cara. Voglio solo visitarla.» Il suo tono aveva raggiunto l’esatto equilibrio tra la premura e il brusco comando.

«Ma io non voglio farmi visitare. Non ho bisogno di farmi visitare. Non sto male. Sono solo svenuta quanto mi hanno arrestata.»

Smilax le lasciò la mano dopo un momento, e nello stesso tempo un sorriso gli circondò gli occhi di grinze. «Certo, se è così che preferisce. Si sente bene, vero?» Susie annuì. «Magnifico, allora. Avevo quasi sperato che ci fosse qualcosa che io potevo fare…» Abbassò la voce e assunse un’espressione vacua, fissando la parete color oliva.

«Vede,» proseguì dopo un attimo, «non c’è molta soddisfazione, ad essere un medico militare. Assisto alle morti, ecco tutto. Io… io certe volte non so come ce la faccio a tirare avanti, quando penso a quei poveri uomini che salvo… solo per mandarli fuori a farsi uccidere!»

«È spaventoso,» mormorò lei. Smilax si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro.

«Sì: l’Esercito non si considera come un’organizzazione umana, bensì come una macchina. Gli uomini non sono umani, ma solo rotelline… cellule di un grande organismo.»

Senza sapere perché, Susie arrossì a quella parola.

«Darei qualunque cosa per non essere costretto a farlo… ma deve pur farlo qualcuno!» esclamò lui, appassionatamente. Tornò a sedersi di peso e nascose il volto tra le lunghe, sottili mani d’artista. «Deve farlo qualcuno!»

«Oh, come mi dispiace,» disse Susie, posandogli sul braccio una mano esitante. Lui finse di non accorgersene. «Non sapevo…»

«No, è naturale. Per lei, per tutti coloro che si trovano al di fuori di tutto questo, noi siamo mostri… macchine che possono continuare a lavorare all’infinito, compiendo miracoli a comando, senza neppure una parola di ringraziamento, senza un pensiero gentile, senza uno solo di quei piccoli tocchi d’umanità che rendono la vita degna d’essere vissuta. Ma noi non siamo mostri! Le sembro un mostro? Davvero?» Smilax sapeva benissimo che, in quel momento, lui aveva l’aria di un orfanello dai capelli grigi.

«Oh, no!» gli assicurò lei, prendendogli la mano. «Lei non mi fa per nulla paura, dottor Smilax.»

«Grazie, mia cara. Questo è il primo contatto ricco di calore umano che mi sia capitato in tanti anni. Anch’io sono umano… Dio, perché non lo capiscono? Posso sembrare sovrumano… posso sembrare un Dio in sala operatoria, perché debbo esserlo, e tuttavia ho…»

«Un cuore d’argilla?» chiese Susie seria seria, e per poco non svenne su quella metafora. Soffocando una risata diabolica che gli stava salendo alle labbra, il dottore annuì.

«Un buon modo per esprimerlo, mia cara. L’altro giorno ho eseguito un intervento chirurgico a cuore aperto su di una bambina. Quando ha ripreso i sensi, mi ha ringraziato, dicendomi: ‘Sono contenta che lei mi abbia guarito così bene il cuore, dottore. Ma perché non può guarire anche il suo?’ Sì, quella bambina ha visto dentro di me, come in una radiografia. Le dispiace, a proposito…» Mentre parlava, Smilax condusse Susie nella stanza accanto e la spinse sul tavolo delle radiografie. «Sì, infatti, quella bambina…» Infilò una lastra nel cassetto sotto la ragazza e mise in posizione la testa della macchina. «Quella bambina innocente mi ha detto… Respiri profondamente, adesso. Trattenga il fiato! Benissimo… Mi ha detto ‘Medico, cura te stesso!’ Ah, vorrei poter accogliere quell’ottimo consiglio. Ma le cicatrici sono troppo profonde nel mio… cuore d’argilla!» E di nuovo represse una sghignazzata che gli riempì gli occhi di lacrime.

«È stato per una donna, dottore?» chiese Susie, mentre lui la riconduceva nell’altra stanza. Senza rispondere, il dottore le palpò per un attimo i reni tondi e sodi.

«Non ‘una donna’,» corresse. «Diciamo la Donna! L’incarnazione della femminilità! La più dolce, la più perfetta, la più simmet… più simpatica creatura del mondo! Ed era mia! Ah, molto meglio se non l’avessi mai conosciuta, piuttosto di vedermela rapire dalle forze tenebrose della Morte!»

Gli occhi di Susie si riempirono di lacrime di commozione. «La Morte?» bisbigliò.

«Sì, ella morì. Per ironia, ad opera di un uomo conosciuto come ‘un grande chirurgo’. Oh, quanto fui folle a credere in lui! Sebbene a quel tempo io fossi soltanto uno studente di medicina, anch’io sarei stato capace di compiere l’operazione meglio di lui. ‘Grande chirurgo’… No! Grande macellaio!

«Ah, è tutto finito, finito!» aggiunse, tastandole freneticamente i reni. «Da allora, non sono stato altro che questo… un aggiustatore dei macchinari del governo.» Girò il capo e fissò lo sguardo sulla punta ben lucidata di una sua scarpa.

«Oh, come vorrei aiutarla,» disse lei, facendosi più vicina e prendendogli le mani.

Smilax strinse le mani di lei. «Lo so,» disse. «E gliene sono grato, ma per me è troppo tardi. Troppo tardi. Sono abbastanza vecchio per essere, che so, suo padre. Abbastanza vecchio… per essere un saggio, e tuttavia sono uno sciocco.» Il suo sorriso era carico di sofferenza.

«Oh, non è poi tanto vecchio. Ci sono tanti uomini più vecchi di lei,» fece Susie, accalorandosi. «Senta, lo so che non potrò mai prendere il posto della sua amata nel suo cuore… il cuore d’argilla… sarebbe impossibile, per amor del cielo… Ma vorrei aiutarla, come posso. La prego, mi dica se posso fare qualcosa… qualunque cosa.»

«Bene. Glielo dirò, ma so già che non vorrà accettare.»

«Provi,» disse Susie, coraggiosamente.

«Benissimo. La donna che amavo era… mi dica, ha mai subito un intervento chirurgico, prima d’ora?»

«Cielo, no! Ma se si tratta di passarle i ferri e di asciugarle la fronte e di darle un sostegno morale, posso imparare. Mi impegnerei, davvero.»

«Ecco, no, io stavo pensando… Susie, era di averla come… posso dirlo?… come paziente.»

«Vuol dire…?»

«Sì, lo so che le chiedo molto. Ma ardo dal desiderio di conoscere tutto di lei, i reni, il fiele, la milza, sì, ogni segreto del suo cuore. Cosa mi risponde, amore mio?»

Per tutta risposta, Susie cadde priva di sensi sul lettino, in perfetta simmetria.

Aurora si sentiva ipnotizzata. In quelle ultime quindici ore non aveva quasi visto altro che le strisce bianche tratteggiate della mezzeria sull’interminabile striscia d’asfalto nero. Un paio di volte s’era fermata a dormicchiare, ma poi qualcosa, un senso d’emergenza interiore, continuava a svegliarla, la spingeva a proseguire.

Ora, quando il riflesso del sole mattutino sul cofano gli batté in faccia, Grawk si svegliò. Gli occhi cisposi nella faccia rossa e porosa guardarono Aurora con una certa ostilità. Grattandosi la barba ispida, Grawk sbadigliò più ampiamente di un diagramma odontologico, mettendo in mostra tutti i tozzi denti gialli, poi li serrò su di un sigaro nuovo.

«Dovremmo quasi esserci, eh, pupa? Non può far correre un po’ di più questo vecchio macinino?»

«Avrebbe potuto darmi il cambio al volante,» ribatté Aurora. «Avremmo fatto prima.»

«Oh, ma lei se la cava benissimo,» disse Grawk allegramente, grattandosi le cispe gialle dagli occhi con il dorso d’una mano pelosa. «ma veda se le riesce di correre un po’ di più.»

Aurora si complimentò con se stessa perché non aveva perso la calma. Riuscì a non parlargli (poiché parlare con Grawk voleva inevitabilmente dire scambiarsi insulti) fino a quando arrivarono al cancello esterno del NORAD. Il posto di guardia sembrava deserto.

«Crede che sia prudente?» chiese allora, rallentando. «Se le sentinelle hanno abbandonato il loro posto, ci sarà pure una ragione.»

«Lei continui a guidare,» borbottò Grawk, calcandosi il berretto sulle orecchie. «A pensare provvedo io. Dobbiamo superare ancora due posti di blocco prima di arrivare agli ascensori.»

«Conosce così bene questo posto?»

«Come conosco le donne.» Lui la guardò maliziosamente attraverso la nuvola grigia di fumo del sigaro.

Anche il secondo cancello era abbandonato, e l’ansia di Aurora aumentò. Sembrava che una catastrofe impensabile avesse spazzato via tutto il personale. Grawk, comunque, era imperturbabile, e nonostante tutti i suoi difetti era uno stratega. Senza dubbio, era in grado di valutare meglio di lei quella situazione tipicamente militare. Ma era davvero così?

Il terzo posto di blocco era all’ingresso di un tunnel rivestito d’acciaio. Due porte di ferro si chiusero dietro la macchina non appena fu entrata, e un’altra si chiuse un poco più avanti. Occhi ed orecchi elettronici puntarono sull’automobile, e Grawk, con un gesto divertito, indicò le canne delle mitragliatrici di grosso calibro che spuntavano dalle pareti laterali. «Nel caso che abbiamo in mente di combinare pasticci.»

Un altoparlante crepitò, poi parlò la voce di una centralinista telefonica. «Spegnete il motore e scendete dal veicolo, prego,» disse. «Mettetevi sulla piattaforma rossa.»

Obbedirono. Grawk sembrava rallegrarsi di quell’attenzione, sia pure da parte di un meccanismo di sicurezza. Aurora mosse con cautela le membra irrigidite. La piattaforma rossa su cui erano saliti restò immobile, mentre la sezione gialla e nera su cui stava la macchina veniva abbassata da macchinari rombanti e spariva. Poco dopo la sezione risalì, vuota.

«Prego, nomi e cognomi e motivo della vostra presenza al NORAD,» invitò la voce della centralinista. Non era una voce normale, ma quella calda e accattivante che induce a comprare telefoni supplementari colorati.

«Sono il generale Grawk delle Forze Aeree degli Stati Uniti, Jupiter Grawk, e ho un affare importante da sbrigare con Washington, quindi voglio andare nel mio ufficio, subito.»

«Sono la dottoressa Aurora Candlewood, consulente psicologico del Progetto 32. Sono qui per motivi riservati.»

La macchina ronzò e crepitò per un minuto. «Dolente, signore, ma nei nostri schedari non c’è nessun generale delle Forze Aeree che si chiami Jupiter Grawk. Lei è un dipendente del NORAD?»

«Diavolo, sono io che comando la maledetta baracca!» esplose Grawk. «Sono il comandante, qui, e devo andare nel mio ufficio!»

«Nei nostri schedari non figura nessun generale Jupiter Grawk,» disse soave la voce. «Ho ricevuto esattamente la sua identificazione? In tal caso, prego, appoggi le dita sulla lastra di vetro alla sua sinistra, e le tenga ferme finché la luce si spegne. Grazie.»

«Credo proprio che ti si siano incrociati tutti i fili, pupa!» tempestò Grawk. «Sono io il capo di questa baracca, e tu non sei altro che una macchina!»

«Ho ricevuto esattamente la sua identificazione? In tal caso, prego, appoggi le dita sulla lastra di vetro alla sua sinistra e le tenga ferme finché la luce si spegne. Grazie.»

Grawk marciò a grandi passi fino alla lastra e vi appoggiò le dita. Un raggio di luce si mosse sul vetro.

L’altoparlante ronzava e crepitava. Poi ne uscì una voce nuova, la voce rauca e rabbiosa di un sergente. «Dunque, Grawk, che scherzo sta cercando di combinare?» ringhiò. «Sa maledettamente bene che è stato degradato ad aviere di terza classe. È stato automatico, quando ha fallito l’Operazione Sedia Elettrica. Perché si sta spacciando per un ufficiale, eh?»

Il sigaro, di colpo, s’inclinò verso il basso. «Be’, certo che lo sapevo, ma pensavo… di solito occorrono parecchie settimane per una retrocessione e…»

«E lei ha pensato di insinuarsi qui dentro, fregare un po’ di schedari Top Secret e filarsela al Messico, eh? Bene, Grawk, si sieda lì con la sua amichetta e aspetti, mentre i pezzi grossi decidono cosa fare di voi.»

«Io vorrei andarmene,» disse Aurora, con voce sommessa e spaventata.

«Stia lì buona, Miss!» ruggì il sergente invisibile. «Voleva entrare ed entrerà… forse! Ma stia certa che non passerà finché i pezzi grossi non daranno il benestare. Sedetevi!»

Un paio di sedili pieghevoli uscì dalla parete. Aurora e Grawk sedettero, impacciati. Non c’era da guardare che l’altoparlante silenzioso e le truci canne retrattili delle mitragliatrici.

Il dottor Toto Smilax era troppo nervoso per attendere che Susie riprendesse i sensi. Teso come uno sposino novello, si ritirò, lasciandole una camicia da notte da ospedale e un biglietto: «Mia cara, se decide come io spero, indossi questa camiciola e suoni il campanello per chiamarmi. Se no, è libera di andarsene. La porta non è chiusa a chiave.»

Poi la chiuse dentro a chiave e andò nel suo studio ad attendere. Lì, come in tutti i suoi uffici, Smilax aveva installato un’elegante poltrona da dentista, perfettamente equipaggiata. Il suo passatempo preferito consisteva nell’otturarsi e nell’estrarsi i denti.

Quel giorno, però, si trapanò un molare sbadatamente per qualche istante e poi, con uno scatto di petulanza, spezzò il trapano. Se lei avesse acconsentito! Avrebbe potuto averla in ogni caso: ma quanto è più dolce il premio che si concede liberamente! Sviluppò la radiografia e l’esaminò. A molti chirurghi non capitava di mettere i ferri su una cosa del genere in tutta la loro vita, pensò. E la sua impazienza crebbe.

Poi suonò il campanello.

Mentre la sistemava sul tavolo operatorio, il dottor Smilax si accorse che le guance della ragazza erano bagnate di lacrime.

«Che c’è, mia cara? Ha paura che sia una cosa… sbagliata, quella che fa?»

«Non… non so.» Susie sospirò, poi sorrise tra le lacrime. «Ho un po’ di paura. Vede…» Arrossì, graziosamente, e si sarebbe coperta la faccia con le mani, se le avesse avute libere. «Vede, non ho mai subito un intervento chirurgico. È la prima volta.»

«Capisco,» disse lui, allacciando le cinghie di cuoio.

«Mi prometta,» disse Susie, «mi prometta che sarà delicato.»

Smilax si chinò per baciarle la fronte liscia da bambina quando in distanza suonò un allarme. «Debbo lasciarla per un attimo,» bisbigliò, roco. «Ma tornerò subito.»

«Potete procedere,» cantilenò l’altoparlante con una terza voce, neutra e burocratica. «Prendete gli ascensori quattro e cinque, prego.»

La paratia davanti a loro si spalancò, e Grawk ed Aurora si avviarono verso la fila degli ascensori.

«Perché dobbiamo usare due ascensori?» chiese lei.

La spiegazione di Grawk fu autoritaria come al solito, ma i suoi modi erano un po’ più blandi. «Sono ascensori monoposto,» disse. «Possono portare centoventi chili al massimo. Serve a evitare che qualcuno porti dentro una bomba… o si porti a casa un computer. Lei prenda il quattro, io il cinque.»

Non senza qualche presentimento spiacevole, Aurora entrò nella minuscola cabina e chiuse la porta. La luce in alto si accese, e la gabbia piombò giù per un pozzo argenteo. Non c’era nient’altro, e dopo un po’ lei non ebbe più la sensazione del movimento; sembrava che fosse il muro dietro le sbarre a salire, mentre lei restava immobile.

Cominciò la decelerazione, e all’improvviso la luce si spense. La gabbia si fermò. Quando Aurora cercò di aprire la porta la trovò ancora bloccata, e scoprì anche qualcosa d’altro.

La sua mano passò tra le sbarre e non incontrò la parete d’acciaio, niente di niente. A quanto pareva, era sospesa nel vuoto.

«Ehi!» gridò la voce di Grawk, così vicina che la fece sussultare. «Ehi, tiratemi fuori di qui!»

«Butti giù la pistola, Grawk!» ordinò una voce che echeggiava da tutte le direzioni. Qualcosa tintinnò sulla pietra o sul cemento, più in basso.

Si illuminò una lunga vetrata color ambra, rivelando quella che sembrava la cabina di regia d’uno studio televisivo. Dentro non c’era nessuno. Nello stesso tempo, due potenti riflettori inquadrarono le due gabbie, illuminando ogni particolare all’interno.

«Lei non è il generale Grawk,» proseguì la voce con pesante sarcasmo. «Lei è l’aviere di terza classe Grawk, e si sta spacciando per un ufficiale. Butti giù tutti i segni distintivi del grado, e in fretta.»

Grawk obbedì: quel procedimento trasformò il brutto omiciattolo in un orrendo gnomo lacrimoso. «Non posso tenere il berretto come ricordo?» gemette. «Mi piace tanto portarlo. Lo porto sempre, anche quando vado a…»

«Lo butti giù! È un reato per un aviere anche pensare di portare un berretto con le fronde d’argento sulla visiera.»

Sospirando, Grawk lanciò il berretto nelle tenebre sottostanti. Era così basso che Aurora, nella sua gabbia parallela lontana sei metri, poteva vedere chiaramente la sua calvizie, rossa di vergogna. «C’è il Capo, qui?» chiese, stordito. «Credevo che adesso fosse a Washington.»

«Il generale Ickers è effettivamente a Washington, ma lei è sottoposto all’autorità del dottor Smilax.»

«Smilax!»

«Ho sentito fare il mio nome,» disse il dottore, entrando in quel momento nella cabina. «A parlare del diavolo, eh? In effetti, aviere Grawk, adesso lei fa parte del personale alle mie dipendenze… come soggetto sperimentale.»

«Ma come…»

«L’ho vinto, diciamo, al generale Ickers. Cioè, dopo che abbiamo finito una seduta di gioco dell’oca durata tutta notte, lui mi doveva trentacinque cents. Be’, per non cambiare un dollaro… Capisce?»

«E io, dottore?» chiese acida Aurora. «Ha comprato anche me?»

«Ah, no, dottoressa Candlewood. Mi dispiace veramente di doverla ricevere così, ma lei è arrivata in compagnia poco raccomandabile. Mi permetta di farla scendere.» Smilax premette un pulsante e la gabbia calò lentamente verso il cemento. Appena toccò il pavimento, la porta si aprì. Smilax, con un gesto, l’invitò ad entrare nella cabina di controllo e le aprì la porta.

La stanza era piena di apparecchi elettronici che Aurora non riconobbe. E lì c’era l’uomo di mezza età, dall’aria mite, che diceva di chiamarsi Smilax, e che sembrava quasi un alchimista tra i suoi strumenti magici.

«Posso chiederle cosa ci fa, qui?» chiese Aurora, impettita. «Mi aspettavo di trovarla a Millford, dottore. Il lavoro sul Progetto 32 viene svolto anche qui?»

«Sì, possiamo dire così. Ma mi permetta di rivolgerle la stessa domanda. Come mai è venuta al NORAD?»

«È stato un incontro casuale con lui,» disse Aurora, indicando, oltre la vetrata, la gabbia di Grawk. «Avevo perso la strada, e lui mi ha convinta che doveva assolutamente raggiungere il NORAD. È proprio necessario continuare a tenerlo ingabbiato lassù?»

«Per il momento. Be’, è una fortuna che lei sia comparsa, in ogni caso. Sì, una fortuna. C’è molto lavoro per una persona delle sue capacità… molto lavoro. Ha un’idea di quello che è successo finora? Cosa ne sa del progetto?»

«Ho un’idea dell’attività del Sistema Riproduttivo da un po’ di tempo, da quando ho ricevuto il rapporto. Il mio compito consiste nell’educare il Sistema e nello studiare i suoi processi di apprendimento.

«Questo è quello che so. Ma posso intuire molto del resto. Il Sistema è sfuggito di mano; è troppo astuto e si moltiplica troppo rapidamente perché i militari siano in grado di tenerlo a bada. Grawk ha detto che ha cercato di ‘fulminarlo’ o qualcosa di simile, ma evidentemente non è servito a nulla. Cos’è accaduto, con esattezza? Il Sistema è mutato più rapidamente del previsto? E tra l’altro, che ne è stato del personale del NORAD?»

«Caspita, è intelligente per essere così giovane… e così bella,» fece Smilax, raggiante. Aurora vide due minuscole immagini speculari di se stessa nelle lenti scontornate degli occhiali di lui.

«Sono abbastanza vecchia per irritarmi delle adulazioni senza senso, dottore,» disse freddamente. «Vuole rispondere alle mie domande o no?»

Lui continuò a guardarla raggiante, mentre diceva: «Tanto vale che glielo dica, tanto lo indovinerebbe lo stesso. Il Sistema Riproduttivo non solo non è stato danneggiato dall’attacco di Grawk, ma se ne è avvantaggiato. Ora ha incorporato immense riserve di energia, incluse fonti come la Diga Hoover.

«Inoltre, il Sistema Riproduttivo ha raggiunto il NORAD e se ne è impadronito: baracca, burattini, e sistema missilistico di rappresaglia.»

Ad Aurora sfuggì un gemito. «Allora le sorti della razza umana sono in balia del Sistema Riproduttivo! Immagino che lei sia qui per cercare di fermarlo.»

«Oh, no,» disse Smilax, con un sorriso ancora più ampio. «Vede, il Sistema Riproduttivo è, ed è sempre stato, sotto il mio controllo.»

Capitolo Diciassettesimo

Notizie da tutto il mondo

«Ad ogni giorno basta il suo giornale.»

JAMES JOYCE

(Dalla rivista Newstime):

STATI UNITI

Che cosa rode Las Vegas?

«Qualcosa non va.» È cominciato tutto quando «qualcosa non è andato» nel segretissimo Progetto 32 a Millford, Utah, l’operazione che ufficialmente doveva produrre un nuovo tipo di computer. Poi il Nevada ha contato le sue città e s’è accorto che gliene mancavano due. Quando si è uno stato piccolo come il Nevada (il 47°, con una popolazione stimata a 454.000 abitanti), si può risentire anche della perdita di una cittadina piccola come Altoona (1.158 abitanti). Ma è stata l’altra città, quella di cui si è sentita dolorosamente la mancanza: Las Vegas.

Definita «la capitale del divertimento di Hollywood», questa Mecca degli appassionati del gioco d’azzardo era considerata dai riformatori matura per diventare un paradiso perduto… ma non in una notte. Quindi, prima di poter fare una puntata…

SCIENZA

Il Grande Oscuramento

Evitabile e costoso. Centri lontanissimi tra loro come Keewatin, Minnesota, e Keen Camp, California, sono stati lasciati al buio dal più colossale guasto della rete di distribuzione dell’energia elettrica mai registrato dalla storia. Sono rimasti senza luce 18 stati, per un totale di 145.013 comunità, e almeno un milione e seicentomila chilometri di cavi sono rimasti senza corrente. Ma quali le cause?

Bella idea. La colpa è stata ufficialmente scaricata dalle aziende elettriche al Pentagono, che l’ha scaricata sulle Forze Aeree, che hanno scelto per capro espiatorio il generale Jupiter Grawk, anni 47, scapolo (vedere copertina). Responsabile delle operazioni contro il mostro urbivoro del Progetto 32, Grawk ha avuto la bella idea…

LA PRESIDENZA

Siamo indifesi?

Troppo tardi per le bombe. L’attuale stillicidio di dimissioni dal Governo non accenna a smettere. Questa settimana, si sono dimessi il segretario di Stato e quello della Difesa, quest’ultimo in seguito alle proteste…

NAZIONI UNITE

L’enigma del missile che scotta

Pirati dello spazio. Mentre il resto del mondo si preoccupa della possibilità di una guerra a seguito dell’incidente del NORAD (vedasi: Vita d’oggi), la Francia sta cercando un razzo lunare, perso, rubato o smarrito, chiamato Le Bateau Ivre (Il Battello Sbronzo).

Qualcuno, e la Francia giura che era un americano o un russo, ha fregato l’astronauta Marcel Brioche (pronuncia: BREE-OHsh) e se l’è filata con l’astronave nel più perfetto stile piratesco. Se il volo avrà successo, dichiara l’ambasciatore francese all’ONU, la Francia rivendicherà ufficialmente i suoi diritti sulla Luna, quale che sia la nazionalità del pilota.

Dopo la pioggia, champagne. A Parigi, Marcel Brioche ha parlato alle folle sotto una pioggia battente, poi ha sfilato per gli Champs Elysées, acclamato quale vittima dell’aggressione americana (o russa). Con la testa fasciata, l’eroe ferito ha poi tenuto un discorso ad una assemblea di fabbricanti d’armi tedeschi nel corso di una festa in cui lo champagne è corso a fiumi…

Barthemo Beele, che portava ancora la visiera e l’impermeabile fradicio, sedette alla minuscola scrivania nella sua stanza in un albergo parigino per decifrare un pneumatique arrivato dall’ambasciata. Aveva i brividi, ma non aveva tempo di mettersi abiti asciutti. Poteva essere la risposta alla sua richiesta telefonica di danaro. Il segretario aveva riso, un po’ istericamente: «Danaro? Non riusciremo a rimettere in ordine la nostra contabilità almeno per un mese, qui. Qualcuno ci ha spedito una bomba o non so che altro, che ci ha mangiato una cassaforte e ha dato fuoco all’ufficio postale. Voi agenti siete considerati così pieni di risorse, Beele. Sono sicuro che in qualche modo si arrangerà.»

Arrangiarsi? Quasi tutto ciò che vedeva, udiva, toccava, fiutava o pensava gli ricordava che si stava arrangiando malissimo. Nelle sue tasche tintinnava il danaro… i suoi ultimi sette franchi. La mattina ce n’erano quindici, ma cinque li aveva spesi per una scatola di spaghetti e tre per la rivista Newstime che aveva lasciato nel Metro senza averla letta. C’era lo spettacolo delle sue povere unghie rosicchiate e della sua faccia sparuta nello specchio dell’armadio marrone scuro, nella sua camera pure marrone scuro. Cosa si sentiva? Il callo al piede, il bitorzolo sul collo. Cosa odorava? Non c’erano odori. Dopo essere stato per tre ore sotto la pioggia ad ascoltare un discorso in una lingua che non capiva, Beele si stava ritrovando con il raffreddore. Infine c’era il brontolio bruciante della diarrea nelle sue budella e il sospetto che anche la sua mente non funzionasse più tanto bene. Non aveva visto tra la folla una donna precisa identica a Mary? Precisa in tutti i particolari, comprese le pastiglie per la tosse?

Il pneumatique diceva: «BRIOCHE CI CAUSA PROBLEMI DI PRESTIGIO. OCCUPATI DI LUI. QUALUNQUE CIFRA RAGIONEVOLE FINO A UN MILIONE DI NUOVI FRANCHI. IN ALTERNATIVA USA TRATTAMENTO SPECIALE. CAPO. P.S. TUA RICHIESTA CINQUANTA NUOVI FRANCHI PER SPESE RESPINTA.»

Beele dimenticò persino il disappunto per il P.S., quando si rese conto, con un guizzo di felicità, del pieno significato di quelle due parole magiche: trattamento speciale. Era un eufemismo usato per la prima volta per indicare la punizione dei lavoratori forzati nella direttiva di Himmler del 1942:

In caso di gravi infrazioni disciplinari, compreso il rifiuto di lavorare o la neghittosità sul lavoro, si richiede il trattamento speciale. Il trattamento speciale è l’impiccagione. Avrà luogo a distanza dal campo, ma un certo numero di prigionieri dovrà assistere al trattamento speciale.

Naturalmente, il significato si era ampliato fino a includere tutte le uccisioni. E quanti tipi c’erano! Gli sembrava quasi di vedere Suggs che li elencava, godendoseli quasi come una vecchia si gode l’elenco dei suoi malanni.

«Quando ammazzo qualcuno,» soleva dire Suggs, «mi piace fare in modo che soffra il più possibile. Non è che sono un sadico o qualcosa del genere, capisci? È solo che… so che ti sembrerò un po’ duro, ma mi dispiace permettere che un tale se ne vada da questo mondo pensando che io sono un molle. Capisci?»

Barthemo si rattristò un poco al pensiero di Suggs, che in quel momento era chissà dove, nello spazio. Come si sarebbe divertito con quel trattamento speciale! Buon vecchio Suggs! Mentre Beele si piegava sul messaggio, il suo triste naso sottile lasciò cadere una goccia d’acqua sulla carta, come se versasse una libazione alla memoria di Suggs prima di riempire la gola di Beele di un liquido caldo e salato.

«Tocca a te muovere,» disse Vetch, sbadigliando. «La regina è in pericolo.»

«Lo vedo, lo vedo!» scattò Suggs, scostando con una pacca il dito puntato dell’altro. Era la sola cosa che poteva fare per trattenersi dal tirar fuori la pistola e…

Ma adesso c’erano troppe ragioni per non uccidere quel compagno di viaggio. C’era stato un momento terribile, all’inizio, quando si erano tolti i caschi e si erano scoperti a vicenda, come uno scorpione e una scolopendra nello stesso nido. Entrambi avevano afferrato le pistole, ma, con quel perfetto tempismo che deriva dalla professione di spia, entrambi erano riusciti a trattenersi (a fatica) dallo sparare.

Nessuno dei due ci teneva a scoprire cosa poteva fare un proiettile all’involucro che conteneva la loro atmosfera, o agli strumenti di cui potevano solo intuire nome e funzione. E poi, a che serviva sparare a meno di due passi, dato che non ci sarebbero stati superstiti?

Avevano concluso una tregua imbarazzata, poi un autentico accordo per aiutarsi reciprocamente a cavarsela. Per due giorni, mentre continuavano a chiedere ordini via radio, non avevano dormito.

Poi venne una fase anche peggiore. Suggs aveva ricevuto gli ordini in codice: IMPERATIVO CHE TU NON SIA UNICO PASSEGGERO VIVO QUANDO ASTRONAVE RITORNA. A TUTTI I COSTI TIENI IN VITA ALTRO PASSEGGERO A RISCHIO DI TUA STESSA VITA. SITUAZIONE INTERNAZ. DELICATA, POTREBBE SCATENARE GUERRA SE RITORNI SOLO.

Suggs non dubitava che anche Vetch avesse ricevuto ordini identici. Quel che era successo era chiaro: la Francia aveva dichiarato guerra al colpevole, chiunque fosse stato, ma per ora non c’era ancora modo di provare chi c’era a bordo. Se tanto la Russia quanto gli Stati Uniti erano colpevoli del furto, la dichiarazione di guerra della Francia non avrebbe avuto senso. Ma se uno dei due era implicato da solo, l’altro avrebbe dovuto precipitarsi ad aiutare la Francia… e se un paese con supermissili come quello attaccava gli Stati Uniti, la faccenda sarebbe finita in fretta.

Il russo aveva già tentato una volta di suicidarsi, quando credeva che Suggs dormisse. I due uomini dovettero ricominciare a vegliare, ma adesso per ragioni diverse. Ognuno dei due restava sveglio per il timore che, se si fosse assopito, al risveglio si sarebbe potuto trovare solo a bordo. Due uomini, che i governi delle due nazioni più potenti della Terra avevano addestrato a uccidere; due uomini che amavano uccidere più di qualunque altra cosa al mondo, adesso subivano le pene dell’inferno per tenersi reciprocamente in vita.

Squillò un cicalino, annunciando la fine di un altro turno di otto ore. Qualunque altro paio di astronauti avrebbe fatto turni alternati, avrebbe vissuto in una specie d’equilibrio, senza paura e senza tensione. Ma quei due piegarono la scacchiera e spiegarono il tabellone del Monopoli. Non dormivano da cinque giorni, e si muovevano torpidi, a fatica.

In pochi minuti dimenticarono a chi toccava tirare i dadi, e in toni sommessi, lagnosi, apatici, cominciarono a discutere.

Capitolo Diciottesimo

Cupidigia

«È questo il giorno in cui, a tutti i miei amici, annuncerò le felici parole: ‘Siate ricchi!’»

BEN JONSON

Il fumo si levava in spire untuose, all’orizzonte, da quello che un tempo era stato un cimitero d’automobili. Il Sistema Riproduttivo stava cercando di costruire un convertitore Bessemer, guidato solo dal ricordo del diagramma su un’enciclopedia. I nostri cinque viaggiatori, svegliandosi nell’ombra rugiadosa dello schermo sfasciato del cinema drive-in, non lo sapevano, e non sapevano che un’altra parte del Sistema stava inviando in giro delle unità… in cerca di acciaio.

Il Sistema, nell’area di Las Vegas, si trovava alle prese con parecchie carenze, e quella dell’acciaio era la più grave. In tutti i barattoli di latta, le travature, le automobili, gli elettrodomestici e i fermaglietti per fogli che si trovavano in città non c’era abbastanza acciaio per soddisfare il suo appetito che cresceva in progressione geometrica. Le strade erano sparse di tentativi abortiti, cellule ricoperte di stoffe inamidate, di vetro, persino di mattoni. Preso da un vago panico, il Sistema aveva inviato delle cellule sempre più lontano dalla città, a recuperare il filo spinato delle recinzioni, le macchine agricole… qualunque cosa. Le cellule più vicine cominciavano a portare bottini sempre più miseri in confronto all’investimento d’energia e di materiale, e le cellule che si spingevano più lontane impiegavano tanto tempo a procurare qualcosa, che il Sistema doveva aver temuto di stare per morire a Las Vegas.

Ignaro di tutto ciò, Jack divise quel che restava della sua pagnotta, e i cinque fecero colazione. Cal riconobbe sulle facce dei suoi compagni l’espressione dei sentimenti che erano suoi; tutti sedevano in silenzio, masticando, con un’aria stordita e indignata sui volti insonnoliti.

«Avrei una proposta,» disse. «Senza la macchina, è inutile che tentiamo di riattraversare la città. Sappiamo com’è: più ospitale per le macchine che per gli esseri umani. Propongo di avviarci nell’altra direzione. Già un pezzo di strada l’abbiamo fatto.»

«Ma vi è il deserto!» esclamò Brian. «Non abbiamo viveri, né macchine, né acqua, né…»

«Né liquori,» aggiunse Daisy.

«Né Bergamot. In breve, lei ci chiede d’addentrarci impreparati nel deserto, senza la benché minima speranza di reperir ciò che necessita al sostentamento della vita.»

Harry annuì, mentre si risvegliava il suo sorriso sarcastico. «Oh, ha un gran senso dell’umorismo, quel Cal,» disse. «Cal fa sempre un mucchio di scherzi.»

«Aspetta un momento.» Cal si alzò e indicò l’autostrada. «Ho notato che, mentre ce ne stavamo qui seduti, tre veicoli sono arrivati da quella direzione: due automobili e una mietitrebbia. Dovremmo poter trovare un passaggio. Non intendevo dire che bisognava andare a piedi.»

La faccia vizza del Professore si concentrò sull’idea, la rimuginò, poi si aprì in un sogghigno. «Eccellente nozione, ragazzo mio. Eccellente. Ancor una volta noi miriamo l’ingegnosità dell’umano cervello, così simile ad un’abile macchina…»

«Calma,» disse Harry, fissando un camion che passava davanti a loro. «Come possiamo convincerli a fermarsi apposta per noi? E chi se la sente di viaggiare su un camion che ha per conducente una cassetta per lustrascarpe o una radio a transistor?»

La fronte del Professore si rannuvolò.

«Sì, non sarà pericoloso viaggiare in quel modo?» chiese Daisy.

Brian fissò Cal, accigliandosi, e disse: «Lei, signore, è un briccone insolente!» In preda alla collera, il vecchietto rinsecchito si avvicinò a Cal e gli fece schioccare le dita in faccia.

«Non capisco perché dovrebbe essere così pericoloso,» disse tranquillo Cal. «Finché non cerchiamo di farli a pezzi o di interferire con le loro mansioni normali. Certo, dovremo essere prudenti.

«In quanto al modo di fermarli, ho un’idea. Avrete notato che i veicoli provenienti dalla città hanno rivelatori di mine legati ai paraurti anteriori. Questo significa che stanno cercando metalli. Sono convinto che se raduniamo in un mucchio tutto il metallo che possiamo trovare e lo mettiamo al centro della strada, qualche veicolo si fermerà per indagare.»

«Ahah!» esclamò Brian, recuperando il buonumore. «Riconosco che propiziar dobbiamo gli Dei con ninnoli preziosi. Poiché probabilmente non avrò giammai altro Bergamot, può aggiunger anche questo al sacrifizio.» E gettò a terra la tabacchiera vuota.

«Ehi, ma è argento puro!» disse Harry, affrettandosi a raccoglierla e a lustrarla sulla manica.

«Eppurtuttavia mi è inutile, priva del contenuto,» mormorò il Professore, sbirciando al di sopra degli occhiali dalla montatura quadrata. «Quella ed altro, donerei senza rimpianto per un pizzico di tabacco anche inferiore. Ah, bene, almeno or abbiamo un piano. L’umano cervello è in verità una macchina prodigiosa.»

«L’anima umana, vorrai dire,» fece Daisy. «L’ispirazione ha origine nell’anima.»

«Perché dici questo?» Dividendo le code della giacca, Brian volse le spalle al sole.

Cal, Harry e Jack rovistarono la zona raccogliendo oggetti metallici, e misero insieme un mucchio di rottami, compresi coprimozzo, lattine di birra, apribottiglie, monete, i tiranti di metallo che un tempo tenevano ritto lo schermo gigantesco, forcine per capelli, la maniglia d’una portiera d’automobile, lattine d’olio, un coltello rotto, carta stagnola, eccetera, che depositarono in mezzo alla strada. Brian e Daisy abbandonarono la discussione sulla teoria di Cartesio, secondo la quale anima e corpo sono congiunti nella ghiandola pineale, e andarono nel fosso insieme agli altri, ad attendere.

Cal era troppo preoccupato per partecipare alla vivace mezz’ora di dibattito che seguì. I suoi pensieri erano tutti rivolti all’immediato futuro, al cui riguardo formulava domande che non trovavano risposte.

Andare a Millford o non andare a Millford? Vero, erano diretti in ogni caso da quella parte. Vero, c’era forse una possibilità che il flusso dei macchinari si fosse arrestato alla fonte originaria. Era addirittura possibile che al laboratorio ci fosse bisogno del suo aiuto. Ma d’altra parte, se Grawk comandava ancora, laggiù, poteva farlo arrestare; era difficile dimenticare la minaccia lanciata dal generale al momento del commiato. Tuttavia, se là aveva preso il sopravvento il Sistema, come era accaduto a Las Vegas, Cal poteva esporre se stesso e i suoi compagni a un pericolo considerevole, e senza risultati.

Che cosa poteva fare a Millford, se anche ci fosse arrivato? I «cani» che si combattevano gli avevano dato una vaga idea per costringere il Sistema a fermarsi. Ricordava il fumetto classico di Giasone, in cui l’avventuriero scatenava uno contro l’altro i guerrieri nati dai denti del drago, fino a quando si annientavano tra di loro. Ma sembrava che per il momento non ci fosse ancora un modo per trasformare in termini pratici quell’idea romantica.

Continuare a guidare quella spedizione o no? Era un gran pasticcio, pensava Cal, e lui era il più inetto dei leader: non sapeva nulla delle tecniche di sopravvivenza, era incapace di ispirare fiducia (aveva notato che Harry non aveva fatto altro che guardarlo male per tutto il giorno; sembrava che il suo ex compagno di scuola lo detestasse senza una ragione al mondo); non aveva imponenza fisica, non era troppo forte, ed era indeciso. Sembrava incredibile che toccasse a lui dare gli ordini o pianificare la prossima mossa, in quel gruppo di individui dalla volontà fortissima. Vero, se non ci fosse stato lui, Brian e Daisy sarebbero stati felicissimi di starsene lì seduti a discutere Cartesio, fino a quando le loro anime abbandonassero le rispettive ghiandole pineali a causa della denutrizione. Cal sapeva di essere sempre meglio di una totale assenza di un capo, ma sapeva di essere peggiore di qualunque altro capo immaginabile. Quello era un compito duro, un lavoro per un uomo d’azione. Harry, secondo lui, sarebbe stato l’ideale.

Harry fissava Cal a occhi socchiusi, senza neppure cercare di nascondere il disprezzo che provava per quell’idiota. Non riusciva a comprendere come fosse sopravvissuto a una caduta dal quinto piano. Un individuo così meschino da sopravvivere al proprio omicidio non meritava di vivere! Cal sapeva del tentato omicidio? si chiedeva Harry, oppure quel fesso credeva ancora che loro due fossero sempre due buoni compagni di scuola? A Harry non piaceva il modo in cui quel tipo, con il suo camice da laboratorio lacero e sudicio, riusciva a darsi tanta importanza. Il classico tipo dello scienziato subdolo. Harry era felice di avere su di lui il vantaggio di venti chili di peso, di una pistola, di un coltello e dell’abilità di attaccare alla sprovvista. Sarebbe stato ancora più felice di… ma non adesso.

Non di fronte a testimoni. Divertiti, pensò, lanciando occhiatacce alla faccia sparuta e ispida di Cal. Verrà il mio giorno. Eppure, in fondo alla mente di Harry, nasceva l’orribile sospetto che quel giorno fosse già venuto e se ne fosse andato.

Dalla direzione della città comparve un puntolino lontano, crebbe fino a diventare un miraggio, fremendo nelle onde di calore, finalmente decise di collegarsi al suolo per mezzo delle ruote, acquistò una maggiore impressione di consistenza, diventò reale e si avvicinò. Era un camioncino, che rallentò per fiutare la loro offerta e poi si fermò a pascolare. Al segnale di Cal, tutti uscirono dal fossato che costeggiava la strada e si ammucchiarono a bordo… in mezzo a un carico meraviglioso.

Era il camioncino d’una latteria e, sebbene molti prodotti stessero inacidendo, c’erano yogurt fresco, panna per burro e ricotta in abbondanza. Dopo aver pranzato, i cinque ripresero la discussione sulla coincidenza, che avevano interrotto molto tempo prima.

La discussione incominciò quando il loquace Professore, beatamente sazio di panna e ricotta, dichiarò che giammai, nella sua vita, aveva fatto un miglior pasto, sia come dilettazione, sia come genuinità. Qual pasto poteva darsi, chiese, migliore che il latte? I bimbi, che d’esso esclusivamente si nutrono, non soffron la gotta, né i calcoli biliari, né le afflizioni epatiche, né l’apoplessia. La dieta, e la dieta soltanto, spiega la differenza tra un fanciullino sano e ridente e un vecchio inacidito. Qual provvidenza (esclamò) che il camioncino fosse carico di tal cibo perfetto!

Daisy, allora, affermò che lei non esitava ad attribuire tale fortuna a una Potenza Superiore. Infatti, sebbene sbandati e privi di risorse, ora erano ben nutriti, riparati, e viaggiavano nella miglior compagnia.

«Privi di risorsa!» gridò Brian. «Così direi! Dannata sia Las Vegas!» gridò appassionatamente. «Spero di non dover mai più vedere Las Vegas, né più udirne il nome!»

Si chiuse in un silenzio imbronciato, mentre passavano davanti a distributori di benzina e a pascoli in cui miriadi di dischi parabolici, come girasoli, si volgevano verso il sole. Erano entrati in una gola sparsa di boschetti quando all’improvviso il camioncino del latte cominciò a zoppicare su tre ruote.

«Lo sapevo,» disse Brian con rabbiosa ilarità. «Ecco qui la tua Potenza Superiore.» Non aveva neppure finito di pronunciare quelle parole quando il motore cominciò a balbettare; si spense prima che avessero percorso altri cento metri.

«Eccoci presi come pesci all’amo,» disse Brian. «Or vedi che ha fatto per noi il tuo Autore! Io lo sapevo…»

Daisy lo zittì, obiettando che ne aveva abbastanza della sua chiaroveggenza. I cinque scesero a sgranchirsi le gambe e a dare un’occhiata ai dintorni.

Il panorama non era sgradevole. Sul pendio, in alto, sorgeva una rozza baracca, dal cui comignolo uscivano sbuffi di fumo ad intervalli regolari. Sotto la strada gli alberi erano fitti, e si udiva il mormorio di un vicino ruscello. Cal decise di andare a riempire d’acqua qualche bottiglia vuota, e Daisy e il Professore l’accompagnarono, mentre Jack e Harry salivano a dare un’occhiata alla baracca. Il Professore continuava a snocciolare sottovoce una sfilza ininterrotta di invettive.

Dopo un po’, dalla baracca uscì un grido, e due figure si precipitarono fuori. Jack e Harry riuscivano a conservare ancora un’aria dignitosa, nei loro abiti estivi, ma si erano tolti i cappelli di paglia e li agitavano fanciullescamente, mentre scendevano a balzi il pendio. Quando si avvicinarono, Cal vide che avevano i volti arrossati e gli occhi lucidi.

«Il tesoro!» urlò Harry. «Abbiamo trovato il tesoro! Oro! C’è un grosso macchinario, là dentro, una caldaia a vapore o non so cosa, tutto fatto d’oro!»

«Una caldaia a vapore! Questo spiega gli sbuffi regolari che escono dal camino,» disse Cal. «Ma d’oro? L’oro è troppo tenero perché se ne possa ricavare una macchina. Deve essere ottone.»

«Guardate! Ho strappato via questo!» Jack mostrò il volano di una valvola: era a forma di ruota, e sembrava proprio d’oro.

«Aspetta un momento.» Cautamente, Cal strofinò il volano contro una pietra ruvida, fino a mettere allo scoperto l’acciaio. «Direi che serve per evitare la ruggine. È proprio oro.»

«Allora questo è il modo migliore di utilizzarlo,» dichiarò con fermezza Daisy.

«Anche se non è oro massiccio, là ce n’è abbastanza per arricchirci tutti!» disse Brian. «Per arricchirci, mia cara!» Prese le mani di Daisy, ma lei le ritrasse.

«L’oro è la fonte di tutti i mali,» disse con voce inespressiva.

«No, qui t’inganni, mia cara. Non è l’oro la fonte di ogni male, sibbene l’amore per l’oro. Cupiditas. In quanto a me, io odio l’oro quanto chiunque altro. Ma sii buona, mia cara, e per stavolta, prosperiamo.»

«Prosperiamo!» Daisy dilatò le narici. «Prosperiamo! Se sei tanto sciocco da arrampicarti lassù a pasticciare con quel macchinario pericoloso, ebbene, sia! Fai pure e prospera!» Le narici continuarono a dilatarsi. «Se hai tanta fame d’oro, aggiungi anche questo al tuo tesoro!»

E strappandosi l’anello di fidanzamento (per la verità dovette ritornare al camioncino e trovare un po’ di burro rancido da spalmarsi sul dito, ma alla fine ci riuscì), glielo scagliò.

«Se questa è la maniera in cui hai caro comportarti, o donna, io sono il tuo umilissimo servitore, siine certa!» gridò il Professore, mentre un violento rossore cominciava a salirgli per il collo venato. Ma non gli era ancora giunto alle ciglia, quando Brian rimase sconcertato nell’udire i singhiozzi di Daisy. I grandi occhi cerchiati di rosso, da troppo tempo traboccanti, riversarono torrenti di lacrime sulla sua faccia.

Alla vista di quella donna alta e statuaria che dimenticava la sua compostezza di dea fino al punto di piangere, anche Brian scoppiò in lacrime. Corse accanto a lei, e tornò a infilarle l’anello nel dito ancora imburrato.

«Non voglio quest’oro, mia cara,» singhiozzò, e per una volta tanto dimenticò di aggiungere qualche espressione rettorica e forbita. «Né questo, né altro!»

Harry fece udire un brontolio schifato. «Le donne! Finiscono sempre per far rammollire un uomo,» disse.

«Bene,» ridacchiò Jack, fregandosi le mani. «Così restiamo in tre, credo.»

«Non contatemi,» disse Cal. «Devo riflettere. In primo luogo, non siamo sicuri di potercela fare ad uscire di qui e, anche se ne usciamo, non sappiamo se arriveremo in qualche posto dove l’oro abbia valore. In secondo luogo, non so come potremmo prenderlo, se non fondendo l’intera caldaia o portarla con noi; il che mi sembra improbabile,» aggiunse, adocchiando il volano che pesava una dozzina di chili.

«In terzo luogo, può darsi che apprtenga a qualcun altro… un piccolo particolare, che tuttavia val la pena di prendere in considerazione, poiché a quanto ne so le leggi del Nevada e dello Utah sono ancora in vigore, e la gente ha l’abitudine di difendere con le armi le sue proprietà. Non posso credere che qualcuno se ne sia andato abbandonando questa roba. No, sono sicuro che è un pezzo del Sistema Riproduttivo, il che ci conduce al quarto luogo.

«Il Sistema Riproduttivo è ancora più attaccato degli uomini alle sua proprietà. Ha un modo molto carogna di difendersi dai vandalismi. Io cercherei di essere molto prudente, se dovessi avvicinarmi a quella roba.»

«Prudente? Per farti un favore, immagino?» fece Harry in tono beffardo.

«Posso continuare?» chiese Cal. «In quinto luogo, una volta ho visto un film che s’intitolava Il tesoro della Sierra Madre, dove si scopriva che il vero pericolo, quando c’è di mezzo l’oro, è…»

«Perché non la pianti con tutti questi ragionamenti da intellettuale?» urlò Harry, rauco per il furore. «O hai paura della polizia, o proprio non ti va che io abbia qualcosa di mio. È così? Solo perché l’ho scoperto io, quest’oro non ti va bene, eh? Prima mi hai portato via la ragazza, e poi ti sei sbarazzato di lei, e adesso vuoi portarmi via la mia caldaia. Be’, è mia! Adesso Jack ed io andremo lassù e la faremo a pezzi, e chi ci segue dovrà pentirsene!» Harry si batté la mano sulla pistola.

I due uomini salirono la collina; i loro cappelli di paglia identici erano inclinati nell’identico modo. Entrarono nella baracca. Cal, Brian e Daisy rimasero fermi dov’erano, senza capire la sfuriata di Harry. Passò qualche minuto.

Poi echeggiò uno sparo, seguito da altri due in rapida successione. Gli echi non si erano ancora spenti, quando Jack uscì barcollando dalla baracca: il petto del vestito chiaro si stava annerendo di sangue. Scese qualche passo, vacillando, poi si piegò in avanti e rotolò giù per il pendio. Quando arrivò in fondo, aveva ancora il cappello in testa, inclinato in un angolo elegante.

Cal lo girò e gli slacciò il colletto. Era tutto quello che gli veniva in mente, in fatto di pronto soccorso.

«È pazzo,» mormorò Jack. «Io volevo andarci con calma… la macchina andava ancora a tutta forza, né io né lui sappiamo come smantellare una caldaia a vapore… temevo che scoppiasse o qualcosa di simile. Volevo andarci piano, magari spegnerla, prima. Lui si è infuriato. Non so perché, forse ha pensato che avessi paura. ‘Andarci piano?’ ha detto. ‘Per fare un favore a te, immagino. Cribbio, questa è grande’. Lo ha ripetuto due o tre volte, mentre mi sparava:

«’Questa è proprio grande’.»

Jack tossì, ricadde, e perse il filo del racconto.

«È…?» chiese Daisy.

Uno scossone improvviso colpì il terreno come un gigantesco tamburo, scaraventandoli tutti lunghi distesi. La baracchetta svanì in un lampo bulboso che scaturì all’improvviso, sviluppandosi in un alto fiore di fumo nero. Alla base ribollirono nubi di vapore e di polvere. Un albero poco saldamente radicato si staccò dal pendio lassù, aggiungendo il suo tonfo all’acciottolio di ingranaggi e di macerie. Quando tutto finì, fu come se la baracchetta non fosse mai esistita.

Era inutile cercare Harry, ma ci provarono. Un po’ di paglia del cappello, un pezzo di scarpa, qualche brandello dell’abito, tuttora senza grinze, poiché era tessuto antipiega, fu quanto trovarono di lui. Seppellirono quei resti insieme a Jack, e piantarono due croci sulla tomba. Brian recitò una appropriata elegia di Thomas Gray. Cal ne avrebbe ricordato per sempre un brano:

Il color tirio di quelle armature tra la più ricca porpora tradiva il luccichio dell’oro.

Verso metà pomeriggio, servendosi come esca del volano d’oro (il solo oro che loro tre avessero mai visto), riuscirono a procurarsi un passaggio verso est. Era un camion di un emporio d’alimentari.

Capitolo Diciannovesimo

Weltschmerz

«La Natura ha posto l’uomo sotto il governo di due padroni sovrani, dolore e piacere. Ad essi soli spetta indicare ciò che dobbiamo fare.»

BENTHAM

«Credo di non aver capito bene,» balbettò Aurora. All’annuncio di Smilax, il trauma l’aveva irrigidita al punto che riusciva appena a parlare.

«Forse intende dire che non mi crede,» disse Smilax, con gentile pedanteria. «E allora venga, glielo mostrerò.» Afferrandole il braccio sopra il gomito, in una stretta dolorosa, guidò Aurora attraverso una specie di studio dentistico, poi per parecchi corridoi, fino a una sala per conferenze. Uno schermo gigantesco che copriva un’intera parete mostrava, a contorni illuminati d’azzurro, una carta geografica dell’America settentrionale.

«Si sieda, prego. Ora, a scanso di equivoci, lei diventerà una mia dipendente. Come lei sa, io sono il capo del Progetto 32.»

«E se io non volessi più lavorare per il Progetto 32?»

«Non ha scelta, come le spiegherò tra poco. In ogni caso, entro breve tempo essere vivi significherà lavorare, in un modo o nell’altro, per il Progetto 32. Entro breve tempo non esisterà nient’altro che il Progetto 32, il Sistema Riproduttivo, nel mio mondo. Mi consenta di mostrarle come stanno le cose.»

Smilax premette un pulsante sul bracciolo d’una sedia e sulla carta geografica apparve un punto giallo. «Quello è il NORAD.» Quando toccò altri comandi, un’area rossa si diffuse da quel punto, come l’infiammazione intorno a un foruncolo. Più di un terzo degli Stati Uniti, vide Aurora, era inondato di rosso. Altri comedoni gialli spuntarono in quel rosseggiare e il dottore li indicò. «Vede? Sono gli altri nostri centri di produzione, per così dire: i nostri nuclei a Millford, Altoona e Las Vegas.»

«Come ha fatto a impadronirsene?»

«Un giovane dipendente del laboratorio di Millford, Calvin Potter, ‘ha spento’ il Sistema dopo una dimostrazione disastrosa. Io ho fatto sapere che il Sistema era assolutamente finito. In realtà, ovviamente, era solo passato alla clandestinità con il mio aiuto… alla clandestinità più completa; e attraverso grotte, caverne e miniere abbandonate è arrivato fino ad Altoona. Partendo da lì, ha occupato il territorio che lei vede.

«Queste sono le mie acquisizioni più recenti,» aggiunse orgoglioso, e accese due punti gialli a Washington, la capitale. «E hanno una storia interessante. Ieri sera, qui c’erano i Capi di Stato Maggiore. Io sono riuscito a infilare nella borsa d’uno di loro una specie di bomba a orologeria vivente. Da allora sono rimasto in continuo contatto con il Pentagono, sulla linea rossa del NORAD, e sono lieto di dire che il gigantesco computer della teoria del gioco, il cervello bellico dei militari che si trova lassù, adesso è mio. Senza sparare un sol colpo, ho ridotto all’impotenza gli Stati Uniti.

«L’altro punto rappresenta il Dipartimento di Stato. Un’altra cellula si è insinuata nell’ufficio postale dell’edificio, e sta spedendo copie di se stessa per mezzo delle valigie diplomatiche a tutte le nostre ambasciate e a tutti i nostri consolati sparsi per il mondo. Credo che tra non molto dovremmo cominciare ad avere notizie dalle diverse capitali.»

Apparvero altri cinque o sei punti gialli, come per un’insorgenza dell’acne. «Fort Knox, Pittsburgh, Birmingham, e alcuni dei settori industriali di Los Angeles sono nostri,» disse, «anche se non in tutti i casi se ne sono accorti. Le fabbriche completamente automatizzate possono venire conquistate con un minimo di fatica e di perdite, con molta calma. Ah, vorrei avere a che fare soltanto con le macchine perfettibili, anziché con la fragile carne umana! Ma purtroppo, prima o poi, bisogna affrontare,» e Smilax fece una smorfia, «l’elemento umano. Bisogna annunciare al pubblico chi è che comanda, e in questo, dottoressa Candlewood, ho bisogno del suo aiuto.»

«Del mio aiuto? Mi pare che ce la faccia benissimo da solo a conquistare il mondo, dottore,» disse lei, assumendo un tono irritato per nascondere il suo profondo turbamento. «Non capisco in che cosa potrei assisterla.»

«E invece può, e in due modi diversi. Innanzitutto, mi interessa strutturare le relazioni tra il Sistema e la popolazione, in modo che risulti ben chiaro chi è lo schiavo e chi è il padrone, ma soprattutto in modo che gli schiavi si rendano conto che non esistano alternative. Insomma, voglio che lei renda il Sistema Riproduttivo pressoché onnipotente e imperscrutabile… un labirinto, diciamo, dal quale i ratti non possano mai uscire.

«Secondo me, è possibile riuscire in un solo modo. Dobbiamo rendere il Sistema non solo crudele, ma arbitrariamente crudele, senza riguardo per il comportamento dei suoi sudditi. I campi di concentramento nazisti, come forse lei sa, erano un modello di questo tipo di trattamento. I guardiani percuotevano ferocemente e deliberatamente i prigionieri molto spesso… e spesso senza motivo. È così che io voglio che il Sistema Riproduttivo tratti i suoi schiavi, come un bambino tratta i suoi giocattoli: un po’ ci gioca, un po’ li fa a pezzi, a seconda dell’umore.

«Gli effetti psicologici saranno veramente gratificanti. Le capacità di ragionamento degli schiavi si offuscheranno, e il loro pensiero diverrà sempre più tardo. Saranno sempre meno capaci di fronteggiare l’ambiente, e sempre più disposti a sottomettersi. Si creeranno superstizioni nei confronti del Sistema: faranno deboli tentativi di placarlo o di sfuggire alle sue punizioni, ma sempre invano.»

Ancora stordita, Aurora annuì vagamente.

«Non ho tralasciato nulla di quanto sia in mio potere fare, dottoressa Candlewood, per realizzare quest’opera. Ma ho bisogno di uno psicologo del comportamento che abbia la sua levatura, per colmare le lacune. Lei deve addestrare il Sistema.»

«Addestrarlo? Ma a che scopo? La dominazione del mondo è uno scopo fittizio, dottor Smilax, anzi non è neppure un fine. Cosa intende farsene del suo mondo, quando ne sarà il padrone?» Aurora era piuttosto sbalordita della propria audacia, mentre parlava con calma e razionalità della fine del mondo insieme a quel pazzo.

Lui sorrise. «Il mio scopo? Il mio scopo è difficile da realizzare… ma vale qualunque sforzo. È semplicemente questo.» Smilax regolò lo schermo, inquadrando una carta geografica polare dell’emisfero settentrionale, poi si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro.

«Il mio scopo,» annunciò con voce sonante, «è infliggere la maggiore sofferenza possibile al maggior numero possibile di esseri, sempre e dovunque: Weltschmerz!

«Sembra pazzesco, no? Eppure è necessario forse ricordarle che, per molte filosofie, la stessa vita è sofferenza? I più grandi mistici di tutte le religioni del mondo hanno conosciuto la sofferenza… e la sofferenza li ha fatti grandi. Sarebbe noiosissimo elencare tutti gli uomini geniali che hanno sofferto. Tutti i grandi momenti della storia sono stati momenti di intensa sofferenza: la persecuzione dei primi cristiani; la peste nera; la conquista del Messico; l’Inquisizione; il Terrore; le guerre mondiali.

«Non soffrire è essere morto, no? Che altro è la sofferenza se non l’essenza e il sostegno della vita?» Con gli occhi ardenti, si sporse attraverso la tavola e alitò in faccia ad Aurora un odore acido di biscotti per cani. «Sì! La mia verga e il mio bastone li consoleranno, ahahah, ed essi ascolteranno,» Smilax inclinò la testa da una parte, «la voce del loro padrone!»

Dopo un istante di silenzio, si asciugò la saliva dalle labbra e si girò verso la carta geografica. «Per lei, naturalmente, ci sarà la soddisfazione di essere la prima scienziata del comportamento a lavorare su questo progetto,» disse con voce più razionale. «Ci pensi: il mondo intero in una di quelle sue scatole Skinner! Pensi alle possibilità di ricerca quando potrà usare soggetti umani… per qualunque scopo!»

Aurora si accorse che Smilax aspettava una risposta. Evidentemente, non c’era possibilità di rifiutare; poteva essere pericoloso anche mostrarsi tiepida. Ostentando un debole sorriso, mormorò che sarebbe stata felice di incominciare a lavorare.

«Magnifico! Ho già pronto il suo primo compito. Torniamo nella cabina di comando.» La ricondusse nella stanza dalla lunga vetrata gialla, dalla quale lei poté vedere la gabbia di Grawk. «Può fare esperimenti su quel nostro animale in gabbia. Le mostrerò quello che ho ideato, e senza dubbio lei sarà in grado di apportare dei miglioramenti.»

Grawk dormiva, nella gabbia. Dopo aver premuto un pulsante che spinse la macchina a svegliarlo con un pungolo elettrico per il bestiame, Smilax attivò l’intercom e gli chiese come stava.

«Cosa? Uah! Ho fame,» disse Grawk, arretrando davanti al pungolo. «Quand’è che mi fa uscire di qui? E quand’è l’ora del rancio?»

«Ora del rancio?» fece Smilax, pungolandolo ancora. «Non mi pare di conoscere questa espressione.»

«Voglio dire… uah!… quando si mangia?»

Sebbene il pungolo sembrasse causare a Grawk più fastidio che sofferenza, Aurora non sopportava quella scena. Si sentiva contrarre lo stomaco ogni volta che Smilax allungava la mano verso quel pulsante. Il dottore, naturalmente, si divertiva moltissimo.

«Per la verità sono molto stanca,» disse Aurora. «Non potremmo farlo un’altra volta? Ho guidato per tutta la notte.»

«Stanca?» Smilax inarcò un sopracciglio. «Ma il vero scienziato deve essere sempre disposto a stancarsi, per amore della ricerca. Noi vogliamo la verità, non le comodità, dottoressa Candlewood. Come può ideare sistemi immaginosi per far soffrire gli altri, se lei rifiuta qualche lieve disagio? E adesso…»

Smilax premette un altro pulsante e una «giraffa» televisiva partì dalla parete e si protese verso Grawk. Al posto del microfono, reggeva una banana. «Ora di pranzo,» cantilenò il dottore. E a voce più bassa aggiunse: «Una mia piccola invenzione, rozza ma efficace.»

La giraffa si fermò a poca distanza da Grawk. Ogni volta che lui cercava di afferrare la banana, quella gli sfuggiva. «Ehi? Che diavolo…?»

«Mi è stato difficile addestrarla a compiere questa manovra,» spiegò Smilax. «È insito nella natura di una macchina desiderare di completare l’azione incominciata. Le è stato difficile afferrare la gestalt della situazione… Ma dimenticavo, lei adopera altri termini.»

Stancandosi di quello spasso, il chirurgo lasciò che Grawk arraffasse la banana. Ma quando l’ex generale cominciò a sbucciarla, Smilax gridò: «Fermo! È mio dovere avvertirla, Grawk… la banana è avvelenata.»

«Cosa?»

«Morirà tra tormenti orribili se ne mangia un solo boccone.»

Grawk guardò la banana, poi il suo torturatore, poi di nuovo la banana. Poi posò il frutto sul pavimento della gabbia e lo guardò ancora. Poi si sedette e cominciò a piangere.

«Così va meglio,» disse Smilax con un sospiro. «Avevo cominciato a pensare che Grawk non fosse del tutto umano. Bene, lo lascio nelle sue mani, mia cara. Ho affari urgenti da sbrigare e sono sicuro che lei non avrà difficoltà a punirlo adeguatamente, eh eh. A proposito, dovrò avvertirla di non lasciare il NORAD e di non abusare dei computer che si trovano qui, e che fanno parte del Sistema Riproduttivo. Se rivolgerà domande ai calcolatori o darà loro comandi che contrastino con i miei ordini espliciti, verrà messa a morte. Ha capito?»

«Ma come può pretendere che io addestri il Sistema, se non ho la libertà di fargli domande…»

«Ah, mi ha frainteso. Le domande che contraddicono i miei ordini espliciti sono relativamente poche: ‘Come mai il dottor Smilax conserva il controllo di un sistema complesso, intelligente e apparentemente autonomo?’ Oppure: ‘Come posso riuscire a uccidere il Sistema?’ Sono sicuro che lei capisce benissimo a quali domande e a quali comandi alludo. Lo lascio al suo giudizio, ma l’avverto: il Sistema è intelligente. È in grado di batterla a scacchi, o a qualunque gioco che lei può insegnargli, per esempio. Non cerchi di imbrogliare il Sistema.

«Bene, au revoir, mia cara, e non si dimentichi… si dia da fare, si dia da fare.» Ridacchiando, con un sorriso un po’ storto stampato sul viso solitamente serio, Smilax se ne andò. Aurora sedette e si coprì la faccia con le mani.

Non c’erano dubbi sul futuro. Avrebbe dovuto fare proprio quello che lui le aveva ingiunto di non fare, e doveva cercare di cavarsela. E mentre ancora si diceva che tutto ciò non poteva accadere, che doveva trattarsi di un incubo, un’altra parte del suo cervello stava formulando un elenco di domande da rivolgere al computer.

Alzò gli occhi e notò che Grawk stava ancora fissando la banana. «Oh, per amor del cielo, la mangi!» gridò nel microfono. «Non è avvelenata.»

«Non lo è? E lei come lo sa?»

«Perché la mente di Smilax funziona così. Ucciderla non lo divertirebbe la centesima parte di quanto lo diverta farla soffrire. È un sadico della specie più meschina… un burlone all’ennesima potenza.»

«Ehi, mi faccia uscire di qui, per favore,» chiese Grawk, trangugiando la banana.

«Per il momento, mi sento più sicura con lei in gabbia.»

Si avvicinò alla tastiera nell’angolo della sala comando, e batté: «Mi chiamo Aurora Candlewood. Se tu capisci questo messaggio, ti prego di identificarti.»

La macchina rispose subito.

«UFO 0040 0060 000 a 42 GR 44M N 93 GR 40 M 0 ORA IDENTIFICATO COME NC 47946… LA SOMMA DEI CUBI DI TUTTI I NUMERI DA 1 A N PUÒ ESSERE IDENTIFICATA COME IL QUADRATO DELLA SOMMA DEI NUMERI DA 1 A N… LA PERSONA CHE HA BATTUTO MI CHIAMO AURORA CANDLEWOOD PUÒ ORA ESSERE IDENTIFICATA COME AURORA CANDLEWOOD FASCICOLO NUMERO 828286355119-A-C… PER TU INTENDE QUESTA TASTIERA OPPURE L’INTERO COMPLESSO COMPUTER DEL NORAD PUNTO DI DOMANDA… VUOLE NUMERI DELLE PARTI DI QUESTA TASTIERA O DELL’INTERO COMPLESSO COMPUTER DEL NORAD PUNTO DI DOMANDA… SE VUOLE NUMERI PARTI DELL’INTERO COMPLESSO COMPUTER DEL NORAD VUOLE ANCHE NUMERI PARTI DI PEZZI DI RICAMBIO IN MAGAZZINO PUNTO DI DOMANDA…» Si soffermò un momento poi, come per stare sul sicuro, aggiunse: «P-Q4»

«Mi faccia uscire di qui!» urlò Grawk. «Smetta di giocare con quella maledetta tastiera e mi liberi?»

Se il computer del NORAD non aveva un concetto della propria identità, pensò Aurora, questo poteva significare diverse cose: che non era ancora collegato con il Sistema Riproduttivo. Che il Sistema Riproduttivo non si considerava autonomo, bensì schiavo di Smilax. Oppure che il Sistema Riproduttivo si identificava in qualche modo con Smilax. Ma non era prudente continuare l’interrogatorio su quei binari.

«Che cos’è la verità?» batté sulla tastiera.

«I MIEI CRITERI PER GIUDICARE VERITÀ DEI DATI SONO ELENCATI NEL SEGUENTE ORDINE DISCENDENTE DEI VALORI DI VERITÀ:

1) EVIDENZA SENSORIALE, CONFERMATA DA RIPETUTE PROVE O DA PIÙ DI UN SENSO.

2) EVIDENZA SENSORIALE, SENZA CONFERME.

3) ORDINI DELL’UNICA AUTORITÀ INFALLIBILE, SMILAX.

4) ORDINI DI AURORA CANDLEWOOD.

5) DOCUMENTI CONSIDERATI DI AUTORITÀ RICONOSCIUTE.

6) TUTTI GLI ALTRI DATI.»

Aurora rimase un po’ stupita di fronte alla quarta categoria. Con qualche altra domanda, scoprì la differenza tra la sua autorità e quella di Smilax. Lui aveva il potere di contraddire tranquillamente i sensi del Sistema. Cioè, il Sistema vedeva che il nero era nero, ma accettava l’affermazione di Smilax che il nero era bianco, e teneva in mente la contraddizione come terza «verità».

Quella capacità di tollerare i paradossi annullava il primo piano d’attacco di Aurora. Lei aveva sperato di introdurre un paradosso gigante, tipo «C’è vita dopo la morte,» nella speranza di spingerlo a una specie di suicidio, ma questo era da escludere.

«Ho fame,» disse Grawk, interrompendo i pensieri di lei.

Distrattamente, Aurora allungò la mano e premette il pulsante che supponeva provvedesse a fornire le banane.

«Ehi! Lo spenga!» urlò Grawk.

Con suo grande orrore, lei si accorse di aver premuto l’interruttore sbagliato: la camera in cui era appesa la gabbia di Grawl si stava riempiendo di gas biancastro. Cercò di chiudere il gas, ma pareva che il processo fosse irreversibile: e poi, se il gas era velenoso, poteva darsi che già quello fosse sufficiente per ucciderlo.

«Trattenga il respiro!» gridò nel microfono. «Ora la libero.» Dopo qualche falsa partenza, trovò l’interruttore che abbassava la gabbia e apriva la porta. Trattenendo il respiro, Grawk raccattò la pistola ed entrò a precipizio nella cabina di controllo.

«Okay, pupa, grazie. Adesso cerchiamo quello Smilax, perché voglio fargli un bel buco nella pancia.»

«Temo che la pistola non le servirà a molto,» disse Aurora. «Noi viviamo, in pratica, dentro a un computer fedele a Smilax. Non avrà la possibilità di usare quell’arma contro di lui.»

«No? Vedremo. Venga.»

Guardarono nel gabinetto dentistico, nella sala delle conferenze e in una dozzina di altre stanze piene di apparecchiature curiose, bizzarre, talvolta terrificanti. Aurora intravvide apparecchiature ospedaliere, un’enorme macchina per la radiumterapia, macchine diatermiche, per i raggi X, elettrocardiografi ed elettroencefalografi. Tutti a portata di mano, pensò, per gli «esperimenti». Aurora rabbrividì.

Percorsero un tratto del corridoio senza trovare Smilax, e arrivarono davanti a una porta chiusa a chiave. «Si faccia indietro,» disse Grawk. Sparò un calcio, molto forte dalla parte della serratura. L’uscio cedette e si spalancò. Grawk si buttò in ginocchio, con la pistola spianata.

La stanza era un salone deserto, con un tavolo da ping-pong, un tavolino da caffè carico di riviste, un distributore di Coca-cola in un angolo, un divano contro la parete e ragnatele dappertutto.

«Ehi, va benone,» disse Grawk, trascinando Aurora nel salone. «Le dirò io cosa facciamo. Possiamo rintanarci qui per un po’.»

«Come sarebbe a dire?»

«Voglio dire, rilassiamoci un po’, pensiamoci sopra, eh eh, facciamo i nostri piani.» La sua voce era strana, stridente e innaturale, e quando si girò, nei suoi occhi era comparso uno scintillio che prima non c’era. Aurora si augurò di avere con sé B476, ma il ratto era con la macchina… chissà dove.

Grawk venne più vicino. All’improvviso la cinse con le braccia tozze, le affacciò il volto rosso sopra la spalla. Bloccandole le mani contro i fianchi, cominciò a spingerla verso il divano.

«Mi lasci andare.» Aurora riuscì appena a escludere il panico dalla propria voce.

«Su, andiamo pupa, sono solo un essere umano,» dichiarò il disumano mascherone rosso. «Sei maledettamente carina. E poi, quel gas… doveva esserci dentro qualcosa… non mi sentivo così in forma da anni… perché non ce la spassiamo un po’ finché possiamo, eh? Ti dirò un piccolo segreto sul conto di quel divano, tesoro… è un letto!»

«Quest’uomo la sta molestando, dottoressa Candlewood?» chiese la voce gracchiante da sergente. Sembrava provenire dal distributore della Coca-cola.

«No, non la sto molestando!»

«Mi lasci!» gridò lei. Ma Grawk la strinse più forte.

«La lasci, Grawk, altrimenti uscirò fuori io a darle il fatto suo.»

«Ahah, tu e chi, ancora? Come hai intenzione di fare per costringermi a lasciarla andare?»

Per tutta risposta, il distributore della Coca-cola si aprì e ne uscì un animale enorme. Era ritto sulle zampe posteriori: era alto intorno al metro e ottantatre, ed era molto peloso.

E sembrava proprio un ratto.

«No!» urlò Grawk. Mollò Aurora e arretrò di fronte all’essere che stava assolutamente immobile a fissarlo con gli occhietti vitrei. «No! Non ti avvicinare!»

Inciampò nel divano, e vi cadde sopra… dentro. Perché quasi istantaneamente il divano si aprì, lo impacchettò e tornò ad essere un innocente divano.

Mentre l’animale impagliato girava su se stesso per ritornare nel distributore di Coca-cola, Aurora vide una scritta dipinta sul dorso striato:

DAI, DAI MARMOTTE!

«Perché mi hai salvato?» chiese alla stanza. «Che cos’era quel fantoccio, e come facevi a sapere che Grawk ha paura dei ratti? Che ne è stato di lui?»

Le rispose una voce bizzarramente limpida e neutra. «Perché dovevo farlo. L’animale impagliato è stato portato qui dal magazzino per uno scherzo, in base ai dati conosciuti sul conto di Grawk. Ora egli resterà prigioniero e verrà punito; oppure resterà prigioniero e non verrà punito; oppure verrà punito e rilasciato; oppure verrà punito e morirà. Questa unità sta ora smontando di servizio. È pregata di rivolgere eventuali ulteriori domande alla cabina di controllo o alla sala delle conferenze. Grazie, dottoressa Candlewood.»

Lasciare il NORAD fu una cosa assurdamente semplice. Aurora chiese alla tastiera nella cabina di controllo se poteva andarsene.

«SÌ MA DEVE RITORNARE.»

«Perché?»

«PERCHÉ IL DOTT. SMILAX POSSA AVVERTIRLA DI NON ANDARSENE. IL DOTT. SMILAX HA DETTO ‘DOVRÒ AVVERTIRLA DI NON LASCIARE IL NORAD’. HA PARLATO CON LEI, DOTT. CANDLEWOOD. CIÒ CHE IL DOTT. SMILAX DICE E NON CONTRADDICE L’ESPERIENZA SENSORIALE È NECESSARIAMENTE VERO. PERCIÒ IL DOTT. SMILAX DOVRÀ AVVERTIRLA DI NON LASCIARE IL NORAD. PERCIÒ LEI DEVE TORNARE AFFINCHÉ’ LUI POSSA FARLO.»

Pochi minuti dopo, lei era di nuovo alla superficie, e si riparava dal sole del deserto nell’ombra di un carro armato abbandonato, senza cingoli, sul bordo dell’autostrada. Poco dopo, un treno arrivò camminando lungo il centro della strada.

Con un profondo respiro, Aurora uscì allo scoperto, sorrise, e alzò il pollice.

Capitolo Ventesimo

Undici metri al secondo ogni secondo

«cadere (vi.) … passare in qualche condizione o relazione: cadere addormentato, cadere in preda alla passione, cadere in rovina.

THE AMERICAN COLLEGE DICTIONARY

Barthemo Beele si appoggiò di nuovo alla ringhiera e guardò Parigi. Non conosceva i nomi dei monumenti che vedeva. Per gli altri, quello poteva essere anche un panorama meraviglioso, ma per Beele era solo un posto adatto per buttarsi.

Aveva preso in esame tutti gli argomenti a favore della vita. Il suicidio era una colpa. Presumibilmente, aveva davanti a sé tutta una vita, la situazione non era poi tanto terribile. Il suicidio non era una soluzione. Aveva fatto un lungo elenco mentale, e poi aveva cancellato i vari argomenti, uno ad uno, scrivendo loro accanto «n/v». Non valido. Lui non aveva nessuna ragione per restare al mondo.

D’altra parte, Beele aveva tutte le ragioni per morire. Il suo declino fisico e mentale, il suo incarico senza speranze e senza ricompense, la sua sfortuna incredibile. Meno di una settimana prima, lui era un giovane direttore di giornale, robusto, senza paura, pronto a tutto. Adesso si stava aggirando subdolamente nella speranza di poter corrompere un uomo onesto.

Il suo declino fisico era evidente. Beele si sentiva andare a pezzi come un impermeabile da poco prezzo. Le dita del piede destro erano tormentate dai calli, mentre sulla pianta gli era cresciuta una vescica enorme. Un prurito ardente tra le dita del piede sinistro annunciava l’arrivo di un fungo. La bolla sulla nuca, causata dall’elastico della visiera, adesso era in una certa misura equilibrata da un foruncolo sul mento, che lui aveva decapitato nel farsi la barba. Uno degli orecchi schioccava e ronzava, a causa del raffreddore che adesso, in pieno sviluppo, continuava a versargli fluidi scottanti giù per la gola. Suggs l’aveva avvertito di far bollire l’acqua e di mangiare solo cibi in scatola «Made in USA», per non cadere in preda alla dissenteria. Come risultato, si era fatto un taglio profondo nell’aprire un barattolo, e adesso aveva la mano sinistra gonfia e infiammata. E aveva la dissenteria.

Beele pensava che la febbre gli desse le allucinazioni. Ieri aveva visto Mary tra la folla; mentre percorreva il Boulevard St. Germain des Prés, aveva incontrato una piccola scatola grigia identica a quelle di Altoona. Qual era la causa? La mancanza di sonno? I sudori notturni? L’esaurimento nervoso? Sembrava che l’intero universo si schierasse contro Barthemo Beele, deciso a schiacciarlo nella polvere.

Ma lui non aveva ancora rinunciato a ogni speranza, si disse. Non era salito fin lassù per uccidersi: no, finché aveva una missione da condurre a termine. Aveva seguito Marcel Brioche lassù, sperando di avere una possibilità di parlargli da solo.

Fino a quel momento, aveva sperato invano. Brioche pranzava abitualmente insieme a quattro o cinquecento persone, alle quali teneva discorsi. Ogni giorno trascorreva molte ore in pubblico, tenendo conferenze e presenziando a cerimonie civiche e a funzioni caritatevoli. Ogni mattina era in riunione con il regista che stava preparando un film sulla sua vita. Un famoso sarto gli aveva preso le misure per una nuova tuta spaziale, che adesso Brioche portava sempre. Parlava alla TV davanti a tavole rotonde di giornalisti, oppure prendeva parte ad altre tavole rotonde di celebrità, impegnate a identificare famose annate di vini. Aveva trascorso un pomeriggio a fare autografi sui modellini di Le Bateau Ivre in un magasin, e un altro a fare pubblicità a un’enciclopedia scientifica per bambini. Quando non aveva altro da fare, l’astronauta si dedicava al suo passatempo preferito: giocava a bowling con gli amici. Quando andava da un appuntamento all’altro, i poliziotti motociclisti scortavano il suo tassi, oppure un’orda urlante di giornalisti lo circondava. Guardie armate di mitra proteggevano di notte il riposo di Brioche dagli ammiratori fanatici… e da Beele.

Era una missione disperata, eppure in qualche modo aveva aiutato Beele a tirare avanti. Lui aveva fatto il cameriere di Brioche, il valletto televisivo, il giornalista. Aveva perquisito giacche, controllato distintivi, aveva persino comprato un’enciclopedia scientifica per bambini. Adesso l’aveva seguito fino in cima alla Torre Eiffel. La guardia non si vedeva, e gli ultimi visitatori, delusi dal cielo coperto, se ne stavano andando.

Marcel Brioche si appoggiò di nuovo alla ringhiera e guardò Parigi. Per gli altri, quello poteva essere un panorama meraviglioso, ma per Brioche era solo un posto adatto per buttarsi. Aveva preso in esame tutti gli argomenti a favore della vita: nel suo caso, pareva che nessuno fosse valido. La vita senza di lei non valeva la pena di essere vissuta. Se il suo paese non avesse avuto tanto bisogno di lui, adesso, se non fosse stato un gesto troppo egoistico, lui avrebbe afferrato a due mani la ringhiera e…

«Mi scusi, forse non si ricorda di me,» disse una voce in inglese. Brioche si voltò e vide un uomo giovane, alto e magro, con la visiera verde e l’impermeabile. Un tesserino stampa era infilata nell’elastico della visiera.

«Mi dispiace,» disse l’astronauta. «Non mi sento di rilasciare dichiarazioni in questo momento… forse più tardi…»

«Non si ricorda di me? A Marrakech? Io sono Beele, della CIA,» ringhiò Beele, rauco.

I modi di Brioche divennero gelidi. «Temo di non avere niente da dirle, mai,» fece. «Immagino che sia stato lei a darmi quella botta in testa, in quel vicolo.»

«No, è stato lei a dare la botta in testa a me.»

«E adesso si vuole vendicare?»

«No, sono autorizzato dal mio governo a offrirle un emolumento sostanzioso, a una piccola condizione.»

«Vuole corrompermi, eh?» L’astronauta sogghignò. «Sapevo che si sarebbe arrivati a questo. Mi accorgo che il suo governo non ha ancora rinunciato a cercare di comprare l’onore… che evidentemente continua a mancargli. Tuttavia non sono così povero da dover vendere il mio paese.»

«Non le chiedo di vendere il suo paese. La smetta solo di fare discorsi pieni d’accuse contro gli Stati Uniti. Si tratta solo di attenuare le tensioni internazionali…»

Brioche accese una sigaretta. «Attenuare la pressione che invece andrebbe accresciuta, invece. Mi dica, se la sente di guardarmi negli occhi e di assicurarmi che non c’è un agente americano a bordo della nostra astronave, eh?»

Evitando lo sguardo di Brioche, Beele disse: «Sono pronto a offrirle un milione di franchi. Ci pensi. Un milione! Guardi questa città splendente, e pensi quante belle cose potrebbe fare con un milione.»

«Io vivo bene quanto i milionari, adesso, e ho la coscienza tranquilla,» disse il francese. «C’è una cosa cosa che vorrei… riportare in vita qualcuno che è morto… e questo non è possibile, neppure con un milione di mondi di danaro.»

«Vuol dire la ragazza di cui mi aveva parlato? Ascolti, mi dispiace molto. Ma le dirò io che cosa fare. Le piacerebbe conoscere una ragazza nuova… come questa, per esempio?» Barthemo Beele prese il portafoglio e ne estrasse un’istantanea muffita di Mary Junes Beele. «Niente male, eh?»

L’astronauta cercò di respingere la foto, ma i suoi occhi vi indugiarono per un secondo di troppo. «Sì,» ammise. «Mi piacerebbe conoscerla.»

«Niente di più facile. Uh, ultimamente non siamo stati molto in contatto, ma il mio governo potrà rintracciargliela in un paio di giorni. Dunque…»

«Intendevo dire che mi piacerebbe conoscerla in qualunque altra circostanza, ma non in questa. Quello è il primo viso da me veduto che potrebbe aiutarmi a dimenticare il viso dell’altra.

«Ma purtroppo lei sta cercando di vendermi questa donna. E non solo io non potrei mai accettare favori da lei e dal suo governo, ma mi rattrista e mi turba il pensiero di ciò che sta facendo a quella poverina. So che una ragazza con un volto simile non permetterebbe mai di venire usata in modo tanto insidioso. È solo a fatica che mi trattengo dal trattare la sua immonda proposta con il disprezzo meritato.»

«Senta, mi scusi. Non avevo capito… sono stato un po’ rozzo, vero? Spero che non mi serberà rancore. Non volevo offenderla…»

L’astronauta gli voltò le spalle e guardò il cielo coperto. «Non ha capito,» disse, «ciò che la mia amata significava per me. Se non fosse per un senso del dovere, mi ucciderei.»

«Perché no?» disse Beele, cambiando prontamente marcia. «Perché non si butta giù? Perché continua a vivere? Per una carriera politica? Per qualche onore, per un film sulla sua vita? Che importanza hanno?»

«No!» La voce dell’astronauta tremava.

«Ma che splendido gesto romantico! Al culmine della gloria, mentre ogni donna della Repubblica è pronta a gettarsi ai suoi piedi, lei si uccide per un dispiacere d’amore! Basta che si afferri con tutte e due le mani alla ringhiera e si butti…»

«No! Il mio paese ha bisogno di me! I miei compatrioti…»

«Davvero? Per loro non è un eroe, sia morto che vivo? Forse non sarebbe ancora più utile da morto?»

«No! Respingo tutte e tre le sue offerte ripugnanti! Sparisca! Addio!»

Beele cominciò a trovarsi in preda a un furore improvviso. Che diritto aveva, quello, di dargli degli ordini? Non sapeva che Beele era capace di uccidere? Era stato inutile rinviare per tanto tempo il trattamento speciale.

«Addio, eh? Come sarebbe a dire, addio? Sta facendo marameo all’offerta più che generosa del governo degli Stati Uniti? Rifiuta addirittura di andare a letto con mia moglie? Pensavo che lei fosse una persona per bene, e l’ho persino detto a Suggs, ma adesso capisco che aveva ragione lui! Addio, dunque, sporco f-f-f-…» Per la prima volta in vita sua, Beele si sorprese a balbettare. Ritentò, ma la parola rifiutò di uscirgli dalle labbra. L’astronauta attendeva paziente, senza ridere, e proprio quella pazienza infuriò ancora di più Beele e aggravò la sua balbuzie. Finalmente Beele rinunciò a continuare e si scagliò contro la sua vittima, senza l’insulto finale.

L’ottimo manuale delle tecniche di combattimento della CIA era succinto ma completo, e Beele ne aveva imparato a memoria ogni parola. Assumendo la posa della figura rozzamente stampata a pagina 42, afferrò il braccio dell’Avversario e lo torse dalla posizione A alla posizione B. Poi sferrò un calcio con il piede sinistro (quello che bruciava), mentre ruotava sulla vescica del piede destro. Infilando il calcagno del piede sinistro sotto l’ascella dell’Avversario, come a pagina 43, scagliò Brioche nel vuoto.

«Guarda, la Torre Eiffel!» gridò Ron. «Ehi, Mac, proprio come in Zazie. Andiamo lassù in cima, cosa ne dici?»

Kevin Mackintosh fece schioccare le dita. «Sicuro, e poi andremo ancora più in alto.»

«Ma non dovrebbe essere lassù in cima, a impedire alla gente di buttarsi?» chiese Mary al guardiano.

Lui rise. «Non si butta mai nessuno dalla Torre Eiffel. E lassù, adesso, ci sono soltanto Marcel Brioche e un giornalista. Non avrebbero motivo di buttarsi, specialmente L’Astronauta.»

Mary masticò pensierosa la pasticca per la tosse. «Forse sì,» disse. «Diciamo, se avesse il cuore infranto. Oppure qualcuno potrebbe dargli una spinta.»

«Dicono che la sua tuta spaziale abbia il paracadute incorporato. Ma adesso, piccola mia, parliamo di altre cose. Ha mai visto un appartamento parigino da scapolo?»

«Dozzine,» disse Mary, sospirando per la stanchezza e la noia. «E sono tutti eguali. Come i loro inquilini.» Pensò agli uomini tutti eguali del suo passato: Harry (buon vecchio Harry Stropp, quando correva sul tetto! Come lo ricordava lei, non faceva altro che saltare la corda e sogghignare), Cal, Barty (con quella sua prosa logora e volutamente troppo brillante, che ricordava il Time dei primi tempi), il marinaio con le braccia tatuate, lo scrittore di libri tecnici (autore del carrello elevatore a forcone, come continuava a ripere a tutti), l’industriale che l’aveva portata a Parigi…

Erano penosamente eguali: persino quel guardiano. No, lei sapeva che solo un uomo avrebbe potuto contare per lei di più delle pastiglie per la tosse… l’uomo che adesso era lassù in cima alla torre: Marcel Brioche. Ieri lei era rimasta in piedi per tre ore sotto la pioggia ad ascoltarlo parlare, anche se non sapeva la sua lingua. Oggi aveva sentito dire che sarebbe salito sulla Torre Eiffel, e aveva cominciato a salire le scale, con una mezza intenzione di attaccare bottone. Ma per la prima volta in vita sua, Mary era stata vinta da una strana timidezza. E adesso, a metà strada, indugiava, parlando con un guardiano con il quale non sarebbe stato possibile parlare ragionevolmente ancora per molto.

«La mia stanza è proprio girato l’angolo…» disse il guardiano.

«Mi dica, cosa sono quelle scatolette grigie che corrono su per le travature?»

«Quelle? Immagino che siano le nuove macchine addette alla manutenzione. Vedo che hanno sostituito molte vecchie travi con altre nuove. Ma perché non parliamo un po’ di bustini? So che voi donne americane portate tutte il bustino. Mi dica…»

«Ma che cos’è quel grande tamburo di ferro, laggiù al centro?» chiese Mary. «Sambra una reticella per lampada a gas, cento volte più grosso. E tutti quei macchinari al centro? Non sapevo che nella torre Eiffel ci fossero tanti marchingegni.»

«Non lo so. E chi ci bada a questi dettagli tecnici, piccola mia? Parliamo piuttosto di…»

Dall’alto giunse un fievole grido.

«È caduto qualcuno!»

«Merde. E durante il mio turno. Sarà meglio che corra giù a tenere indietro la folla.»

Mary alzò gli occhi verso il corpo che precipitava verso di lei, un corpo fasciato da un’argentea tuta spaziale. Dunque si era buttato! Lei comprese tutto, in un lampo: si era buttato per amore! Una donna l’aveva spinto alla disperazione. Mentre lui le passava accanto, il bel volto pallido e rigido, Mary prese una decisione improvvisa.

«Aspettami!» gridò. E si buttò anche lei.

Lui aprì una cerniera lampo, e si aprì un grande paracadute tricolore. Mary fu tra le sue braccia.

«Tu!» esclamò lui. «La donna della foto! Ma tu conosci quel Barthemo Beele?»

«Sono sua moglie,» disse lei. «Temporaneamente. Cribbio! E tu come mai lo conosci?»

«È stato lui a spingermi! Questo è davvero il mio giorno fortunato,» disse lui. «Sfuggire miracolosamente alla morte e nel contempo incontrare la donna dei miei sogni… la donna che ho atteso per tutta la vita… e debbo tutto a tuo marito!»

Gli occhi gli si riempirono di lacrime di felicità. Mary trangugiò la pastiglia per la tosse e lo baciò.

Barthemo Beele guardò il puntolino che rimpiccioliva, con una certa soddisfazione da buon artista. Dopotutto, aveva impartito con successo il suo primo trattamento speciale. Era un po’ come superare un’iniziazione. Suggs sarebbe stato fiero di lui.

Una seconda figura minuscola saltò dalla torre e raggiunse la prima, e quasi nello stesso istante fiorì un paracadute colorato. Era possibile? Brioche era sfuggito al suo trattamento speciale?

«No! Non è giusto! Mi hai imbrogliato! Torna qui, truffatore di un mangiaranocchi! Torna indietro!»

La torre cominciò a tremare sotto di lui. Ci mancava solo quello. Sarebbe stato perfetto, se quella maledetta cosa fosse crollata con lui sopra. Era un’ingiustizia poetica.

Solo dopo un minuto o due si accorse che la Torre Eiffel non stava precipitando… tutto al contrario.

«Guarda la Torre Eiffel!» gridò Ron! «Come in Sette contro Marte, o Vennero dallo Spazio.»

«No! Ancora?» mormorò Kevin.

«Effetto della droga, uomo. Non vedo l’ora di arrivare a New York, e di provare con l’Empire State Building.»

Capitolo Ventunesimo

L’effetto Porteus

«Se voi foste regina del piacere Ed io fossi re del dolore.» SWINBURNE

Il dottor Smilax entrò in sala rianimazione proprio mentre Susie si stava svegliando. «Come si sente?» le chiese. Mentre le auscultava il polso, evitò lo sguardo della ragazza.

«Oh, dottore, mi fa tanto male la gola,» mormorò lei.

«È normale, nelle tonsillectomie,» fece lui, asciutto. «Sì, sì, tutti dobbiamo soffrire.»

«Ma non mi dispiace.» Lei lo disse in tono un po’ dubbioso, e poi il mento le tremò, mentre squittiva: «Sono così felice!»

Lui finse di studiare attentamente la cartella clinica.

«Non… non ha perso il rispetto per me, vero?» Gli occhi di Susie traboccavano di lacrime. Cercò di prendergli la mano, ma Smilax la tirò via.

«Ma no, certo… Susan. La rispetto molto. Davvero.»

«No, non è vero! Mi odia! Oh, sapevo che non avrei mai dovuto cedere! Le ho dato le mie tonsille e adesso… e adesso mi chiama Susan!»

Mentre il lamento si faceva più acuto, il dottore diveniva più irrequieto… come un cane bene educato quando sente suonare una sirena. Era chiaro che avrebbe preferito essere altrove. Le assicurò di nuovo che provava per lei il rispetto più profondo, ma la sua voce aveva una sfumatura d’impazienza, e le parlava guardando la parete.

«No, non è vero! Non le importa niente di me! Non mi guarda neanche!»

Smilax si girò a guardarla come un aracnologo guarda un esemplare che ha aggiunto da molto tempo alla sua collezione, e che dopotutto non è poi così interessante.

«Non la odio,» disse. «È lei che dovrebbe odiare me, e forse è questo che intendeva dire: che mi odia. Non la biasimo, mia cara. Ora capisco che non avremmo mai dovuto incontrarci. Sono troppo vecchio per lei.»

«Ma se ci amiamo, cosa conta l’età?» chiese lei, tirando su con il naso.

Smilax si avviò fuori dalla porta senza rispondere. Poi si fermò senza voltarsi a disse: «Ordinerò un’aeroambulanza per riportarla a casa.»

La ragazza girò la faccia verso il muro.

Era strano, pensò Smilax, che lei avesse avuto tanta importanza prima dell’operazione, mentre adesso non era altro che un paio di tonsille simmetriche. Seduto alla scrivania, rigirò il barattolo, osservando i due oggetti spugnosi con un distacco che lo sbalordiva. Era addirittura indifferente al piacere che aveva provato abbandonandola. Non gliene importava, ecco tutto.

C’erano tante cose importanti cui pensare, adesso. Poche ore prima era uscito dalla sala operatoria convinto di trovare Aurora Candlewood intenta a tormentare l’abbietto Grawk. Invece, non c’era traccia di nessuno dei due.

La console della cabina di controllo gli disse ciò che era accaduto: Aurora aveva liberato Grawk dalla gabbia, poi era fuggita grazie alla mentalità letterale del Sistema. Adesso era diretta a ovest, con 87 probabilità su cento di fermarsi al Laboratorio Wompler e 11 di proseguire fino alla California.

Smilax batté: «Dov’è l’aviere Grawk?»

«PRESUMENDO CHE AVIERE GRAWK SIGNIFICHI LA STESSA COSA CHE AVIERE DI TERZA CLASSE GRAWK, SI TROVA ALLE COORDINATE 555A31.996-B29.201H56, NORAD.»

«Come si chiama la stanza in cui si trova?»

«IL NOME DELLA STANZA È 402 O SALONE.»

«Che cosa gli è successo?»

«HA TENTATO DI MOLESTARE LA DOTT. CANDLEWOOD. È STATO DOMATO CON OPERAZIONE SPAVENTO E RIPOSA TRANQUILLAMENTE IN UN DIVANO-LETTO.»

«È morto?»

Dopo una pausa, durante la quale il Sistema indubbiamente controllò se Grawk era morto, la risposta fu: «NO.»

«Quindi imprigionalo secondo il Piano Issione.»

Erano trascorse diverse ore, e Smilax non era ancora andato a vedere il suo prigioniero. Normalmente sarebbe stato felice di trascorrere qualche ora piacevole tormentandolo, ma oggi era tutto diverso. Oggi la vita di Smilax aveva perso calore… Aurora Candlewood. Oggi. Oggi vi si era insinuato il gelo… l’effetto Porteus.

Era sconvolto perché Aurora lo aveva abbandonato così, ma ciò che spaventava veramente Toto Smilax era il modo con cui se ne era andata: Aveva imbrogliato con un trucco la mentalità letterale del Sistema Riproduttivo. E se era possibile imbrogliarlo una volta, il trucco poteva venire ripetuto due volte, una dozzina, un migliaio di volte. E il Sistema poteva venire ingannato anche in faccende più gravi, venire indotto a commettere errori fatali per se stesso… o per il suo creatore.

Se c’era una cosa che Smilax temeva, era che un giorno la sua creatura si ribellasse al creatore e UCCIDESSE. Tremava al pensiero degli innumerevoli precedenti. La narrativa abbondava di casi famosi, come Frankenstein e Russum (con i suoi Robot Universali), genii scorbutici, apprendisti stregoni e sciagurati patti col diavolo. Ma ancora più orripilante era la storia vera della famiglia Porteus, in cui i genii di otto generazioni erano stati assassinati dalle loro creazioni. Ora, non sapeva bene se per atterrirsi o per rassicurarsi, Smilax trasse dal cassetto segreto della scrivania una genealogia polverosa e lesse dell’effetto Porteus.

Sorvolando sul predicatore puritano Interest Porteus (1680–1720, il quale, dopo aver fatto bruciare 45 streghe, era rimasto accidentalmente impiccato su un nuovo patibolo di sua creazione), lesse di Nathaniel Porteus (1710–63), stampatore e inventore. Nathaniel aveva ideato una specie di rotativa che sfornava il giornale a rapidità doppia dei suoi concorrenti. Ma un giorno Nathaniel era scomparso.

L’autorità interpellaron varii Vicini, semmai avessero dessi udito o veduto alcunché di sospetto nel di lui stabilimento, e dessi dissero Nulla, eccezion fatta pel clangore dell’Infernale Pressa.

Smilax saltò Tertiary Porteus (1780–1840), inventore del pallone a vapore, e lesse di Emmet Porteus (1830-1891), il barbiere che aveva inventato una macchina automatica per radere. Una mattina era stato trovato nella sua bottega…

seduto sulla seggiola con una tovaglia attorno alla gola, che era squarciata. La stanza odorava di sapone, ed ogni ricettacolo ne traboccava. In verità, il pavimento stesso era coperto di schiuma colorata di sangue, per la copiosità di quella tremenda effusione. La schiuma aveva ricoperto il diabolico corpo metallico della macchina, che s’era rapidamente arrugginita, e più altro non poteva muovere che la mascella. L’aprì, e in un’orrenda parodia del suo padrone, mi domandò se parevami che la giornata non fosse abbastanza calda.

Quando Smilax ebbe richiuso la genealogia nel cassetto, ed ebbe bevuto un sorso di brandy medicinale, si riprese quanto bastava per scendere dove languiva il suo prigioniero.

«Buonasera, aviere Grawk,» disse allegramente. «Pronto per altri spassi?»

L’ex generale era stato infilato in una speciale tuta che gli lasciava libera solo la testa. Il resto era avvolto da cavi che scorrevano su pulegge e leggere molle. Il risultato era che, per quanto poco si muovesse Grawk, dava sempre energia al Sistema.

«Le verranno dati da mangiare cento grammi di cioccolata al giorno,» l’informò Smilax. «Cioè, se farà abbastanza lavoro per bruciare tante calorie. I giorni in cui il suo lavoro scenderà sotto il minimo, la razione verrà ridotta. Naturalmente non riceverà un premio se supererà il minimo. Cento grammi al giorno la terranno in forma, credo, per molti, molti mesi… forse addirittura per anni, anche se senza dubbio la sua mente ne risentirà.»

«Mi faccia uscire di qui!» urlò Grawk, agitando le braccia come una marionetta. Le tensioni delle molle erano regolate in modo che non poteva portare una parte del corpo a contatto con qualunque altra parte, e non poteva neppure afferrare i cavi. Grawk si infuriò e ballonzolò come una scimmietta giocattolo, invano.

«Aspetti e vedrà!» gridò. «Il governo degli Stati Uniti avrà qualcosa da dire in proposito!»

«Grawk, si direbbe che lei non capisca. Gli Stati Uniti non esistono più. Gli Stati Uniti appartengono al passato.»

«Cos’ha detto del mio paese? Senta, se non fossi legato in questo modo…»

«No, senta lei. Tengo a informarla, aviere Grawk, se non altro per renderla ancora più infelice.»

Mise in moto la registrazione di un recente giornale radio:

«Oggi, a Londra, la Società per la Protezione della Vita sugli Altri Pianeti ha tenuto un raduno di massa a Trafalgar Square, per accogliere, si è detto, le creature superiori che si stanno impadronendo del nostro pianeta. Queste creature benevole, che i membri della Società chiamando Guardiani Galattici, stanno prendendo il potere, si dice, per impedirci di scatenare una guerra disastrosa.

«Intanto, nel resto della città, migliaia di veicoli sono rimasti bloccati in un colossale ingorgo del traffico, causato sia dal funzionamento difettoso dei semafori diretti dai computer sia dalla comparsa di un numero senza precedenti di automobili funzionanti senza guidatori.

«A Parigi, il governo ha spiegato in parte la recente ascesa nello spazio della Torre Eiffel. Il Ministero dello Spazio ha ammesso di aver preparato il lancio, ma ha affermato che si è trattato di ‘un problema teorico per i nostri computer’. Non è stato spiegato come mai è stato realizzato il piano, ma si è fatta qualche allusione enigmatica a un possibile rapporto con il crollo del palazzo dell’ambasciata americana. Oggi il governo si dimette su richiesta dell’esercito, che a sua volta si sta sciogliendo.

«Il governo di Bonn ha ceduto al nuovo Partito Dadaista, che ha proclamato il proprio programma politico con due slogan: ‘Marmellata domani e marmellata ieri, mai marmellata oggi’ e ‘Ad ogni uomo il suo pallone da football.’

«A New York, il ponte di Brooklyn, il Verrazzano e il George Washington sono stati dichiarati pericolanti, dopo l’asportazione di piloni e travature di ferro ad opera di quelli che sono stati descritti come ‘vascelli non guidati da uomini’. In seguito al crollo di parecchi edifici centrali, l’isola di Manhattan viene ora evacuata attraverso i tunnel e per via d’acqua.

«Il Cremlino ha ufficialmente dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America, ma ha accettato di non bombardare il continente americano dato che si attendono da un momento all’altro le dimissioni del governo statunitense. È stata segnalata un’attività di missili, sia da parte americana che da parte russa, ma finora non si ha notizia di bombardamenti.»

Smilax spense il registratore. «Non ci saranno bombardamenti,» disse, orgoglioso. «I missili statunitensi non hanno testate nucleari. Sono dotati di capsule capaci di volare e di atterrare come aerei, e piene zeppe di cellule del Sistema Riproduttivo… quelle che lei chiamerebbe scatolette grige.»

«È una menzogna!» urlò rauco Grawk, agitando pazzamente in aria le gambe e le braccia.

«Così va bene, Grawk! Dia tutta l’energia che ha!»

Smilax rise fino a quando ritornò nel suo ufficio.

Però, quando sedette sulla poltrona da dentista e cominciò a trapanarsi una cuspide, il suo umore passò dalla gaiezza alla malinconia. Ma perché doveva essere così infelice? Perché aveva voglia di rovesciare indietro la testa e di ululare? Non stava per diventare Padrone del mondo?

La risposta era ovvia: non c’era una padrona con la quale dividere il suo regno. Ah, sì, quella era la ragione. Susie era tanto cara, ma… era solo una bambina, un semplice passatempo.

Ma Aurora Candlewood… ah, quella non era un gingillo, ma una donna. Sì, una donna appassionata, ne era certo, ma anche una scienziata, fredda come la lama di un bisturi, impersonale come l’elettricità. Sarebbe stato disposto a darle qualunque cosa… ma lei l’aveva abbandonato.

All’improvviso smise di trapanare e si piegò in avanti per sputare. Perché arrendersi così facilmente? Un cuore fiacco non… eccetera, dopotutto. Fino ad ora non le aveva rivelato i suoi sentimenti. Forse lei non aveva capito la profondità dei suoi sguardi.

L’avrebbe seguita! Sì! L’avrebbe corteggiata e assediata fino a quando lei avrebbe dovuto dirgli di sì.

Ma se lei non lo avesse detto? Se avesse rifiutato? Scacciò quel pensiero. Aveva tutto il tempo di immaginare ciò che avrebbe fatto se lei l’avesse respinto. Ciò che avrebbe fatto a se stesso… e al mondo.

Capitolo Ventiduesimo

I fratelli Frankenstein

«Sia che possiamo o non possiamo conservare un certo controllo sulle macchine, presumendo che lo vogliamo, la natura delle nostre attività ed aspirazioni verrebbe cambiata completamente dalla presenza sulla Terra di esseri intellettualmente superiori.»

M.L. MINSKY in Scientific American

«Sono divenuto sempre più e più certo,» esclamò Brian Gallopini, «che non soltanto questo Sistema Riproduttivo ha il diritto d’esistere, bensì anche quello di prosperare, in quanto esso è, in molti sensi, erede della Terra più legittimo di noi. Osservate: è più robusto, più grande, capace di riprodursi meglio e più rapidamente che non sia l’uomo. È intelligente come l’uomo, ma certamente più svelto di spirito. Enfin, non ho dubbi che sia di moralità incorruttibile e dotato, a giudicare da quanto è accaduto a Harry, anche di giustizia poetica.»

Carichi di sacchi di provviste, i tre viaggiatori erano appena scesi dal camion nei pressi di Millford, Utah, e stavano salendo una gran rampa metallica che portava nella cittadina.

«E là ove sia la giustizia poetica, deve esserci anche un poeta per cantarla:

«Chi con imparzial occhio vede, come Dio, perir l’eroe o un passero cadere, Atomi e sistemi scagliati in rovina ed or scoppiare una bolla, ed ora un mondo.

«Io penso che questo Sistema Brobdingnagiano contenga più giustizia e saggezza di mille poeti… più di quante ve n’abbiano riversate i suoi creatori,» continuò, volgendo lo sguardo acquoso da Daisy a Cal. «Ed or mi chiedo se la nostra missione qui non sia un errore. Darsi non può che condanniamo a morte uno spirito più nobile del nostro? O più meritevole di vita?»

Cal si schiarì la gola. «Non sono affatto sicuro che noi possiamo far qualcosa, qui,» disse. «E preferisco pensare che ci limitiamo a spegnere una specie di elettrodomestico. È solo una misura temporanea, dopotutto, fino a quando impareremo a controllare il Sistema.»

«È appunto questo,» disse il Professore. «È giusto che noi lo controlliamo? Non può darsi che i nostri meschini fini umani disonorino e contaminino questa prodigiosissima macchina? Non può darsi che noi abbiamo a distoglierlo dal suo vero destino… dall’Armonia Suprema con l’Universo? Dopotutto, è una colonia di creature superiori in ogni aspetto.»

«Sembra superiore,» ammise Cal, indicando il Laboratorio Wompler, da cui usciva un flusso continuo di scatole grige. Non c’era traccia di cavi elettrici, di fumo, di polvere o di rumore. «Quella, per esempio, è la mia concezione di una fabbrica perfetta. Ma la superiorità non dovrebbe essere qualcosa di più della semplice efficienza? E se noi la fermiamo, non ci dimostriamo superiori, almeno nella capacità di sopravvivere?»

«Sofisma!» gridò Brian. «È peccaminoso, sì, peccaminoso manomettere la perfezione razionale. Il Sistema Riproduttivo è l’incarnazione di tutto ciò che è giusto e ragionevole. Non può, non deve esser sminuito dalle nostre teorie vessatorie. Se posto non v’è per l’uomo, ebbene sia! L’uom si faccia da parte, acciocché il suo successore più grande e più perfetto aver possa lo spazio per crescere!» Estraendo il fazzoletto macchiato di tabacco da fiuto, si soffiò il naso con un gesto vigoroso e collerico, poi precedette gli altri nel Laboratorio Wompler.

«Mani in alto!» gridò una voce debole e lontana. «Mettetevi contro al muro!» Dopo essersi guardati intorno, i tre scoprirono che la voce usciva dalla bocca di un giovanotto magro e dall’aria famelica in uniforme dei Marines, seduto sul pavimento ai loro piedi. Sembrava stesse cercando di districare qualcosa che portava al fianco, e alla fine riuscì a estrarre un’automatica calibro 45. Lentamente, reggendola con entrambe le mani, alzò la pistola per puntarla contro di loro. L’arma tremò per un secondo, poi cadde sul pavimento. Il giovanotto lanciò gemiti dolorosi e assunse un’espressione triste. «Non potete entrare senza un lasciapassare,» disse, con quella voce debole e lontana.

«Ecco.» Daisy prese la pistola offrendo in cambio un budino pronto alla cioccolata prelevato dal suo sacco di provviste. Brian prese la pistola e la infilò in una delle tasche della giacca, mentre Daisy scoperchiava il bicchiere del budino per il giovane Marine.

«Chi è lei?» chiese Daisy alla sentinella. «E cosa ci fa qui, poverino?»

«Non dirò altro che nome, grado e numero di matricola,» rispose quello, addentando imbronciato il secondo budino pronto.

«Ce la fa a camminare, se l’aiutiamo noi?» domandò Cal.

«Io resterò qui finché non verranno a darmi il cambio!»

Il Marine fu incrollabile. Dopo una consultazione, nel corso della quale Brian lo definì «cucciolo pertinace», i tre divisero le provviste in quattro parti, gliene lasciarono una, e si avviarono per i corridoi tortuosi, sempre più depressi.

L’edificio sembrava completamente deserto. Cal non riuscì a smuovere la porta della mensa, che lasciava filtrare un liquido freddo e untuoso.

Salirono al piano di sopra, dove il corridoio semibuio era rivestito di rozze lastre di ferro. Nel pavimento erano stati scavati due solchi paralleli, per ragioni inspiegabili.

«È spaventoso,» bisbigliò Daisy, guardando le pareti scagliose. «Non c’è anima viva da nessuna parte.»

«Arte,» sospirò l’eco in fondo al corridoio. C’era silenzio, a parte un lieve sgocciolio d’acqua, in lontananza.

«Andiamo da questa parte,» fece Cal. «Il laboratorio è l’ultima sala in fondo al corridoio, sulla destra.»

«Amo, arte, oratorio, ala, destra,» fremette la liquida eco, che ripeté il suono dei loro passi quando arrivarono in fondo al corridoio buio e aprirono una porta.

Un fulgido chiarore fluorescente filtrò sul pavimento butterato dalla ruggine e scintillò sui solchi gemelli.

«Ehi, c’è qualcuno?» gridò Cal.

Puntando un dito tremante verso l’angolo della sala, Daisy disse: «Sì e no.»

Quando si fermavano, erano totalmente immobili, e quando si muovevano lo facevano con tale guizzante velocità e precisione che era impossibile scambiare per esseri umani quelle due figure corazzate. Erano identici, con teste grandi e squadrate, e tubi catodici al posto delle facce. Si muovevano con agilità inumana nel silenzio assoluto, svolgendo mansioni di cui Cal poteva solo cercare di indovinare la natura. Portavano i rossi distintivi d’identificazione di Kurt e Karl Mackintosh.

Evitando i tre umani come i pipistrelli evitano gli ostacoli, virarono elegantemente, pattinando senza cambiare velocità. Ora uno portava una provetta fumante a una centrifuga, mentre l’altro manovrava un quadro di comandi per controllare gli apparecchi. Uno corse a una tastiera e batté, a velocità abbagliante:

11011 L’ALTA GRAVITÀ INCLINA IL BICCHIERE

11012 IL TOROIDE DI FERRO CONSERVA LE PROPORZIONI MENTRE SI ESPANDE

11013 L’AUTISTA DEL CAMION HA TORTO

11014 AE2 PIÙ BE2 EGUALE CE2

11015 DEFINIZIONE: (NON FORARE O INCENERIRE) SIGNIFICA (NON FORARE) E (NON BRUCIARE) E (NON FORARE E BRUCIARE)

11016 L’OLIO GALLEGGIA SULL’ACETO

11017 GIÙ È TALVOLTA NELLA DIREZIONE DELLA GRAVITÀ

11018 KWALITEIT, HOE WORDT DIE GEMETEN?

11019 CAPPELLO: TESTA = SCARPA: PIEDE

11020 MILL, JOHN STUART (1806-73): FILOSOFO ED ECONOMISTA.

Nello stesso tempo, l’altro cominciò a scrivere numeri ed equazioni su di una bizzarra tabella di rame, servendosi di uno stilo. Stilo e tabella erano collegati alla parete da cavi elettrici.

Ogni tanto una delle due figure si rivolgeva all’altra e mostrava sullo schermo facciale una serie di numeri. Altrimenti, pareva che i due non conversassero, e che non ce ne fosse bisogno, perché si aggiravano agilmente in quello che pareva quasi un balletto d’ordine e d’armonia. Quando avevano finito un passo o una procedura, le aperture rotanti sopra le loro teste si giravano verso il quadro di una console in fondo alla sala, ma non appena quello illuminandosi mostrava la scritta BRAVO, il balletto riprendeva.

«Sbalorditivo e bellissimo,» mormorò il Professor Gallopini. «Rinuncerei volentieri alla mia vita criminosa pur d’apprendere come funziona tal macchina prodigiosa.»

«E io darei parecchio pur di sapere come spegnerla,» fece Cal, guardandosi intorno sbigottito. «Non riconosco nessuna delle apparecchiature che avevo viste qui. Se il Sistema si può metamorfosare così in fretta…»

«Metamorfosare? Ah, sì,» disse Brian, guardandosi intorno con un sorriso. «Il metallo trascende se stesso. Questi automi squisiti ricercan l’equilibrio, così come la Terra ricerca di divenire una sfera perfetta, e l’universo diviene sempre vieppiù ordinato.»

«Che buffi, quei robot!» osservò Daisy. «Hanno le orecchie di ghisa! E non hanno la bocca!»

«Né le bocche occorron loro,» insistette Brian. «Questi sono gli uomini di domani! Questi sono gli eredi della Terra! Questi son gli Übermensch, gli equilibristi, i dinasti!» E protendendo le braccia verso i robot indaffarati, declamò: «Uomini del futuro, noi che stiamo per estinguerci vi salutiamo!»

Senza dar segno di aver sentito il suo discorsetto, le due macchine eseguirono il loro nuovo compito. Una aprì la porta del laboratorio, l’altra sollevò Brian Gallopini e lo depose, in piedi, nel corridoio. Prima che Cal e Daisy potessero fare commenti, subirono un trattamento analogo.

Adesso il corridoio era tutt’altro che buio e tutt’altro che silenzioso. Una fila di tubi fluorescenti lungo il centro del soffitto lo illuminava in tutta la sua lunghezza, mentre c’era un rombo profondo, terribile e assordante, che trasformava in cembali pavimento e pareti. Ben presto divenne così forte che i tre non ebbero neppure il tempo di chiedersi cosa significava. Poi la parete di fondo del corridoio si aprì come una tenda, e il muso di un’enorme locomotiva a vapore avanzò rombando verso di loro.

Avanzava a una velocità non superiore a un chilometro e mezzo all’ora, sputacchiando vapore sibilante, e procedeva ineluttabile verso il loro cul-de-sac. Stava frenando, e le ruote facevano guizzare fuoco dalle scanalature, slittando e girando a rovescio, ma la locomotiva non sembrava rallentare affatto.

Lanciandosi l’uno all’altro urla di avvertimento che in quel frastuono era impossibile sentire, i tre compagni spinsero la porta del laboratorio, loro unico possibile rifugio. Riuscirono a smuoverla solo di pochi centimetri, quanto bastò perché Cal potesse intravvedere i due robot che tornavano a chiuderla. Lo schermo d’uno di essi mostrava un’immagine della faccia divertita di Karl; l’altro, la faccia del suo gemello. I muscoli metallici si mossero, e la porta si chiuse nonostante tutti gli sforzi dei tre umani.

Daisy si girò di scatto verso Brian e gridò, senza che nessuno la sentisse: «Be’, preparati a un altro esempio di giustizia poetica.»

I tre arretrarono contro la parete di fondo del corridoio, e guardarono il Vecchio Numero 666 che continuava ad avanzare verso di loro.

Capitolo Ventitreesimo

Orbitorio

«Presto prevalgon l’ombre della sera, la Luna narra la splendida favola; Ogni notte, alla Terra che l’ascolta ripete la storia della sua nascita.»

ADDISON

Talvolta, a Suggs sembrava che l’uomo seduto di fronte a lui, al tabellone del Monopoli, non fosse Vetch, ma qualcun altro. La faccia barbuta del piccolo russo si trasformava lentamente in quella di altre persone dimenticate da molto tempo, qualcuno che l’agente Suggs aveva ucciso, o aveva desiderato uccidere… ma adesso Suggs voleva uccidere se stesso, e l’agente nemico glielo impediva.

Suggs aveva pensato per tutto il giorno a suicidarsi in segreto, a uccidersi proprio sotto gli occhi di Vetch aprendosi una vena dentro la tuta, oppure… ma era inutile, il russo interveniva con troppa rapidità. Nessuno dei due osava addormentarsi, per paura che l’altro ne approfittasse per uccidersi. Vetch non batteva neppure più le palpebre da parecchie ore.

L’insonnia sconvolgeva la mente di Suggs, e lui lo sapeva; e l’imponderabilità irritava il suo corpo. Tirava con forza, contro le cinghie, oppure premeva contro i cuscini soffici, quasi per provare a se stesso la propria esistenza. Non si sentiva più concreto di uno spettro.

Haroun Al Raschid sedette davanti a lui e cominciò subito a parlare, muovendo in modo espressivo le grasse mani ingioiellate, ma senza far rumore. Stavano viaggiando sul Reading, pensò Suggs, oppure sull’Orient-express.

«Sono disorientato,» spiegò a Haroun. Ma l’uomo grasso continuò a parlare, a parlare, senza rendersi conto che le sue parole non avevano suono, e ignaro della macchia purpurea che si allargava sul petto della camicia di seta chiara.

Vetch era finito con il suo segnalino su Imprevisto. Era stato l’ultimo tiro? Suggs non lo ricordava; non ricordava neppure quanti giorni erano passati da quando… da quando che cosa?

La faccia di Vetch continuava a trasformarsi in quella di Scotty, con i lineamenti straziati spruzzati di sangue e di frammenti d’osso.

«Mi hai proprio imbrogliato con quella macchina da scrivere truccata, vecchio mio,» mormorò. «Era un bel trucco, Suggsy.»

Se avesse parlato a Vetch, pensò Suggs, forse Scotty se ne sarebbe andato.

«Ti ho mai raccontato come ho ucciso il mio primo collega a Marrakech?»

«No, non mi pare. Racconta.»

«È stato molto buffo. Avevo una macchina da scrivere portatile truccata, con il carrello che era una specie di canna cava, e poteva sparare una pallottola da fucile. Per sparare bisognava premere il tasto del punto di domanda.»

Scotty parlò, e dalle labbra gli uscirono bollicine appiccicaticce di sangue. «La domanda è: perché?»

«Faceva il doppio gioco,» disse Suggs in tono stridulo. «Sapevo che era stato lui a farsi dare da Haroun l’altra metà della fotografia di Brioche. Stavano cercando di imbrogliarmi e di vendersi ai… a voi.»

«A noi? No,» disse Vetch. «Credevo che lo sapessi. L’altra metà della foto non è mai esistita. La vanità di Brioche, vedi. Lui non permetteva che nessuno avesse una foto di quella che chiamava ‘la sua metà peggiore’. Credevo che lo sapessi.»

«Lo sapevi, Suggsy, ma non volevi ricordartene,» ridacchiò Scotty. «Questa è la parte più buffa. Tu volevi solo un pretesto per ammazzare un paio di persone, no?»

«Il mio collega,» disse Suggs, fingendo di non averlo sentito, «vorrebbe scapolarsela ancora adesso. Ma non gli permetterò di cavarsela. Sono contento di averlo ammazzato, e se adesso fosse ancora vivo, lo ammazzerei di nuovo. Credo che sia stato lui a convincerla.»

«Ha convinto chi a fare che cosa?» chiese Vetch.

«Ha convinto mia moglie a chiedere il divorzio.»

Ridendo, Scotty si trasformò impercettibilmente in Vetch. Suggs si sentì prendere da un tremito incontrollabile alla gamba sinistra. Pensò all’impermeabile che aveva lasciato a Marrakech, e maledisse quella dimenticanza. In una spallina c’era cucita una capsula di cianuro.

Attraverso il vetro colorato del casco, lo sguardo folle di Vetch era piantato negli occhi di Suggs. Vetch non parve sentire neppure quando bussarono al portello.

Il portello si aprì ed entrò Barthemo Beele, con la visiera in mano. Dovette chinarsi perché il soffitto era basso; si portò sulla destra, fino alla poltroncina dove stava Vetch, e si sedette in lui. Con un sogghigno un po’ vergognoso, cominciò a schiacciare l’orlo della visiera.

«Almeno te non ti ho ammazzato,» ringhiò Suggs.

«Lo avresti fatto, se fossi rimasto ancora in circolazione, capo,» disse il giovane. Lasciò cadere il tesserino stampa che fluttuò verso il pavimento.

«È stato uno sbaglio, Beele,» disse Suggs con una risata cattiva. «Hai dimenticato che qui non c’è gravità. Gli oggetti non cadono.»

«Io ho dimenticato? In quanto a questo, lo sbaglio è stato tuo,» disse educatamente Beele. «Sono una creazione della tua immaginazione insonne oppure no?»

«Posso accertarmene.» Suggs allungò la mano per prendere la pistola, poi si rilassò e rise di nuovo. «No, ti piacerebbe, vero? Ammazzarei Vetch, ed è questo che tu, la mia mente inconscia, vuoi che io faccia.»

«Riprova a indovinare,» disse Beele, abbassando la voce. «Vetch è morto da ore, e tu lo sai.»

Il suo sorriso svanì nella smorfia di Vetch, e il tesserino stampa che aveva tra le dita diventò una carta arancione dell’Imprevisto. La faccia del russo era bluastra, e sulle labbra c’erano le vescicole causate dal veleno.

«Mi venga un accidente!» Suggs si batté la mano sul ginocchio. «Vetch, me l’hai fatta, e proprio davanti a me!»

Il cadavere lo guardò sprezzante. «E adesso cosa farai?» chiese. «Povero figlio di puttana.»

«Trasmetterò per radio la notizia della tua morte e poi… Non so bene.»

Tradusse in codice il suo messaggio e lo trasmise: «IVAN MORTO. SEGUONO NASTRI DI REGISTRAZIONE.»

Non era necessario aspettare la risposta. Sapeva cosa gli avrebbero ordinato di fare. Vai all’inferno. Vai direttamente all’inferno. Senza passare da Dio. Lui chiuse la tuta, agganciò una nuova bombola di ossigeno, e uscì dall’astronave. Dopo essere rimasto aggrappato per un istante, indeciso, si diede una spinta e si staccò. A quella distanza la Luna era più splendente, ma gli sembrava come sempre noiosa e indecifrabile. Si appisolò, chiedendosi se si stava allontanando o avvicinando alla Luna.

Si svegliò cercando di ricordare se aveva finito di fare il bilancio del suo conto in banca. Provvide a farlo, visualizzando le file ordinate delle spese in una griglia…

Si accorse che vedeva una torre, molto simile alla Torre Eiffel, la quale gli stava passando accanto lentamente. Era straordinariamente reale. Sulla piattaforma più alta riusciva persino a distinguere la minuscola figura raggelata di un uomo che si aggrappava con le mani alla ringhiera. Chissà per quale ragione, l’uomo aveva una visiera verde. Suggs si addormentò.

Si svegliò cercando di ricordare se aveva finito di fare il bilancio del suo conto in banca. Lo fece subito, decidendo saggiamente di non procrastinare. L’ossigeno stava per finire, perché pensare era diventato difficile.

Sguainò il coltello e tese il braccio. Era venuto il momento di fare un bel discorso sul suo spirito di sacrificio, ma la sua mente a corto d’ossigeno andava rallentando. C’era solo una frase che Suggs riusciva a ricordare:

«Prendi questo, lurido…!»

Le cartoline erano così banali che dovevano per forza essere cifrate, ma era evidente che non lo erano. Dopo aver staccato i francobolli per la collezione del nipotino, l’addetto all’ufficio cifra russo consegnò Buddy all’inceneritore.

Capitolo Ventiquattresimo

Il tempo e la sorte

«La mia mente sembra divenuta una specie di macchina che macina leggi generali estraendole da una immensa raccolta di fatti.»

DARWIN

Cal sentì una maniglia, sulla parete dietro di lui. La girò, e una porta di sicurezza si aprì, rivelando un nuovo tratto di corridoio. I tre compagni si precipitarono lì dentro, e la locomotiva li seguì ad andatura più dignitosa.

La prima porta che cercarono di aprire era già aperta. Mentre entravano, Daisy e Cal si scambiarono un sorriso di sollievo. Ma la fronte di Brian restò aggrottata mentre egli guardava le ruote ed i piedi dell’avanzante locomotiva.

Le ruote giravano all’incontrano, lanciando scintille. Dietro la locomotiva, una fila interminabile di vagoni scricchiolò e cigolò arrestandosi. Tra gli sbuffi del vapore, scese un macchinista con gli occhialoni, si tolse un guanto tutto unto, e aiutò una donna giovane e bella a scendere.

«Caspita!» il macchinista fischiò. «Poco è mancato che veniste trapassati sul posto. Sarebbe stata una vicissitudine infortuita.»

«Dottor Trivian!» gridò Cal, guardando la faccia occhialuta e impastata di sabbia. «È proprio lei?»

«Perdiana, ma è Calvin Potter!» Trivian gli afferrò la mano. «Questa è veramente un’occasione temeraria, ragazzo mio.»

«Ma cosa ci fa, qui, tanto lontano dal MIT?»

«Sto realizzando il sogno della mia vita: guidare una locomotiva a vapore. Cioè, in realtà a guidare è la piccola scatola grigia, ma io ho il diritto di dare suggerimenti… che non vengono mai ascoltati.

«Ma mi scordavo, o scordavo la mia passeggera, il che non è la stessa cosa, eh? Dottoressa Aurora Candlewood, posso presentarle un mio ex allievo, Calvin Potter?»

Lei era alta quasi come Cal, snella, con mani e piedi molto minuti, seni piccoli, e il collo esile e arcuato, da danzatrice. Eppure c’era una voluta goffaggine nei suoi movimenti, come se facesse apposta a nascondere la sua grazia naturale tenendo sempre il corpo in posizioni rigide e sgraziate. La sua mano era fredda.

Cal ricordò fulmineamente di essere spettinato, di avere gli abiti infangati e la faccia sudicia. Un improvviso, rabbioso prurito gli trafisse il mento, dove una barba neonata, dura e a chiazze, si aggrappava disperatamente come un lichene a una roccia sgretolata. Meccanicamente, presentò Aurora e Triviali ai suoi compagni.

Brian si chinò imbronciato e taciturno come un orologiaio sulla mano di Aurora.

«Gli estranei mi chiamano Miss le Duc,» disse Daisy al macchinista. «Gli amici mi chiamano Daisy. Ma per rimanere miei amici bisogna resistere alla tentazione di chiamarmi Daisy Duck, come Paperina.»

Aurora spiegò il suo interesse per il Progetto 32 e la ragione per cui era venuta al Laboratorio Wompler. Si mostrò sollevata quando scoprì che Cal sapeva qualcosa del funzionamento del Sistema Riproduttivo, dal livello della cellula individuale in su.

Brian annunciò che andava a «scoprire che ore erano», e se ne andò per una porta che portava in un secondo corridoio.

«Sì,» disse Trivian. «Lasceremo voi due scientifici alle vostre parlamentazioni. Miss le Duc, posso offrirle il braccio?» E si avviarono dietro al gangster.

Aurora e Cal evitarono di guardarsi in faccia mentre lei gli raccontava le sue avventure con Smilax al NORAD, e gli diceva che il dentista pazzo dominava il Sistema Riproduttivo.

«Smilax lo domina? Uhm. Chissà come fa.»

Cal raccontò la propria esperienza con il sistema, all’inizio, a Las Vegas e sulla via del ritorno. Dopo avere accennato all’apparente trasmissione delle caratteristiche acquisite, alle occasionali mutazioni abortite, e alle sue manifeste tendenze kenogenetiche, aggiunse che si era accorto di amarla.

«Capisco.» Aurora si accinse a considerare seriamente tutti gli aspetti del problema. Lui aveva qualche dato sul ritmo di riproduzione del Sistema? Sui limiti del suo apprendimento? E non era forse vero che molti di coloro che credevano di essere innamorati in realtà non lo erano?

Lui le disse ciò che sapeva del QUIDNAC, e aggiunse che sperava di poter ottenere la sua mano.

Aurora, arrossendo, discusse il condizionamento operante e reattivo, e spiegò che le modifiche di un tipo di comportamento potevano influenzare tutto il comportamento di un organismo, come nell’apprendimento del ragionamento astratto.

Poi espresse la speranza che il Sistema potesse venire costretto a «comportarsi bene»: 1) stabilendo un rapporto; 2) diventando nei suoi confronti genitori buoni ma severi; 3) incanalando le funzioni del Sistema verso fini utili all’umanità; 4) stabilendo modelli di comportamento e un metodo di premi e di punizioni per guidare il Sistema. Dei quattro, il punto 1 era il più difficile.

«Se almeno sapessimo come fa Smilax a controllare il Sistema,» disse Cal, «in qualche modo potremmo sostituirci a lui.»

«Il riconoscimento è un tipo di comportamento difficile da analizzare,» spiegò lei. «Poiché, in molte persone, è al limite della coscienza. Noi riconosciamo un amico anche vedendolo in una luce diversa, da angolazioni strane, in distanza, o con l’aggiunta di un paio di baffi.»

«Oppure anche se è invecchiato o ingrassato, sì. Ma il Sistema ha una mentalità letterale, ed è difficile che sappia fare tutto questo. Tendo a credere che Smilax adoperi una specie di distintivo o di parola d’ordine per identificarsi… qualcosa di unico.»

Aurora non ne era tanto sicura. «Non può trattarsi di un oggetto di cui altri potrebbero impadronirsi, o che si potrebbe perdere. Tendo a credere che si tratti di qualcosa di più positivo, come le impronte digitali o della retina, o la configurazione dell’orecchio.»

Poi aggiunse che avrebbe preso in considerazione la sua domanda di matrimonio, e che avrebbe preferito rispondere in seguito.

Cal stava per farle osservare che poteva anche non esserci un seguito quando, da lontano, Daisy urlò.

«Resti qui,» ordinò Cal, e corse via.

Ad un certo punto, Elwood Trivian aveva svoltato dalla parte sbagliata. Stava camminando a braccetto di Daisy; si erano lasciati per passare ai due lati di una colonna, e un attimo dopo lui s’erano trovato solo.

Per giunta, era solo all’intersezione di due corridoi deserti, che si estendevano per centinaia di metri. Non sapeva decidersi a scegliere. Poi, dopo un attimo di esitazione, si avviò verso sinistra.

All’improvviso, il pavimento gli mancò sotto i piedi. Brancolando e cercando di afferrarsi all’aria, Elwood precipitò nel buio, cercando di ricordare una preghiera della sua infanzia: «Benedetto…»

Piombò nell’acqua e andò a fondo, trattenendo il respiro. Ma non era acqua: era qualcosa di untuoso ed amaro. Risalì alla superficie e riprese fiato.

Che specie d’incubo era mai quello? Gli pareva di galleggiare su un lago di caffè freddo, verdastro, leggermente viscido. C’era un po’ di luce che proveniva da chissà dove, e c’era un soffitto, circa un metro e mezzo sopra la sua testa. E nulla, in tutte le direzioni, nulla tranne le onde brusche. Cominciò a nuotare nel caffè, sballonzolando come un mozzicone di sigaretta.

Brian puntò una pistola calibro 45 verso Cal e Daisy. I capelli radi, color polvere, erano scarmigliati, e nei suoi occhi c’era uno strano sguardo subdolo. Era acquattato al centro della stanza, accanto a un mobiletto metallico.

«State indietro, tutti e due. Non le son cose che vi riguardino.»

«Che cosa non ci riguarda?» chiese Cal. «Che cos’è successo, Professore?»

«Non è successo niente. Al contrario, tutto va benissimo! Il tempo… gli auspici…» Indicò il mobiletto metallico che, ad intervalli, vomitava una cinquantina di centimetri di carta. «E guardate l’Orologio della Vita!» Brian alzò la testa.

Cal vide che il soffitto della stanza rotonda era un grande quadrante d’orologio del diametro di circa quindici metri. La lancetta dei minuti si muoveva visibilmente per raggiungere quella delle ore sulle dodici, mentre la lancetta rossa dei secondi correva in silenzio. Daisy si rannicchiò contro la parete, sotto le XII, mentre Cal la seguiva lentamente, allontanandosi dalla porta che stava sotto le III.

Vedendo quel movimento, Brian si girò di scatto e sparò. Uno sbuffo d’intonaco si staccò dalla parete a una spanna dalla testa di Cal.

«Fermi, ho detto! Nulla si deve muovere, tranne l’orologio.» Alzò la testa per guardarlo e sorrise. «Regolato sul perfetto meccanismo del nostro universo… messo in moto una volta, per tutta l’Eternità!» Mormorò qualcosa d’incomprensibile, poi:

«Il tempo vola, sapete… sulle ali degli orologi… il tempo è danaro, pagate e tentate la sorte… gira e gira e gira la pallina, e dove si ferma… sì, il tempo deve fermarsi… il tempo e la sorte esistono per tutti…»

«O Dio! Gli ha ripreso il suo vecchio male!» disse Daisy, distogliendo la testa. «Giochi d’azzardo, orologi, quadrati magici… è stata la sua ossessione per anni, credevo che se fossi riuscita a portarlo via dall’università, dal pensiero del diciottesimo secolo che sembra un meccanismo a orologeria, lui sarebbe guarito. Ma credo che la delusione a Las Vegas e poi la morte di Harry, abbiano sconvolto il suo equilibrio mentale…»

Brian rise, aspramente. «Che ne sapete voi dell’equilibrio? Oppur della fuga? Oppur…»

«Brian, ascoltami! Sono Daisy! Non mi riconosci?»

Un rintocco assordante incominciò ad annunciare l’ora. Accanto a Brian si aprì un pannello. Lui esitò solo un secondo, poi si buttò dentro.

Daisy urlò. Poi, sebbene Cal tentasse di portarla via, corse sull’orlo dell’apertura e guardò dentro.

Ciò che accadde poi dovette essere una malignità da parte della macchina, perché la lancetta rossa dei secondi cominciò ad abbassarsi, mentre continuava a girare, puntando direttamente verso la testa di Daisy. Lei sembrava troppo inorridita da ciò che vedeva per accorgersene.

Precipitandosi verso di lei, Cal gridò: «Daisy, giù!»

«Perché mi ha chiamata?» Lei si girò per lanciargli un’occhiata sdegnosa, e la gigantesca lancetta dei secondi la colpì alla testa. Daisy precipitò oltre l’orlo, e scomparve.

Cal corse al pannello che si stava chiudendo e guardò giù. Non vide altro che miriadi di ingranaggi d’ogni genere, che giravano imperturbabili. Alcuni erano macchiati di rosso.

Elwood Trivian sonnecchiava e continuava a nuotare nel caffè, e sognava la sua locomotiva. Il Las Vegas Express continuava a trasformarsi in una macchina per l’espresso, e lui non riusciva a separare l’una dall’altra le due scatole che lanciavano sbuffi di vapore…

Quando si svegliò, due uomini lo stavano tirando fuori dal lago, issandolo sulla loro zattera fatta di tavolini da mensa. Un uomo era così grasso e l’altro così spaventosamente magro che sembravano quasi far parte del suo sogno. Solo l’odore del caffè gli ricordava che quella era l’orribile realtà.

«Ehi, Papà,» disse l’uomo grasso. «Ha l’aria affamata.» E cominciò a sfogliare le pagine d’una rivista. L’uomo magro non pareva badare ad altro che al suo compito immediato: agitare i piedi penzolanti da una estremità della zattera per farla avanzare sul caffè.

«Ecco qua, amico, magari mangi di buon appetito,» disse l’uomo grasso, strappando l’illustrazione d’un roast-beef e consegnandola a Elwood. «Ce n’è ancora tanto, dove l’abbiamo trovato.» Il macchinista restò seduto con il foglio in mano, stordito, a guardare il grassone che divorava illustrazioni di torte e focacce.

«Caffè?» Immerse un sudicio bicchiere di carta nel lago, accanto ai piedi che si agitavano e glielo offrì. Elwood scosse il capo. «Lo so, lo so. Il caffè rende così nervosi che poi non si mangia tranquilli. Io preferisco il cibo solido.»

La poltiglia masticata delle pagine gli colava lungo il mento in costante, lento movimento.

La stanza in cui Aurora era rimasta ad aspettare sembrava un magazzino. Lungo le pareti c’erano armi e apparecchiature elettroniche. C’erano anche dei mobili, una scrivania con il coperchio scorrevole in un angolo, e un grande orologio a colonna di fronte alla porta. Aurora lo guardò mentre un altro orologio, distante e più grande cominciava a suonare. Dopo pochi secondi, l’orologio a colonna ronzò ed emise note tintinnanti. Uno, due…

L’orologio a colonna, a casa sua, non funzionava mai, sebbene suo padre tentasse spesso di aggiustarlo. Non funzionava neppure il giorno in cui lui era morto.

All’inchiesta si era accertato che si era trattato di morte accidentale, dovuta al cattivo funzionamento d’una delle sue invenzioni, una campana per immersioni. Aurora cercò di non commuoversi al ricordo. Dopotutto, quello era un mondo dove gli orologi funzionavano e i treni correvano, e la gente correva per prenderli. Non era un mondo per i perdenti, fossero agricoltori-sognatori di mezza età o giovani, idealisti assistenti di laboratorio, come Cal.

Ovviamente, Cal era un perdente. Era l’uomo, e Aurora lo sapeva, che finisce a quarant’anni a gestire un distributore fallimentare di benzina lontano dal casello dell’autostrada. E che, poco prima di chiedere il fallimento, viene ucciso da un bandito deficiente per i 2 dollari e 12 che ci sono in cassa. Probabilmente non c’era nulla che Cal sapesse far bene.

Lei pensò che molto probabilmente lo avrebbe sposato.

undici, dodici.

La cassa dell’orologio a colonna si aprì come un sarcofago. Il dottor Smilax ne uscì e la prese fra le braccia. Aurora urlò.

Capitolo Venticinquesimo

I rivali

«O Fratelli e Sorelle, v’ingiungo di non dare il vostro cuore a un cane per farvelo straziare.»

KIPLING

«Non urli, mia cara,» ansimò Smilax, quando Aurora si svincolò. «Non voglio farle del male. Anzi, la stimo più di tutte le altre donne di questo mio mondo.»

«Vorrà scherzare.» Lei si spostò adagio verso la porta.

Smilax le bloccò la strada. «Ah, come potrei scherzare con il suo cuore? Preferirei buttarmi sotto le ruote d’una macchina,» gemette. Le afferrò la mano e cominciò a baciargliela ardentemente. «Voglio essere il suo… il suo migliore amico. Seguirò i suoi passi come un cane, fino a quando mi dirà di sì. Cara dottoressa Candlewood, sia mia… e il mondo sarà suo!»

Lei liberò la mano, disgustata, e gli voltò le spalle. Smilax le afferrò il polso e la fece girare di nuovo verso di lui. «Debbo inseguirla?» abbaiò. «Debbo implorare e minacciare? Parli! Mi parli!»

Poiché lei non diceva niente, Smilax continuò, arricciando le labbra e scoprendo i denti aguzzi e scintillanti. «L’avverto, se mi respinge, non mi limiterò ad uccidermi. Oh, no, sarebbe troppo semplice. Porterò il mondo con me, e nel modo più doloroso possibile. E la sua morte, mia cara, sarà la più lenta e la più dolorosa!»

Un’espressione dolente e implorante gli apparve negli occhi, dietro le lenti lustre. Smilax cominciò ad addolcirsi e ad accarezzarle il braccio.

«È per la mia età? Ma io sono ancora energico, mia signora. Sì, e ben disposto a imparare nuovi trucchi. E lei non potrà trovare, tra tutti gli uomini più giovani di questo mondo, un amico più devoto e fedele di Toto.

«Mi ha divertito sentire lei e Potter mentre cercavano di indovinare come fa il Sistema a ‘conoscermi’… questo segreto non lo conoscerà mai. Ma mi ha divertito molto meno sentire quel cucciolo impudente che le chiedeva di sposarlo!

«Lei deve scegliere tra noi. Deve scegliere tra l’amico più buono, più fedele e più ricco e quell’ingrato bastardo maleducato di Calvin Potter.»

Le afferrò entrambi i polsi. «Scelga, subito!»

«Le tolga di dosso quelle luride zampe!»

Senza attendere che il dottore obbedisse, Cal gli si avventò addosso, sferrandogli goffamente un pugno. L’astuto chirurgo si piegò, e il colpo gli sfiorò l’orecchio e centrò Aurora sulla guancia. Lei ripiegò la testa all’indietro, contro la parete metallica, e si afflosciò elegantemente sul pavimento.

All’improvviso, Cal si sentì afferrare alle spalle da una stretta di ferro. Un violento colpo alla nuca gli annebbiò la vista. Qualcosa lo colpì ai reni, allo stomaco, al naso. Sembrava che fossero quattro, sei, dodici pugni che lo percuotevano da tutte le direzioni. Reagì ciecamente, e non colpì nessuno. Fu quasi un sollievo quando qualcosa lo centrò con forza al pomo d’Adamo; e quando la stretta si allentò, piombò in una morbida oscurità.

Ma rimase privo di sensi solo per pochi secondi. Quando rinvenne, Smilax e altre due figure erano ritte accanto a lui. Lo sguardo annebbiato di Cal risalì dai piedi a rotelle e dalle gambe d’acciaio su su fino ai corpi corazzati e agli impassibili tubi catodici che stavano al posto delle facce.

«Ah, è sveglio, così il divertimento può cominciare. ‘Kurt’ e ‘Karl’ la faranno morire tra le torture… rozzamente, certo, perché non lo hanno mai fatto, ma con la tremenda lentezza di cui sono capaci solo le macchine.» Smilax aprì il coperchio scorrevole della scrivania d’angolo, e rivelò una console. Quando premette un interruttore, una sedia a piedestallo salì dal pavimento come un fungo. Smilax si sedette, con un sospiro.

«Vediamo,» disse, rimuginando davanti alla console. «Niente di serio fino a quando Aurora non rinverrà. Non voglio che si perda lo spettacolo migliore, eh? Ora, cominciamo con…»

Alzò una bambola collegata da un cavo alla console, e cominciò a massaggiarle il cuoio capelluto con sgarbato vigore. «Un massaggio olandese!»

I due robot rimisero in piedi Cal, e mentre uno lo teneva l’altro eseguì la medesima operazione. Cal cominciò a gridare.

«Ahah, benissimo. Adesso le daremo una scottatura indiana, e poi le torceremo il braccio fino a quando griderà basta.» Smilax diede una dimostrazione con la bambola, e i robot eseguirono, zelanti.

Per Cal, quelle torture erano dolorose quanto quelle che ricordava dalla sua infanzia. Cominciava a ideare un piano per sottrarsi ai torturatori meccanici; ma pensare divenne sempre più difficile, mentre i robot gli sbatacchiavano la testa, gli colpivano le orecchie, gli pestavano i piedi e gli tiravano i capelli. Quando non avevano altro da fare, i robot avevano ordine di continuare a pizzicarlo, e lo facevano con perfetta regolarità. Cal notò che non ricevevano entrambi gli ordini direttamente da Smilax. Solo quello con il distintivo ‘Karl’ girava verso il chirurgo il sensore che aveva sulla testa. Poi faceva accendere sulla propria faccia una serie di numeri, che «Kurt» leggeva, obbedendo con diligenza. Cal decise di interrompere la comunicazione tra loro.

Attese fino a quando Aurora gemette come se stesse riprendendo i sensi. A quel suono il dottore si girò, e Cal piantò il gomito, con tutte le sue forze, nel tubo catodico della faccia di «Karl». L’implosione fece indietreggiare il robot di qualche passo, ma non gli fece perdere l’equilibrio. Parve soffermarsi per un secondo, come per decidere qualcosa.

Poi «Karl» caricò… e cercò di torcere il braccio di «Kurt». «Kurt» lasciò andare Cal per allontanare il fratello. I due cominciarono ad azzuffarsi, bloccandosi in prese alternate, e girando lentamente per la stanza.

Quando vide ciò che era accaduto, Smilax afferrò uno strumento simile a un fucile e lo puntò contro la testa di Aurora. «Se si avvicina, l’ammazzo,» ringhiò.

«Cane rognoso e vigliacco!»

«Le farò pagare queste parole, Potter. Ogni cane ha la sua vittoria, e stia sicuro che stavolta l’avrò io.» Puntò il fucile contro Cal e sparò. Ne uscì un minuscolo razzo, che andò a sbattere sulla parete accanto a lui. Cal si buttò sul dottore e afferrò il fucile prima che potesse sparare ancora. Lottarono.

«Kurt! Karl! Aiuto!» gridò Smilax.

Ma gli sventurati robot non potevano aiutarlo. Si stavano ancora abbrancando furiosamente l’uno con l’altro, e in quel momento entrambi si disintegrarono, crollando in frammenti che continuarono ancora a combattere, come le chele recise dei granchi.

Cal e il dottore stringevano il fucile lanciarazzi, cercando goffamente di scambiarsi colpi. Erano combattenti tutt’altro che esperti, e l’età di Smilax aveva come contropartita la stanchezza e la debolezza di Cal. Incespicarono su un paio di braccia metalliche che lottavano sul pavimento. Cal perse l’equilibrio, lo riacquistò, ma ormai il dottore lo aveva inchiodato contro la parete, premendogli il fucile contro la gola come un bastone.

«Avrei dovuto ucciderla quando ne avevo la possibilità,» ringhiò Smilax, snudando minaccioso i denti.

Cal lo spinse indietro e sogghignò. «È lei che morirà come un cane, Toto!»

«Muoia!» scattò Smilax, accompagnando quella parola con un’altra spinta.

«Dopo di lei!» ribatté Cal, ricambiando lo spintone.

Continuarono a scambiarsi spinte e insulti, in un angolo della stanza. In un altro angolo, Aurora giaceva ancora svenuta. Tutto intorno erano sparsi pezzi di robot, compresa la testa mozza di «Kurt», la cui faccia mostrava solo file di asterischi ben spaziati.

«Giù!»

Con un ultimo spintone, Cal strappò l’arma al dottore, poi gliela puntò contro.

«E va bene!» urlò Smilax. «E va bene! Faccia pure! Mi spari!»

Cal buttò l’arma sul pavimento. «Non ne ho bisogno,» disse, «per metterla al suo posto.»

Ridendo, Smilax raccattò la gamba staccata di un robot e gliela avventò contro. Il colpo centrò Cal alla fronte, e lui cadde riverso su un mucchio di rottami. Solo vagamente scorse il dottore che toglieva una pistola da un cassetto della scrivania. Risuonò uno sparo. Cal crollò a terra. Alzò gli occhi giusto in tempo per vedere le falde del camice bianco di Smilax sparire oltre l’angolo della porta. Cal balzò in piedi e lo inseguì. Quando balzò nel corridoio, si trovò in un labirinto di passaggi privi di cartelli indicatori.

L’architettura di quella parte dell’edificio non sembrava una struttura fissa, bensì una specie di principio dinamico. Variando secondo una sua formula oscura, cambiava costantemente forma e dimensioni. Le pareti avanzavano, giravano, si ritiravano o crollavano, i soffitti si incurvavano o si gonfiavano, i pavimenti si inclinavano pericolosamente, oppure scendevano come ascensori. Una porta poteva condurre a una stanza alta cinquanta piani, o a una profonda solo due centimetri, oppure poteva essere finta.

Un paio di stanze identiche erano separate da una vetrata in modo che, guardando da un ufficio monotono all’altro. Cal si chiese per un secondo perché mai quello specchio bizzarro non rifletteva la sua immagine. Si precipitò fuori, e quando varcò la soglia, la stanza dietro di lui crollò come un castello di carte.

Quando vi metteva sopra il piede, una scala poteva diventare un pavimento, una rampa, o una scala mobile. In qualunque momento una stanza poteva compiere un quarto di giro su se stessa, o inclinarsi di fianco, poteva rimpicciolire o ingrandire assumendo una forma nuova. Le scale diventavano pavimenti, rampe, scale mobili; conducevano a ripostigli, o si ripiegavano su se stesse. Di tanto in tanto Cal intravvedeva la figura biancovestita del dottore: la distanza tra loro non diminuiva. Entrambi continuavano a salire.

Cal passò da un’ultima botola e uscì sul tetto, e lassù non c’era altro che il firmamento stellato. Il tetto sembrava un gigantesco parcheggio di circa cento acri, e qua e là brillava la fioca luce gialla d’una serie di lampade. Al posto delle automobili, a intervalli regolari, c’erano grandi cataste di legname e macchinari imballati, coperti da teloni. In distanza, Cal scorse dei carrelli elevatori a forcone che si muovevano avanti e indietro. Tutto il resto era immobile. Di Smilax non c’era traccia.

Cal strisciò da un’ombra all’altra, fino a quando arrivò sull’orlo del tetto. Incuriosito, guardò giù… e si sentì gelare. C’erano camion e carri armati in movimento, laggiù. Lui poteva nascondere i più grossi con il pollice. Era a un’altezza di almeno cinquanta piani.

Risuonò uno sparo e Cal si buttò sul pavimento, poi cominciò a strisciare rapidamente verso una catasta di legname.

All’improvviso, un motore si avviò abbastanza vicino. Un riflettore si accese, inquadrando Smilax che era acquattato sopra un mucchio di casse. Il chirurgo alzò una mano per ripararsi gli occhi. Poi si accese un altro riflettore. Al di sotto del rombo del motore, Cal udì alcune voci che discutevano agitate. Dopo un momento, il secondo riflettore si spense. Smilax restò immobile, come trafitto da quell’unico raggio, con il fucile che gli penzolava dalla mano.

Un’ombra passò sopra la testa di Cal, che guardò in su. Il braccio d’una gru si stava avventando verso Smilax. Anche il dottore lo vide, e cominciò a piagnucolare. «È l’effetto Porteus! Il Sistema è impazzito! Si ribella al suo padrone! Lo sapevo! Lo sapevo!» Il braccio rallentò, ma continuò ad avanzare. «Aiuto!» implorò Smilax. «Padrone, non punirmi!»

Il braccio della gru si fermò, poi cominciò ad allontanarsi, e all’improvviso Smilax prese coraggio.

«Avanti, prova a uccidermi!» urlò, balzando avanti e indietro e agitando il pugno. «Ti sfido, incubo di dadi e bulloni! Io sono il padrone qui, lo sanno persino Potter e Aurora. Io solo posso controllarti… con questi!» Si strappò gli occhiali senza montatura e li agitò in alto. Gli occhiali brillarono nell’aspra luce. La faccia di Smilax, nuda, stranamente in ombra, scoprì i denti e ringhiò.

Il braccio della gru si mosse di nuovo nella sua direzione, e la benna si abbassò verso di lui come un paio di enormi fauci crudeli. Smilax urlò e sgattaiolò giù dal mucchio di casse da imballaggio, e come se non se ne fosse accorta, la benna afferrò le casse e le sollevò.

«Ahah, credevi di avermi preso? Sudicio mostro goffo, mi hai mancato! Avanti, ribellati pure al tuo creatore! Se non posso controllarti io, nessuno potrà farlo… mai!» Buttò sul pavimento gli occhiali e li schiacciò sotto i tacchi.

«Ahah! Abbasso il Sistema! Abbasso la macchina!» abbaiò, e cominciò a correre in cerchio, come un cucciolo che cerca di prendersi la coda. «All’inferno i gatti! Abbasso Albert Payson Terhune! A morte Lassie! Piscia sui lampioni!»

Il mucchio delle casse cadde all’improvviso, mancandolo di poco, con uno scroscio tremendo, e la benna calò violentemente insieme agli imballaggi. Smilax schizzò via e si voltò ad abbaiare furiosamente a quello sfasciume. Il telone fremette leggermente, e sotto di esso, dall’ombra, uscì un ticchettio minaccioso. Era il suono di miriadi di ferri da calza che sferruzzavano, facendo migliaia di maglioncini per cani… o di sudari.

Cal rabbrividì.

«No! No!» strillò Smilax. «Buono, buono! A cuccia! Buono, Sistema!»

Il riflettore lo seguì, mentre arretrava verso l’orlo del tetto. «No! No! Stai lontano!» gridò il dottore, gettando una gamba sopra la ringhiera. «Stammi lontano!» Ma il ticchettio parve lasciare lo sfasciume e si mosse nell’oscurità, dietro di lui; e adesso era accompagnato da un mormorio fioco e tremulo, acuto e misterioso.

«Stammi lontano!» urlò Smilax per l’ultima volta, e poi si buttò nel vuoto. Cal si precipitò alla ringhiera e guardò giù. Non vide Smilax, ma sentì il suo urlo fievole: «Bauauauauauau!»

Il riflettore restò puntato sulle sbarre della ringhiera dove il dottore si era buttato. Un attimo dopo, in quel raggio, ticchettando minacciosamente, marciò una schiera di bambine dai vestitini rossi-bianchi-azzurri tempestati di stelline d’argento. Miagolando, due grosse delle Bambole che Camminano di Wompler seguirono Smilax nel vuoto.

Il motore della gru si spense. Il riflettore girò, inquadrando il pilota: Aurora. Portava un paio d’occhiali.

«Tutto a posto?» gridarono lei e Cal nello stesso istante. Aurora scese dalla cabina e corse verso di lui. Cal corse verso di lei.

«Spegni quello stramaledetto riflettore!» gridò una voce astiosa.

«Ma, Papà, nessuno ci vedrà più, se…»

«Non voglio nessun se. Dobbiamo pur risparmiare su qualcosa. Spegni!»

Incespicando nell’oscurità, Cal e Aurora corsero l’uno verso l’altra.

Capitolo Ventiseiesimo

Utopia

«I buoni finirono felicemente, i cattivi infelicemente. Questa è la Finzione.»

WILDE

Cal e Aurora erano a New York, qualche settimana dopo, e si tenevano per mano davanti a una macchina QUIDNAC.

«CARISSIMI,» batté la macchina. «SIAMO QUI RIUNITI OGGI…»

Dopo la morte di Smilax erano successe molte cose. Il drago era stato ucciso, il ranocchio s’era trasformato in principe, e il budino si era staccato dal naso. Almeno, questo era il modo in cui si esprimeva Grandison Wompler, il nuovo Presidente degli Stati Uniti. In ogni caso, il Sistema Riproduttivo, sotto la guida di Cal e di Aurora, era diventato un amico dell’uomo.

Cal chiese alla sua fidanzata come aveva fatto a intuire il segreto degli occhiali di Smilax… appena appena in tempo.

«Ho avuto tutto il tempo per pensare, mentre ero distesa a terra e mi fingevo svenuta,» disse lei. «E ho cercato di combinare le nostre due teorie. Tu pensavi che la chiave fosse una specie di talismano, mentre io ero sicura che fosse qualcosa di personale e di idiosincratico. L’unica cosa che corrispondeva a entrambe le teorie era quel paio d’occhiali senza montatura. Suppongo che il Sistema avesse un modo per controllarne l’identità, dirigendovi contro un raggio di luce.

«Quando voi due ve ne siete andati, ho cercato dappertutto un paio d’occhiali di scorta. Poi ho pensato che lui non avrebbe osato tenerlo in giro, per timore che qualcuno glieli rubasse. Nello stesso tempo, però, doveva avere accesso a un altro paio, perché altrimenti avrebbe dovuto smettere di fare il Dio quando andava dall’ottico. Allora ho chiesto al Sistema di farmi un duplicato di quegli occhiali, e il Sistema me l’ha consegnato in pochi secondi. Allora anch’io sono diventata Dio. Ho preso l’ascensore, sono salita sul tetto, dove ho incontrato i Wompler ed Elwood Trivian, e il resto lo sai.»

Il Sistema aveva apportato cambiamenti considerevoli nel panorama politico. Subito dopo l’elezione, Grandison Wompler era partito per un giro di conferenze nelle province russe, dove aveva parlato soprattutto ai circoli femminili. Nello stesso tempo, il nuovo Premier dell’Unione Sovietica si era impegnato a parlare ai circoli femminili del Nebraska e dello Iowa. Non erano programmi di scambi culturali: erano i principali doveri dei capi di Stato, ormai. Dopotutto, non avevano più scartoffie di cui occuparsi. A questo pensava il Sistema.

In effetti il Sistema si era addossato tutti i lavori che nessuno voleva fare. Il Sistema raccoglieva la spazzatura e la trasformava in preziosi prodotti chimici, come perle, profumi e zucchero d’acero e smalto per le unghie.

Il Sistema puliva i piatti in tutte le case del mondo. Anchiviava tutti i documenti che nessuno voleva leggere, e li leggeva. Si occupava di altri lavori sgradevoli, come battere a macchina, e impedire le guerre.

Tutte le dattilografe e gli impiegati statali all’inizio erano rimasti molto infelici nel ritrovarsi disoccupati. Infatti, avevano organizzato una marcia di protesta alla Centrale del Sistema a Washington. Ma il Sistema Riproduttivo sapeva benissimo che quelle donne non avevano voglia di spezzarsi le unghie tutti i giorni sui tasti delle macchine da scrivere, e trovò loro dei mariti. Sapeva che quegli uomini non avevano voglia di starsene seduti in ufficio a ingrassare e a diventare pallidi; e regalò loro delle medaglie al merito, d’oro massiccio, che quelli impegnarono per pagarsi le vacanze in Messico.

Ma ancora più importante della felicità degli ex impiegati statali era la prevenzione della guerra. E questo venne realizzato grazie al progetto LULU (Longrange Unilateral Locking Up: Messa Sottochiave Unilaterale a Largo Raggio). Metteva sottochiave, poniamo, una testata nucleare o un carro armato o un lanciafiamme di ognuna delle due nazioni. Poi saldava a dovere la serratura. Poi versava una colata di cemento sul tutto. Poi applicava una costosissima corazza al gigantesco blocco di cemento. Poi, se i contribuenti non si erano ancora stufati dell’intera faccenda, costruiva agili e costose navi a propulsione atomica con il solo scopo di trasportare i grandi blocchi di cemento a un certo punto dell’oceano, dove erano ancorate le Zattere da Guerra degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Lì ogni pezzo d’armamento veniva attaccato alla Zattera da Guerra della sua nazione per mezzo di un lungo cavo d’acciaio, e veniva calato sul fondo dell’oceano. In quel modo le due nazioni erano in grado di accumulare quantitativi enormi di armi del tipo più tremendo (in modo da dare ai rispettivi cittadini un piacevole senso di sicurezza), ma nessuna delle due poteva tentare un attacco di sorpresa. Ed era sempre rassicurante sapere che eravamo noi ad avere i caccia più veloci, le bombe del tipo più nuovo, o un numero doppio di bazooka, là sul fondo, di quanti ne avessero «gli altri».

Ma doveva esserci qualcuno a sorvegliare quel deposito oceanico, perciò tutti quelli che volevano restare nel servizio militare dovevano fare un turno di guardia sulla nostra Zattera da Guerra. Naturalmente, c’erano molti particolari spiacevoli, che rendevano poco affascinante il servizio sulla Zattera. Le Zattere da Guerra degli americani e dei russi erano lontane poche decine di metri l’una dall’altra, e i loro occupanti erano autorizzati a spararsi a vicenda con piccole armi, ogni volta che ne avevano voglia. In secondo luogo, il vitto consisteva di piselli in scatola e di polvere d’uova, in grande abbondanza. Al personale non venivano distribuite pillole contro il mal di mare. La ferma minima era di cinque anni, e la rafferma minima era di dieci. Infine, il comandante della Zattera Americana era un tiranno semileggendario, il generale Jupiter Grawk, mentre la Zattera Russa era comandata da una donna vecchissima e molto cattiva, la generalessa Lotte Smilax.

Sì, il Sistema si era addossato molti lavori sgradevoli, e perciò adesso gli era stato accordato il piacevolissimo compito di sposare un eroe e un’eroina.

«VUOI TU, CALVIN, PRENDERE LA QUI PRESENTE AURORA PER TUA LEGITTIMA SPOSA…?»

Con mani tremanti. Cal batté sui tasti: «Sì.»

«Sì,» disse Jim Porteus, sorridendo a Susie, la sposa. Lei ricambiò il sorriso con le lacrime agli occhi. Pensare che lui la voleva ancora, che la sposava lo stesso, pur sapendo la storia delle tonsille… Susie si sentiva svenire dalla felicità.

Jim Porteus non pensava affatto al suo matrimonio. Aveva deciso che tanto valeva sposarsi: quella maledetta macchina aveva tolto ogni gusto agli affari e alla politica. Tanto valeva che diventasse ingegnere o inventore. Proprio adesso, gli era venuta l’idea di un’invenzione, che gli avrebbe fruttato una fortuna. L’avrebbe chiamata «Valletto Automatico Porteus», un nome dignitoso per una macchina elegante. Avrebbe allacciato le cravatte… qualunque nodo desiderato: bastava premere un bottone…

Il ministro si schiarì la gola. «E tu, Susie…?» Quella mattina, nella piccola cappella, a Santa Filomena, non c’era nessuno con gli occhi asciutti. Uno spettacolo consolante. Ma nessuno piangeva più abbondantemente della povera Madge Suggs. Avrebbe dovuto confortarla, dopo la cerimonia, pensò il ministro. Le avrebbe detto che non perdeva una figlia, ma acquistava un figlio…

«Sì,» disse Mary Junes Beele Brioche, a Las Vegas (Nuevas), nella Chiesa del Salvatore Psichedelico.

«E allora vi dichiaro,» intonò Sua Sacra Altissima Venerabilità, il Reverendissimo Kevin Mackintosh, «… vi dichiaro astronauta e moglie.» E cominciò il count-down.

Cal e Aurora avevano già ricevuto tonnellate di biglietti e di telegrammi e di lettere di felicitazioni, che adesso il Sistema stava dividendo e inserendo nella cerimonia. Presentò loro i calorosi rallegramenti di Elwood Trivian, Ph. D., il quale annunciava anche l’apertura della sua nuova Scuola per Macchinisti di Locomotive a Vapore, a Miami (sopra la lavanderia a secco).

Un altro telegramma diceva:

«MILLFORD, UTAH 10 35. NON SONO MORTO PER MORSO DI SERPENTE. SONO RIMASTO IN ANIMAZIONE SOSPESA O QUALCOSA DI SIMILE PER LE SEI SCORSE SETTIMANE. CONGRATULAZIONI E AUGURI VIVISSIMI ALLA COPPIA FELICE. MIA SALUTE OTTIMA A PARTE RAUCEDINE PER ECCESSIVA DETTATURA POST-TRANCE. AVETE IDEA DI COSA PUÒ ESSERE UNA CONCATENAZIONE ININTERROTTA DI SEI SETTIMANE DI PENSIERI? HO INVENTATO UN NUOVO CALCOLO ECONOMICO E HO AVUTO ALCUNE INTERESSANTI IDEE SULLA POSSIBILITÀ DI VOLARE A VELOCITA SUPERIORI A QUELLA DELLA LUCE. CREDETEMI, ANIMAZIONE SOSPESA SOSTITUIRÀ PRESTO TUTTE LE ALTRE DROGHE.

«HITA.

«P.S. DITE A LOUIE CHE È UFFICIALMENTE FORBICE NERA.»

Dopo aver consegnato questo telegramma, il QUIDNAC attese che il contenuto venisse assimilato e poi batté, prudentemente:

«VI DICHIARO MARITO E MOGLIE, A MENO CHE ABBIATE AFFERMATO IL FALSO NEI MODULI DI RICHESTA.»

Poi si aprì uno sportello, consegnando agli sposi un sacco d’oro ed il certificato di proprietà di un palafreno candido come il latte che li attendeva fuori: i doni del popolo riconoscente.

Cal non sapeva cavalcare, ma aiutò Aurora a salire sul destriero e lo condusse per le briglie lungo la Quinta Strada. Tutte le campane della città di New York squillavano annunciando la lieta novella, mentre dai palazzi degli uffici venivano lanciati palloncini multicolori e stormi di nivee colombe.

Arrivati alla Battery, gli sposi s’imbarcarono su di un veliero per recarsi in una terra lontana, mentre tutti i cittadini di New York piangevano e masticavano caramelle e levavano in alto i bambini perché li vedessero. A parte tre vecchi dalle uniformi sbiadite, che non alzarono gli occhi dal loro Gioco dell’Oca, non vi fu uno solo, tra la folla, che non augurasse ogni felicità a Cal e ad Aurora, quando le bianche vele si riempirono di vento, ed il brigantino si allontanò silenzioso dal molo puntando verso il mare.

FINE