Ossessioni. Ricordi rimossi, un'angoscia crescente, poi, all'improvviso, una scintilla che scatena un terrore sepolto in un angolo oscuro dell'anima. Raúl Jiménez, personaggio ambiguo legato al bel mondo di Siviglia, ma anche alla malavita e ai ricordi delle atrocità della Guerra civile, muore all'inizio della Semana Santa, il momento dell'anno più denso di religiosità e passione in una Spagna tutt'altro che solare, anzi, enigmatica e inquieta. L'ispettore capo Javier Falcón capisce ben presto di trovarsi di fronte a un crimine rituale, quasi iniziatico: l'assassino ha voluto impartire alla sua vittima una “lezione di vista”. Jiménez è stato legato e costretto a guardare una videocassetta, finché il suo cuore non ha ceduto…
L'arte è vizio. Non la si sposa, la si violenta.
«Devi guardare», ordinò la voce.
Ma non poteva farlo. Era l'unica persona che non poteva, che non sarebbe mai stata in grado di compiere quell'atto, perché ciò avrebbe scatenato una reazione in quella parte del cervello che in un esame clinico sarebbe apparsa di un rosso brillante, il tunnel nel labirinto della mente che i profani chiamano «pensieri folli». Era la zona pericolosa che doveva restare chiusa, sbarrata in ogni modo possibile, inchiodata, incatenata e la chiave buttata nel lago più profondo. Era il vicolo cieco dove la sua figura da contadino, ossatura grossa e giunture da mulo, si riduceva alla nudità tremante di un bambino, la faccia premuta contro l'oscuro, ruvido, stretto conforto di un angolo, le gambe e le natiche irritate dall'incontrollabile flusso dell'urina.
Non avrebbe guardato. Non poteva guardare.
Il suono della TV tornò quello di un vecchio film, udì le voci doppiate. Sì, quello poteva accettarlo, poteva guardare James Cagney che parlava spagnolo con lo sguardo mobilissimo e le labbra che non seguivano il doppiaggio.
La cassetta ronzò nel videoregistratore mentre si riavvolgeva il nastro, ed emise uno scatto quando arrivò all'inizio del film. Un orizzonte si annebbiò dentro il suo cervello. Nausea? O peggio? La marea del passato saliva dentro di lui. La gola si serrò, le labbra cominciarono a tremare, davanti a lui James Cagney e la sua irrealistica parlata spagnola persero definizione. Contrasse le dita dei piedi nudi, afferrò i braccioli della sedia, i polsi già segati dal filo elettrico che li immobilizzava. Gli occhi si velarono, e lo sguardo si appannò.
«Lacrime prima di dormire», disse la voce.
Ora di dormire? Il suo cervello distorse il concetto con la destrezza di un illusionista. Un colpo di tosse soffocato dai calzini ficcati nelle guance. Era la fine? Questo significava «prima di dormire»? Meglio, molto meglio la fine. Ora di andare a letto, un profondo, scuro, eterno letto.
«Ti chiedo di provarci… devi cercare di
«Tu non stai
La sedia dondolò mentre lui cercava di gettarsi all'indietro, lontano da quel suono lacerante. Di nuovo le frasi scandite in spagnolo di James Cagney, poi il ronzio della cassetta, lo scatto alla fine del nastro.
«Ho provato», disse la voce, «ho avuto pazienza… comprensione.»
Comprensione? È avere comprensione questo? Legarmi i piedi e le mani alla sedia, ficcarmi in bocca i calzini fetidi, costringermi a guardare questo… il mio… questo…
Una pausa. Un'imprecazione borbottata dietro la sua nuca. I fazzoletti di carta strappati dalla scatola sulla scrivania, di nuovo l'odore nella stanza, il fetore che ricordava. La cosa scura che veniva verso di lui, questa volta non versata su uno straccio, ma sulla carta. L'odore e tutto ciò che questo significava. Il buio. L'adorabile buio. Datemelo, lo voglio.
Il sapore forte del cloroformio lo scaraventò di nuovo nello spazio profondo.
Una minuscola lama di luce, minuscola come una stella, perforò la volta, crebbe fino a diventare un cerchio e lo risucchiò dalle tenebre del pozzo. No, io resto qui, lasciatemi qui nel buio della mia prigione! Ma, inesorabilmente, il prigioniero fu trascinato, strappato via, su, verso il cerchio sempre più grande, finché non fu di nuovo nel suo studio. Con James Cagney adesso c'era anche una ragazza, ma non era l'unico particolare nuovo. Un altro filo elettrico gli segava il viso adesso, lo avevano bloccato strettamente sotto il naso per inchiodarlo all'alto schienale, avvertiva perfino i contorni in rilievo di un antico stemma premuti sul cuoio capelluto. E c'era di più. Oh, Maria, madre di Cristo,
Le lacrime scorrevano calde sulle guance, giù lungo il viso, agli angoli della bocca, cadevano fitte sulla camicia bianca. Sapore dolciastro di metallo tra i denti. Che cosa mi avete
Un contagocce comparve nel suo arroventato campo visivo, una goccia tremolante di rugiada appesa al tubicino di vetro. I suoi occhi l'avrebbero accolta con avidità, quella e molte altre ancora.
«Ora vedrai tutto», disse la voce. «E le lacrime te le fornisco io.»
La goccia baluginò nell'occhio, la cassetta emise un ronzio, cigolò, James Cagney e la ragazza svanirono in una bufera di neve. Poi vennero l'urlo e le lacrime somministrate con cura premurosa.
I
Era cominciato tutto nel momento in cui, entrando nella stanza, aveva visto quella faccia.
La chiamata era arrivata alle 8.15, nel momento preciso in cui stava per uscire di casa: un cadavere, sospetto omicidio, e l'indirizzo.
Aveva guidato l'auto fuori dall'imponente casa che era appartenuta a suo padre nella calle Bailén e le gomme erano sobbalzate rumorosamente sui ciottoli delle viuzze deserte di una città sempre riluttante a svegliarsi in qualsiasi stagione dell'anno, ma particolarmente silenziosa a quell'ora, durante la Settimana Santa. Arrivato sulla piazza di fronte al Museo de Bellas Artes, le case imbiancate a calce e incorniciate in ocra silenziose dietro le palme, i due colossali alberi della gomma e le alte jacarande non ancora fiorite, aveva aperto il finestrino, permettendo all'aria del mattino di entrare, ancora fresca di rugiada. Era sceso fino al Guadalquivir e aveva percorso il paseo de Colón, fiancheggiato da alberi. Superando le porte rosse della puerta del Príncipe nella facciata barocca della Plaza de Toros — La Maestranza, che stava per vedere le prime corride nella settimana della Feria de Abril — aveva provato quasi un moto di soddisfazione.
Era la sensazione più vicina alla felicità che gli era consentito nutrire in quei giorni, un'impressione che aveva avvertito di nuovo mentre voltava a destra dopo la Torre del Oro e, lasciandosi alle spalle il centro storico della città, attraversava il fiume velato di nebbia tra i raggi del sole mattutino. Giunto alla plaza de Cuba aveva abbandonato l'abituale itinerario per andare al lavoro e aveva percorso la calle Asunción. In seguito aveva cercato di ritrovare quei momenti, perché erano stati gli ultimi di una vita fino allora tutto sommato soddisfacente, o almeno così aveva creduto.
Il nuovo, e giovanissimo, Juez de Guardia, il magistrato di servizio che lo aveva aspettato nell'ingresso ben tenuto, di marmo bianco, del grande e lussuoso appartamento di Raúl Jiménez al sesto piano dell'Edificio Presidente, aveva cercato di avvertirlo. Questo lo ricordava.
«Si prepari, Inspector Jefe», gli aveva detto il magistrato.
«A che cosa?» aveva domandato Falcón.
Nel silenzio imbarazzato che era seguito, l'ispettore capo Javier Falcón aveva studiato attentamente l'abito del Juez de Guardia. Di un sarto italiano, aveva pensato, o di un noto stilista spagnolo, qualcuno sul genere di Adolfo Domínguez, forse. Costoso per un magistrato giovane come Esteban Calderón, trentasei anni e nominato da appena un anno.
Vista l'apparente flemma di Falcón, Calderón aveva deciso di non apparire ingenuo di fronte al quarantacinquenne Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla, che vantava un'esperienza più che ventennale di gente assassinata a Barcellona, Saragozza, Madrid e, ora, anche a Siviglia.
«Lo vedrà», aveva detto, stringendosi nelle spalle con un gesto nervoso.
«Devo procedere, allora?» aveva domandato Falcón, attenendosi al protocollo poiché era la prima volta che lavoravano insieme.
Calderón aveva annuito e gli aveva detto che la Policía Científica se n'era appena andata: poteva procedere con il primo esame della scena del delitto.
Falcón aveva percorso il corridoio che portava dall'ingresso allo studio di Raúl Jiménez, cercando di prepararsi psicologicamente ma senza sapere come farlo. Davanti al soggiorno aveva aggrottato la fronte, perplesso: la stanza era completamente vuota. Si era girato verso Calderón che, in quel momento, gli voltava le spalle, intento a dettare qualcosa alla
«Stavano traslocando?» aveva domandato.
«
«Significa che la signora Jiménez si trova già nella nuova casa con i figli?»
«Non ne siamo sicuri.»
«Il mio assistente, l'Inspector Ramírez, sarà qui a minuti. Lo mandi subito da me.»
Falcón aveva continuato fino alla fine del corridoio, all'improvviso consapevole dell'eco prodotta da ogni passo sul parquet dell'appartamento vuoto, lo sguardo ipnotizzato da un gancio che spuntava dalla parete nuda all'estremità del corridoio. Sotto di esso un riquadro appariva più chiaro della superficie circostante, un dipinto o uno specchio tolto da poco. Falcón si era infilato i guanti da chirurgo, tirandoli su fino ai polsi e flettendo le dita, poi era entrato nello studio e, alzando lo sguardo, si era trovato davanti il viso orripilante di Raúl Jiménez che lo fissava.
Era cominciato tutto allora.
E non perché avesse ripensato a quel momento rendendosi conto solo in seguito che aveva rappresentato una svolta. Il cambiamento non era stato così sottile. Dentro di lui era scattato qualcosa che si era fatto sentire immediatamente. Il sudore gli aveva bagnato le mani all'interno dei guanti ed era comparso in un punto della fronte, proprio sotto l'attaccatura dei capelli; il battito rumoroso del cuore lo aveva paralizzato e l'ossigeno nell'aria aveva cominciato a scarseggiare. Iperventilazione per qualche secondo, un pizzico sulla gola per agevolare l'inspirazione: il corpo gli stava comunicando che doveva avere paura, mentre il cervello lo rassicurava affermando che non ne aveva motivo.
Un cervello che ora stava procedendo alle consuete osservazioni spassionate tipiche dei poliziotti di fronte ai cadaveri. Falcón notò che i piedi di Raúl Jiménez erano nudi, le caviglie legate alle gambe della sedia, qualche mobile fuori posto in contrasto con il resto della stanza. I segni sul costoso tappeto persiano indicavano qual era stata l'abituale posizione della sedia. Il cavo del televisore era teso, perché il mobiletto con le ruote si trovava a qualche metro di distanza dalla presa nell'angolo. Per terra, accanto alla scrivania, un pezzo di stoffa arrotolato, forse un paio di calzini sporchi di saliva e di sangue. Le finestre con i doppi vetri erano chiuse, le tende tirate. Sulla scrivania un voluminoso posacenere di steatite zeppo di cicche e di filtri interi, puliti, tagliati dalle sigarette del pacchetto posato lì accanto, sigarette marca Celtas. Economiche. Le più economiche. Solo il prodotto meno costoso per Raúl Jiménez, proprietario di quattro fra i ristoranti più frequentati di Siviglia, nonché di altri due a Sanlúcar de Barrameda e a Puerto Santa María, sulla costa. Solo ciò che di più economico si poteva trovare per Raúl Jiménez, nel suo appartamento da novanta milioni di pesetas nel quartiere di Los Remedios, con la vista sulla zona della Feria e con le foto delle celebrità alla parete dietro la scrivania dagli intarsi in pelle. Raúl con il torero El Cordobés. Raúl con la presentatrice TV Ana Rosa Quintana. Raúl, mio Dio, Raúl con un coltello da cucina in mano dietro un
Il sudore intanto non si era arrestato, anzi, stava comparendo altrove. Sul labbro superiore, sulle reni, gli scendeva dalle ascelle alla vita. Falcón sapeva ciò che stava facendo: stava fingendo, voleva convincersi che nella stanza facesse caldo, che il caffè appena preso… Non aveva preso nessun caffè.
La faccia.
Per un cadavere quella era una faccia viva. Come i santi di El Greco, con gli occhi che non ti lasciavano mai.
Lo stavano seguendo anche quelli?
Falcón si spostò di lato. Sì. Passò dall'altra parte. Assurdo. Uno scherzo della mente. Si riprese, strinse il pugno fasciato dal guanto di lattice.
Falcón scavalcò il cavo teso tra la parete e il televisore e passò dietro la sedia del morto. Diresse lo sguardo al soffitto, poi tornò a fissarlo sui capelli lanosi di Raúl Jiménez. La nuca era una matassa aggrovigliata nera e rossa, là dove aveva sbattuto ripetutamente contro lo stemma in rilievo sullo schienale. La testa era immobilizzata con un cavo elettrico che inizialmente doveva essere stato serrato con forza, ma che Jiménez, dibattendosi, aveva allentato. Il cavo era penetrato profondamente nella carne sotto le narici e aveva addirittura tagliato la cartilagine del setto, raggiungendo la parte ossea: il naso staccato pendeva sulla faccia. Il filo elettrico aveva lacerato anche la carne sugli zigomi, perché l'uomo doveva aver agitato selvaggiamente la testa.
Falcón distolse lo sguardo da quel profilo ma si ritrovò di fronte il riflesso dell'intero volto nello schermo spento. Sbatté le palpebre con l'impellente desiderio di chiudere quegli occhi, penetranti perfino nell'immagine sul televisore. Lo stomaco gli si rivoltò al pensiero delle visioni d'orrore che avevano costretto quell'uomo a fare a se stesso ciò che aveva fatto: erano forse ancora là, incise a fuoco nella retina o ancora più profondamente nel cervello come in un computer?
Scosse il capo, Falcón, non abituato a permettere che idee così bizzarre interferissero con la freddezza richiesta in un'indagine. Si spostò di nuovo per affrontare la faccia grondante sangue, non del tutto visibile da quella prospettiva, perché il mobiletto del televisore era a contatto con le ginocchia della vittima. A quel punto Javier Falcón dovette affrontare il primo cedimento fisico. Non gli si piegavano le ginocchia: nessun ordine neurologico riusciva a superare il panico che gli montava nel petto e nello stomaco. Fece ciò che gli aveva suggerito il Juez de Guardia e guardó fuori dalla finestra. Notò lo splendore della mattina di aprile, ricordò l'irrequietezza provata mentre si vestiva nella semioscurità delle persiane chiuse, lo strascico del disagio lasciato da un inverno lungo e solitario, con troppa pioggia. Tanta che perfino lui si era accorto che i giardini della città erano diventati lussureggianti e fitti come una foresta, con un rigoglio da esposizione botanica. Rivolse gli occhi sull'area della Feria che, di lì a due settimane, sarebbe stata trasformata in una Siviglia accampata, gremita di
L'effetto terribile era prodotto dai globi oculari che sporgevano dalla testa come se l'uomo soffrisse di problemi alla tiroide. Falcón si girò ancora una volta verso le foto: in nessuna di esse Jiménez aveva quegli occhi sporgenti da insetto. La causa era… Sentì come una scossa percorrergli i nervi. La palla degli occhi scoperta, il sangue colato sulla faccia, coagulato sulla mandibola… E quelle? Che cos'erano quelle cose leggere sullo sparato della camicia? Petali. Quattro petali. Carnosi, però, esotici come orchidee, con quei sottili filamenti, proprio come pigliamosche. Dei petali… lì?
Falcón barcollò all'indietro, scalciando sul bordo del tappeto e sul parquet mentre inciampava nel cavo del televisore strappando la spina dalla presa sul muro. Agitò nel vuoto mani e piedi finché non andò a sbattere contro la parete e si ritrovò seduto a gambe larghe, i muscoli delle cosce contratti, la punta delle scarpe rivolta verso il soffitto.
Palpebre. Due superiori. Due inferiori. Niente lo aveva preparato a questo.
«Tutto bene, Inspector Jefe?»
«È lei, Inspector Ramírez?» domandò, rialzandosi lentamente, con gesti maldestri.
«La Policía Científica è pronta a intervenire.»
«Faccia venire il Médico Forense.»
Ramírez scivolò via, Falcón si ricompose, comparve il medico legale.
«Aveva visto che gli hanno ta… asportato le palpebre?»
«
«No, no, certo… ero solo sorpreso che non mi fosse stato riferito.»
«Credo che il Juez Calderón stesse per farlo, ma…»
La testa calva del medico dondolò sulle spalle.
«Ma che cosa?»
«Credo che fosse intimidito dalla sua superiore esperienza in questo genere di cose.»
«Si è fatto un'idea della causa e dell'ora della morte?» domandò Falcón.
«L'ora, verso le quattro, quattro e mezzo di questa mattina. La causa, be',
Il Médico Forense tacque, imbarazzato dallo sguardo duro di Falcón e seccato dalla sua stessa stupida battuta finale. Si allontanò dalla soglia, subito occupata da Calderón e da Ramírez.
«Cominciamo», disse Calderón.
«Chi ha chiamato la polizia?»
«Il
«Dopo che la domestica era entrata, aveva visto il cadavere, si era precipitata fuori dall'appartamento e aveva preso l'ascensore fino al pianterreno…?»
«… e aveva bussato come una pazza alla porta del
«Il portinaio è salito fin qui?»
«Solo dopo l'arrivo della prima pattuglia, che ha poi messo i sigilli alla scena del delitto.»
«La porta era aperta?»
«Sì.»
«E la domestica… ora?»
«È sotto sedativi all'hospital de la Virgen de la Macarena.»
«Inspector Ramírez…»
«Sì, Inspector Jefe…?»
Tutte le conversazioni tra Falcón e Ramírez cominciavano così. Era il suo modo per ricordare all'Inspector Jefe Falcón che era venuto da Madrid a rubare il posto che Ramírez aveva sempre ritenuto suo di diritto.
«Preghi il Subinspector Pérez di andare all'ospedale e appena la domestica… Ha un nome?»
«Dolores Oliva.»
«Non appena si sarà ripresa… dovrebbe domandarle se ha notato niente di strano… Be', le solite domande. E le chieda a quante mandate era chiusa la porta e quali sono stati
Ramírez ripeté le istruzioni.
«Avete già rintracciato la signora Jiménez e i figli?» domandò Falcón.
«Credo che siano alloggiati all'hotel Colón.»
«In calle Bailén?» domandò Falcón: l'albergo a cinque stelle dove scendevano tutti i toreri, a soli cinquanta metri dalla sua… dalla casa del suo defunto padre, una coincidenza che, in realtà, non era una coincidenza.
«È stata inviata una vettura a prelevarla», rispose Calderón. «Vorrei completare il
Falcón annuì e Calderón li lasciò al loro lavoro. I due della scientifica, Felipe, cinquantacinque anni circa, e Jorge, sulla trentina, entrarono mormorando
«Le scarpe sono qui sotto», annunciò Jorge, accennando al pavimento sotto la scrivania. «Un paio di mocassini rosso scuro con la frangia.»
Falcón indicò un punto particolarmente consumato del parquet davanti alla poltrona di pelle. «Gli piaceva levarsi le scarpe e sedere davanti alla TV, sfregando i piedi sul pavimento di legno.»
«Mentre guardava filmetti pornografici», disse Felipe, intento a esaminare una delle custodie. «Questo è intitolato
«Perché la posizione della sedia?» domandò Jorge. «Perché spostare tutti questi mobili?»
Javier Falcón, che si era avviato verso la porta, si girò e spalancò le braccia guardando i due della scientifica.
«Massimo effetto.»
«Un vero intrattenitore», convenne Felipe annuendo. «Su quest'altra custodia è scritto con il pennarello rosso
«Non sembrerebbe una prospettiva così orribile», osservò Falcón e tutti contemplarono per un istante il terrore e il sangue sulla faccia di Raúl Jiménez prima di tornare al loro lavoro.
«A
«Non guardare, se non sei in grado di sopportarlo», consigliò Jorge da sotto la scrivania.
«I film dell'orrore non mi sono mai piaciuti», sentenziò Falcón.
«Neanche a me», affermò Jorge. «Non sopporto tutta quella… quella…»
«Quella? Che cosa?» domandò Falcón, stupito di provare interesse.
«Non so… la normalità, l'aspetto minaccioso che può assumere la normalità.»
«Abbiamo tutti bisogno di un po' di paura per tirare avanti», disse Falcón, osservandosi la cravatta rossa, la fronte di nuovo imperlata di sudore.
Da sotto la scrivania venne un tonfo sordo: la testa di Jorge aveva sbattuto contro il fondo.
«
Silenzio da parte degli altri tre.
«Lo metta in un sacchetto», disse Falcón.
«Non si troverà nessuna impronta», spiegò Felipe. «Le custodie delle cassette sono pulite, il videoregistratore, il televisore, il mobiletto, il telecomando sono puliti. Questo tizio si era preparato bene.»
«Un uomo?» domandò Falcón. «Questo non lo abbiamo ancora accertato.»
Felipe inforcò un paio di occhiali fatti su misura, forniti di lenti di ingrandimento, e cominciò a esaminare minuziosamente il tappeto.
Falcón era sbalordito dal comportamento degli uomini della scientifica. Di sicuro non avevano mai visto niente di così orrido in tutta la loro carriera, non lì, non a Siviglia, eppure eccoli che stavano tranquillamente… Sfilò dalla tasca il fazzoletto perfettamente stirato e piegato in quattro e si asciugò la fronte. No, Felipe e Jorge non c'entravano affatto, il problema era suo. I due si comportavano così perché così si comportava normalmente
Che cosa c'era dunque di diverso nel caso di Raúl Jiménez? Perché il sudore in quella fresca mattina di aprile? Sapeva che alla Jefatura Superior de Policía in calle Blas Infante lo avevano soprannominato
«Un capello, Inspector Jefe», disse. «Trenta centimetri.»
«Colore?»
«Nero.»
Falcón si diresse alla scrivania per controllare la foto della famiglia Jiménez. Consuelo Jiménez, in piedi, avvolta in una pelliccia lunga fino a terra, aveva i capelli biondi pettinati all'insù, stile torta nuziale, e i tre figli maschi in posa sorridevano all'obiettivo.
«Nel sacchetto», ordinò prima di chiamare il Médico Forense. Nella fotografia Raúl Jiménez era in piedi accanto alla moglie, i denti da cavallo scoperti in un sorriso, le guance flosce: lui sembrava un nonno e la moglie una figlia. Matrimonio in età avanzata. Quattrini. Conoscenze. Falcón osservò il sorriso brillante di Consuelo Jiménez.
«Gran bel tappeto», disse Felipe, «seta, mille nodi ogni centimetro, folto, in grado di sostenere i mobili molto bene.»
«Quanto crede che pesi Raúl Jiménez?» domandò Falcón al medico legale.
«Be', direi che ora pesasse tra i settantacinque e gli ottanta chili, ma a giudicare dal ventre afflosciato deve essere arrivato a più di novanta.»
«Le condizioni del cuore?»
«Se la moglie non le conosce, il suo medico curante ne è certamente al corrente.»
«Crede che una donna abbia potuto sollevarlo dalla poltrona dov'era sprofondato, per spostarlo sulla sedia con la spalliera alta?»
«Una donna?» domandò il Médico Forense. «Pensa che sia stata una donna?»
«Non era questa la domanda, dottore.»
Il medico legale si irrigidì all'osservazione, che lo aveva fatto sentire stupido per la seconda volta.
«Ho visto infermiere addestrate a sollevare uomini molto più pesanti. Uomini vivi, naturalmente, il che rende la cosa più facile… ma non vedo perché no.»
Falcón si voltò, aveva finito con lui.
«Dovrebbe chiedere a Jorge, se vuole sapere qualcosa sulle infermiere, Inspector Jefe», disse Felipe, il deretano in aria, il naso praticamente affondato nel tappeto.
«Sta' zitto!» ribatté Jorge, seccato.
«Per quel che ne so, è tutta una questione di fianchi», riprese Felipe, «e di contrappeso delle natiche.»
«È solo teoria, Inspector Jefe», disse Jorge, «lui non ha mai avuto la possibilità di farsi un'esperienza pratica.»
«E che ne sai?» replicò Felipe, rialzandosi sulle ginocchia per afferrare un sedere immaginario, mimando l'amplesso. «Sono stato giovane anch'io.»
«Non che riusciste a combinare un gran che ai vostri tempi», obiettò Jorge. «Erano serrate come ostriche, no?»
«Le ragazze
«Te le sei sognate», concluse Jorge.
«Sì, ho sempre fatto sogni molto erotici», ammise Felipe.
I due uomini della scientifica risero e Falcón li guardò, chini con il naso sul pavimento come maiali in cerca di ghiande, le partite di calcio e la gara a chi scopava di più che occupavano i loro cervelli. Ne fu leggermente disgustato e si girò di nuovo per studiare le foto alle pareti. Jorge accennò con il capo a Falcón e pronunciò silenziosamente la parola
Risero di nuovo; Falcón li ignorò. Il suo sguardo, proprio come gli accadeva quando osservava un quadro, fu attirato dalle immagini alle estremità dell'esposizione. Si scostò dalle immagini centrali dove Raúl era ritratto con le celebrità e ne trovò una dove teneva le braccia sulle spalle di due uomini entrambi più alti e più grossi di lui: alla sua sinistra il Jefe Superior de la Policía de Sevilla, Comisario Firmín León, e alla sua destra il procuratore capo, Fiscal Jefe Juan Bellido. Sentì un peso gravargli addosso e si aggiustò la giacca, raddrizzando le spalle.
«Aha! Ora sì che ci siamo», esclamò Felipe. «Ecco qui. Un pelo del pube, Inspector Jefe. Nero.»
I tre uomini si voltarono simultaneamente verso la finestra, perché avevano udito voci soffocate dietro i doppi vetri e un rumore meccanico simile a quello di un ascensore. Al di là della ringhiera del balcone comparvero lentamente due uomini in tuta blu, uno con i capelli neri e lunghi legati sulla nuca e l'altro con i capelli a spazzola e un occhio pesto. Stavano gridando qualcosa alla squadra che manovrava l'autoscala, diciotto metri più in basso.
«Chi sono quegli idioti?» domandò Felipe.
Falcón uscì sul balcone, facendo sobbalzare i due in piedi sulla piattaforma, sollevata fin lassù dall'autogru ferma sulla strada.
«Chi diavolo siete?»
«Siamo della ditta di traslochi», risposero gli uomini, girandogli la schiena per mostrare la scritta applicata sulla tuta: MUDANZAS TRIANA TRANSPORTES NACIONALES E INTERNACIONALES.
II
Il Juez Esteban Calderón aveva firmato l'autorizzazione al
«Un errore», osservò Falcón.
«Inspector Jefe?» domandò perplesso Ramírez, accanto a lui.
«Il primo errore in un'operazione ben programmata.»
«E il capello, Inspector Jefe?»
«Se quel capello appartiene all'assassino… perderlo è stato un incidente. Dimenticare uno straccio imbevuto di cloroformio è stato un errore. Ha addormentato Raúl Jiménez con il cloroformio, non ha voluto mettersi in tasca lo straccio e lo ha lasciato sulla sedia dove era legato Don Raúl. Lontano dagli occhi, lontano dalla mente.»
«Non è una traccia poi così importante…»
«È un'indicazione sul modo di ragionare della persona con la quale abbiamo a che fare. Un individuo accorto, ma non un professionista: potrebbe essersi comportato in modo incauto anche in altre circostanze rilevanti, per esempio riguardo al posto dove si è procurato il cloroformio. Potrebbe averlo acquistato a Siviglia in un negozio di forniture mediche o di laboratorio oppure averlo rubato in un ospedale o in una farmacia. L'assassino ha pianificato in modo ossessivo ciò che intendeva far subire alla vittima, ma non tutti i particolari della sua impresa.»
«La signora Jiménez è stata localizzata e informata. Un'auto lascerà i figli a casa di sua sorella a San Bernardo, quindi la porterà qui.»
«Quando pensa di eseguire l'autopsia, il Médico Forense?» si informò Falcón.
«Vuole assistere all'autopsia?» domandò Calderón, soppesando il cellulare tra le dita. «Il medico legale ha detto che avrebbe cominciato subito.»
«No, non ci tengo in particolare», rispose Falcón. «Voglio solo i risultati. C'è moltissimo da fare qui. La cassetta nel videoregistratore, per esempio. Credo che dovremmo guardare tutti
«Fernández sta parlando con il
«Gli dica di prendere tutti i filmati della telecamera di sicurezza, di guardarli con il
Ramírez si avviò alla porta.
«E un'altra cosa… mandi qualcuno a controllare tutti gli ospedali, i laboratori e i negozi di forniture mediche per scoprire se sia stato venduto cloroformio a qualche sconosciuto o se manchi qualche bottiglia di quella roba. E anche strumenti chirurgici.»
Falcón sospinse il mobiletto della TV al suo posto nell'angolo della stanza. Calderón sedette sulla poltrona di pelle mentre Falcón infilava la spina nella presa. Ramírez, in piedi accanto alla sedia del morto già avvolta nella plastica e pronta per essere trasportata nei laboratori della Policía Científica, mormorò qualcosa al telefonino. Calderón estrasse la cassetta, la esaminò, tornò a inserirla e premette il pulsante di riavvolgimento.
«Gli uomini della ditta di traslochi sono ancora qui, Inspector Jefe.»
«Non c'è nessuno che possa parlare con loro in questo momento. Che aspettino.»
Calderón premette
«Vuole solo dimostrarci di essere stato diligente nel suo lavoro?» domandò Ramírez.
«Decisamente noioso, no?» commentò Falcón, pensando il contrario, scoprendosi curiosamente affascinato dalle dinamiche familiari mostrate dal gruppetto nei suoi vari spostamenti. Si sentiva attirato dall'idea di famiglia, specialmente di una famiglia in apparenza felice come quella e si domandava come sarebbe stato per lui averne una e perché non gli fosse riuscito.
Fu necessario un cambiamento nel genere delle riprese per riportarlo bruscamente al presente, la prima sequenza di una serie nelle quali la famiglia non compariva unita: Raúl Jiménez e i figli allo stadio Betis in un giorno in cui, a giudicare dalle sciarpe, si giocava il derby.
«Me lo ricordo», disse Calderón.
«Abbiamo perso quattro a zero», confermò Ramírez.
«Avete perso voi. Noi abbiamo vinto.»
«Che mi dici mai!»
«Per che squadra tiene, Inspector Jefe?» domandò Calderón.
Falcón non rispose. Nessun interesse. Ramírez gli lanciò un'occhiata al di sopra della spalla, trovando la sua presenza imbarazzante.
La telecamera si era spostata sull'Edificio Presidente. Consuelo Jiménez da sola che saliva su un taxi, che pagava il tassista in un viale fiancheggiato da alberi, e aspettava qualche istante mentre l'auto si allontanava prima di attraversare la strada e salire una scalinata che portava a una casa.
«Dov'è?» domandò Calderón.
«Ce lo dirà lui», rispose Falcón.
Una serie di immagini mostrarono Consuelo Jiménez che arrivava presso il medesimo palazzo in giorni diversi, con abiti differenti. Poi il numero della casa: 17. E il nome della via: calle Río de la Plata.
«È a El Porvenir», osservò Ramírez.
«Già, il Futuro!» disse Calderón. «Un amante, direi.»
Ripresa notturna con la telecamera che indugiava sulla parte posteriore di una grossa Mercedes Classe E con un numero di targa di Siviglia.
«Non ha molto ritmo questo regista», osservò Calderón che stava raggiungendo rapidamente la soglia della noia.
«Vuole creare suspense», spiegò Falcón.
Finalmente Raúl Jiménez scese dall'auto, la chiuse, lasciò la zona illuminata della strada per entrare nel buio. Stacco su un falò acceso nella notte, figure in piedi accanto alle fiamme guizzanti, donne con le gonne cortissime, qualcuna con il reggicalze in bella vista. Una di loro si girò, esponendo il sedere al fuoco.
Raúl Jiménez comparve nel cerchio di luce, seguì una trattativa della quale gli spettatori non furono in grado di udire i dettagli, poi l'uomo tornò alla Mercedes seguito da una donna che incespicava con i tacchi alti sul terreno scabro.
«Siamo sull'Alameda», affermò Ramírez.
«Solo la merce più economica per Raúl Jiménez», commentò Falcón.
L'uomo spinse la ragazza sul sedile posteriore, tenendole giù la testa come se fosse un elemento sospetto fermato dalla polizia, poi si guardò in giro e infine la seguì nell'auto. L'obiettivo inquadrò la portiera posteriore della Mercedes, movimenti indefinibili dietro il vetro. Non passò più di un minuto. Jiménez scese dall'auto, sistemandosi la patta dei pantaloni e allungando una banconota alla ragazza. L'uomo tornò al volante e la macchina si allontanò. La ragazza sputò per terra, si schiarì la gola e sputò di nuovo.
«Una sveltina nel vero senso della parola», osservò Ramírez, prevedibile.
Altre riprese notturne. Stesso schema fino a quando vi fu un brusco cambiamento di scena e la telecamera mise a fuoco un corridoio nel quale la luce penetrava da una porta aperta in fondo a sinistra. Poi l'obiettivo avanzò lungo il corridoio, rivelando un riquadro più chiaro sulla parete di fondo e un gancio sopra di esso. I tre uomini si irrigidirono di colpo, consapevoli che quello ripreso era il corridoio che conduceva alla stanza dove erano seduti in quel momento. La mano di Ramírez ebbe uno scatto in quella direzione. Un sobbalzo della telecamera. La tensione crebbe mentre la mente dei tre veniva invasa dall'impressione di essere sul punto di vedere qualcosa di orribile. L'obiettivo raggiunse il limite dell'area illuminata, il microfono colse una specie di gemito proveniente dalla camera, un lamento tremolante, acuto, uno straziante gemito d'agonia. Falcón provò il bisogno di deglutire, ma la gola non gli ubbidì. Era completamente asciutta.
«
L'inquadratura si allargò, mentre Falcón era ancora disorientato dal contrasto fra i suoni precedenti e le immagini. La faccia rivolta verso lo schermo del televisore, Raúl Jiménez era inginocchiato sul tappeto persiano, il lembo della camicia penzolante sulle natiche, i calzini fino al polpaccio, i pantaloni in un mucchio sul pavimento dietro di lui. Carponi davanti a lui stava una ragazza dai lunghi capelli neri, la testa così immobile da far capire a Falcón che gli occhi fissavano un punto sulla parete e che i pensieri della donna non erano lì mentre emetteva gli appropriati versi di incoraggiamento. Poi lei cominciò a girare la testa e la telecamera si spostò con una serie di inquadrature disordinate fuori dalla stanza.
Falcón si era alzato in piedi, urtando con le cosce lo spigolo della scrivania. «Era lì!» esclamò. «Era… voglio dire, era già lì da prima!»
Ramírez e Calderón sobbalzarono sulla sedia all'esclamazione di Falcón. Il giudice si passò le dita tra i capelli, visibilmente scosso, scrutando la porta dalla quale la telecamera aveva guardato nella stanza. Preso dall'agitazione, Falcón non sapeva più che cosa stesse guardando, se finzione o realtà. Si riscosse, compì un passo indietro, cercò di liberare la vista da ciò che aveva nel cervello. C'era qualcuno in piedi sulla soglia. Falcón serrò per un attimo gli occhi, li riaprì. Sì, aveva già visto quella persona. Il tempo decelerò e Calderón attraversò la stanza con la mano tesa.
«Señora Jiménez», salutò, «Juez Esteban Calderón. Mi permetta di porgerle le mie condoglianze.»
Le presentò Ramírez e Falcón, e la signora Jiménez, con un evidente sforzo per fare appello a tutta la sua dignità, entrò nella camera come se dovesse scavalcare un cadavere e strinse la mano al giudice e ai poliziotti.
«Non l'aspettavamo così presto», osservò Calderón.
«Non c'era molto traffico. L'ho spaventata, Inspector Jefe?»
Falcón si ricompose; la sua espressione, probabilmente, aveva conservato una traccia del profondo turbamento provato poco prima.
«Che cosa stavate guardando?» domandò la signora Jiménez assumendo il controllo della situazione, ovviamente un'abitudine per lei.
Si volsero tutti verso lo schermo: effetto neve e fruscii.
«Non l'aspettavamo…» cominciò Calderón.
«Che cos'era, Señor Juez? Questo è il mio appartamento. Mi piacerebbe sapere che cosa stavate guardando sul
Mentre Calderón sosteneva la pressione della donna, Falcón ebbe modo di osservarla indisturbato e sebbene fosse certo di non conoscerla, quanto meno identificava il tipo: era quel genere di donna che avrebbe potuto presentarsi a casa di Falcón padre, quando il grand'uomo era ancora vivo, per comprare uno dei suoi ultimi lavori. Non le tele speciali che lo avevano reso famoso, tutte opere da un bel pezzo collocate presso i collezionisti americani e i musei di tutto il mondo; quella donna avrebbe cercato i più abbordabili lavori su Siviglia, i particolari di edifici: una porta, la cupola di una chiesa, una finestra, un balcone. Una donna di gusto, con o senza marito ricco al guinzaglio, desiderosa di possedere un frammento dell'opera del vecchio artista.
«Stavamo guardando una cassetta che è stata lasciata nell'appartamento», spiegò Calderón.
«Non una di quelle di mio marito…» soggiunse la signora Jiménez, con un'esitazione calcolata ad arte, per far loro sapere che precisare «pornografica» non sarebbe stato necessario. «Avevamo pochi segreti… e ho potuto vedere gli ultimi secondi del filmato che stavate guardando.»
«Una cassetta, Doña Consuelo», intervenne Falcón, «lasciata qui dall'assassino di suo marito. Noi siamo i funzionari che condurranno le indagini sulla morte del signor Jiménez e ho ritenuto importante vedere il filmato immediatamente. Se avessimo immaginato che sarebbe arrivata così presto…»
«Ci conosciamo, Inspector Jefe? Ci siamo già incontrati?»
Si girò a guardarlo in faccia, il soprabito scuro dal collo di pelliccia aperto sull'abito nero: non certo il tipo da farsi sorprendere abbigliata in modo inappropriato, qualsiasi fosse l'occasione. Lo investì con tutta la forza del suo fascino. L'acconciatura dei capelli biondi non era perfetta come nella foto sulla scrivania, ma dal vivo gli occhi erano più grandi, più azzurri. E più gelidi. Una linea scura disegnava il contorno delle labbra, che controllavano e dirigevano la voce dominatrice, in caso qualcuno fosse stato tanto sciocco da pensare di poter disubbidire a quella bocca morbida, arrendevole.
«Non credo», rispose Falcón.
«Falcón…» ripeté la donna, giocherellando con gli anelli sulle dita mentre lo osservava da capo a piedi. «No, è troppo ridicolo.»
«Che cosa, se posso chiederlo, Doña Consuelo?»
«Che l'artista Francisco Falcón possa avere un figlio Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla.»
Lo sa, pensò Falcón… Chissà come aveva fatto.
«Dunque… questo filmato», riprese la signora Jiménez, girandosi verso Ramírez, il soprabito scostato, le mani sui fianchi.
Gli occhi di Calderón sfiorarono il seno della donna prima di fissarsi in quelli di Falcón al di sopra della spalla sinistra di lei. Falcón scosse lentamente il capo.
«Non credo vi sia qualcosa che lei debba vedere, Doña Consuelo», obiettò il giovane giudice.
«Perché? È violento? Non mi piace la violenza», affermò la donna, senza distogliere lo sguardo dalla faccia di Ramírez.
«Non c'è violenza fisica», spiegò Falcón, «ma credo che lo troverebbe sgradevole e invasivo.»
Un cigolio dal videoregistratore: la cassetta continuava a girare. La signora Jiménez prese il telecomando sulla scrivania, riavvolse il nastro e premette
Calderón si passò di nuovo le dita tra i capelli. «Avreste dovuto impedirglielo», disse, nel tentativo di liberarsi di una parte di responsabilità. I due poliziotti non aprirono bocca. Il giudice guardò l'ora sul suo sofisticato orologio e annunciò che era costretto a lasciarli. Si accordarono per vedersi nel pomeriggio alle cinque all'Edificio de los Juzgados, per presentare i primi elementi di prova.
«Ha visto quella fotografia laggiù, vicino alla finestra?» domandò Falcón.
«Quella con León e Bellido?» rispose Calderón. «Sì, l'ho vista, e, se la osserva con attenzione, ne vedrà anche una con il Magistrado Juez Decano de Sevilla. Spinola, il vecchio Occhio di falco in persona.»
«Non mancheranno le pressioni, in queste indagini», commentò Ramírez.
Calderón si passò il telefonino da una mano all'altra, poi lo fece scivolare in tasca e uscì.
III
Falcón incaricò Ramírez di interrogare i manovali della ditta di traslochi, in modo particolare di chiedere loro quando fossero arrivati e ripartiti e se la loro attrezzatura fosse mai rimasta incustodita.
«Crede che sia entrato così?» domandò Ramírez, un uomo che, per sua natura, era incapace di limitarsi a eseguire.
«Non è facile entrare e uscire da questo palazzo senza essere notati», rispose Falcón. «Se la domestica conferma di aver trovato la porta chiusa a chiave stamani quando è arrivata, è possibile che l'assassino abbia usato l'autoscala per entrare. Se non era chiusa, allora dovremo controllare le registrazioni delle telecamere di sicurezza.»
«Una bella resistenza nervosa, aspettare qui più di dodici ore, Inspector Jefe», osservò Ramírez.
«E poi scivolare via quando la domestica è fuggita dopo aver trovato il cadavere.»
Ramírez si morse il labbro inferiore, poco convinto della possibile esistenza di un essere umano dotato di simili nervi d'acciaio, e lasciò la stanza come se temesse di poter essere trattenuto da altre domande.
Falcón sedette alla scrivania di Raúl Jiménez. Tutti i cassetti erano chiusi a chiave. Ne scelse a caso una dal mazzo posato sul piano e aprì i cassetti laterali, poi scoprì che con un'altra delle chiavi poteva aprire quello centrale. Trovò qualcosa soltanto nei due cassetti superiori ai lati. Falcón frugò in un mucchietto di conti, tutti recenti. Una fattura attirò la sua attenzione, non tanto perché fosse di un ambulatorio veterinario per la vaccinazione di un cane quando non c'era traccia di cani nell'appartamento, quanto perché era stata emessa dall'ambulatorio di sua sorella e la firma era la sua. La cosa lo disturbò, il che era illogico. Cercò di cancellare quel particolare dalla mente, considerandolo un'altra apparente coincidenza.
Esaminò il contenuto del cassetto centrale, parecchie scatole vuote di Viagra e quattro videocassette dai titoli eloquenti quali
«Ha trovato la persona che cercava?» domandò la voce della signora Jiménez alle sue spalle.
Si era tolta il soprabito e, gli occhi cerchiati di rosso nonostante il trucco restaurato, si appoggiava alla spalliera di una sedia.
«Mi dispiace che abbia visto», disse Falcón, accennando al televisore.
«Ero stata avvertita», ribatté lei, estraendo un pacchetto di Marlboro Light dalla tasca del cardigan nero e accendendone una con il Bic posato sulla scrivania. Gli offrì una sigaretta prima di gettare il pacchetto sul tavolo. Falcón scosse la testa: era ormai abituato a quell'esame rituale e non se ne curava. Serviva a dare tempo anche a lui.
L'uomo vide davanti a sé una donna più o meno della sua stessa età, dall'aspetto molto curato, forse sin troppo curato. Le dita, con le unghie troppo lunghe e troppo rosse, erano cariche di anelli e gli orecchini che ammiccavano dal caschetto biondo le appesantivano i lobi. Il trucco, nonostante si trattasse di un ritocco, era stato applicato pesantemente. Il cardigan era l'unica cosa semplice nel suo aspetto. L'abito nero sarebbe andato bene, se non fosse stato per una bordura di pizzo che, in luogo di far pensare al lutto, richiamava maldestramente qualcosa di sessuale. Le spalle erano ampie, il busto eretto, le forme piene, ma senza traccia di grasso in eccesso. I muscoli del collo che le incorniciavano la laringe e i polpacci ben delineati dalle calze nere suggerivano la frequentazione di centri di benessere e di palestre. Si poteva definirla una bella donna.
Lei, dal canto suo, vide davanti a sé un uomo in buona forma fisica, con un abito dal taglio perfetto e i capelli folti prematuramente ingrigiti, un uomo che tuttavia, come tanti del suo genere, non avrebbe mai pensato di restituire loro il nero originario. Portava scarpe con i lacci e dal modo in cui erano stati stretti si capiva che Falcón non era il tipo da sbottonarsi con facilità. Il fazzoletto spuntava dal taschino della giacca, un fazzoletto immancabile secondo lei, ma che certamente non veniva mai usato. Probabilmente possedeva una gran quantità di cravatte e le portava sempre, anche nei weekend, forse perfino a letto. Vide un uomo chiuso, impacchettato e legato, un uomo che non si apriva mai, il che, anche se lei ne dubitava, era forse una deformazione professionale. Consuelo Jiménez non vedeva davanti a sé un sivigliano, non un sivigliano normale, comunque.
«Doña Consuelo, poco fa ha affermato che tra lei e suo marito non esistevano segreti, o quasi.»
«Dovremmo metterci a sedere», replicò la donna indicando con le dita che stringevano la sigaretta la poltrona del marito dietro la scrivania. Fece ruotare con una certa destrezza quella dei visitatori, per poi sedersi con una mossa rapida appoggiandosi a un bracciolo, le gambe accavallate così da far salire l'orlo di pizzo sul polpaccio.
«È sposato, Inspector Jefe?»
«Questa è un'indagine sull'omicidio di suo marito», affermò asciutto Falcón.
«È pertinente.»
«
La donna aspirò il fumo, toccandosi la punta delle dita con il pollice, come se contasse.
«Non c'era bisogno che specificasse questo particolare, sarebbe bastato rispondere 'sì'.»
«Non possiamo perdere tempo con questi giochetti», ribatté Falcón. «Ogni ora che passa ci allontana dal momento della morte di suo marito e queste sono ore importanti; contano più di quelle, diciamo, dei prossimi tre o quattro giorni.»
«È separato da sua moglie?»
«Doña Consuelo…»
«Sarò breve», lo interruppe lei, scacciando con la mano il fumo tra loro.
«Ci siamo separati.»
«Dopo quanto tempo?»
«Diciotto mesi.»
«Come l'aveva conosciuta?»
«È un pubblico ministero, ci siamo incontrati al palazzo di giustizia.»
«Un'unione tra cercatori della verità, allora», commentò lei e Falcón cercò dell'ironia nella sua osservazione.
«Non stiamo facendo progressi, Doña Consuelo.»
«Io credo di sì.»
«Può darsi che io stia soddisfacendo la sua curiosità, ma…»
«È più che curiosità.»
«Lei sta ribaltando la procedura. Sono
«Per scoprire se ho ucciso mio marito. O se l'ho fatto uccidere.»
Silenzio.
«Vede, Inspector Jefe, lei verrà a sapere tutto di noi, scaverà nella nostra esistenza, scoprirà ogni cosa sugli affari di mio marito, frugherà nella sua vita privata, tirerà fuori le sue piccole miserie, i suoi filmetti a luci rosse, le sue puttane da quattro soldi, le sue sigarette da poco prezzo.»
Si sporse in avanti, prese il pacchetto di Celtas e lo fece scivolare sulla superficie della scrivania mandandolo a cadere in grembo a Falcón.
«E non mi lascerà in pace, sarò io la sua principale sospettata. Lei ha visto quella cosa orribile», soggiunse la signora Jiménez accennando al televisore alle sue spalle.
«Calle Río de la Plata 17?»
«Esattamente. Il mio amante, Inspector Jefe. Senza dubbio parlerà anche con lui.»
«Come si chiama?» domandò Falcón, tirando fuori la penna e il taccuino, per la prima volta finalmente convinto di essere al lavoro.
«È il terzo figlio del Marqués de Palmera. Si chiama Basilio Tomás Lucena.»
Aveva avvertito una punto di orgoglio nella risposta? Falcón prese nota.
«Quanti anni ha?»
«Trentasei, Inspector Jefe. Ma io non avevo ancora finito di spiegarle…»
«Però stiamo facendo progressi.»
«Aveva conosciuto un altro?»
«Chi?»
«Il suo pubblico ministero.»
«Questo non è…»
«L'aveva conosciuto?»
«No.»
«Dev'essere dura», affermò la donna, «credo che sia molto più dura.»
«Che cosa?» domandò Falcón, pentendosi subito di essere caduto nella trappola.
«Essere lasciato perché lei preferiva stare da sola.»
La risposta lo trapassò come un ago incandescente. Lentamente Falcón rialzò la testa.
La signora Jiménez si guardava intorno come se non fosse mai stata lì.
«Sapeva che suo marito faceva uso di Viagra?»
«Sì.»
«Il suo medico lo sapeva?»
«Immagino di sì.»
«Lei deve essere stata consapevole dei rischi, per un uomo di più di settant'anni.»
«Era forte come un toro.»
«Aveva perso peso.»
«Ordini del dottore. Colesterolo.»
«Doveva essere una persona molto attenta alla sua salute.»
«Lo ero io per lui, Inspector Jefe.»
«Come ristoratore, con tutto quel cibo in giro, avrei creduto che…»
«Assumo e dirigo io tutto il personale dei ristoranti», lo interruppe la donna. «Erano minacciati di licenziamento in tronco, nel caso gli avessero dato anche soltanto una briciola.»
«È stata costretta a licenziarne molti?»
«Sono sivigliani, Inspector Jefe, e, come probabilmente sa, i sivigliani raramente prendono qualcosa sul serio. Ne abbiamo persi tre prima che capissero.»
«Io sono sivigliano.»
«Allora deve aver vissuto altrove a lungo per acquistare la sua… severità.»
«Sono stato dodici anni a Barcellona, quattro a Saragozza e quattro a Madrid prima di tornare qui.»
«Non sembra una promozione.»
«Mio padre si era ammalato. Ho chiesto il trasferimento per stargli vicino.»
«Si è ripreso?»
«No. Non è riuscito ad arrivare al nuovo millennio.»
«Ma noi ci siamo già conosciuti, Inspector Jefe», disse la donna, spegnendo il mozzicone di sigaretta.
«Allora non lo ricordo.»
«È stato al funerale di suo padre. Stiamo parlando di Francisco Falcón, non è così?»
«Non riusciva a crederci, vero?» ribatté Falcón, pensando: vediamo se questo ti fa cambiare tono.
«Era lui che cercava nelle foto?» domandò la donna e l'uomo annuì. «Non lo troverà. Non era il genere di celebrità di Raúl. Non frequentava mai i nostri ristoranti, dubito che si conoscessero. Sono stata al funerale perché
Falcón cercò di immaginare suo padre con Consuelo Jiménez. Gli erano sempre piaciute le donne attraenti, specialmente se compravano i suoi stupidi quadri… ma questa? Forse, però, si sarebbe interessato a quella creatura che vestiva in modo vagamente eccessivo, con un rasoio al posto della lingua e una buona capacità di intuizione. La gente che comprava i suoi quadri in genere cercava di dire qualcosa di «intelligente». Come se ci fosse stato qualcosa di intelligente nella sua pittura. Consuelo Jiménez no. Lei avrebbe trovato parole diverse da dire a suo padre, avrebbe forse fatto un'osservazione personale, perfino tentato di scoprire il suo gioco, cosa che gli altri, sotto il riflesso abbagliante della sua fama colossale, non avrebbero mai osato fare. Sì. Suo padre sarebbe stato attratto da lei. Senza alcun dubbio.
«Così era completamente coinvolta nell'attività di suo marito?» domandò.
«Che cosa ne è stato della casa in calle Bailén?»
«Ci vivo io. E lei lo saprebbe certamente se suo marito avesse qualche nemico, non è vero?»
«Ci vive da solo?»
«Proprio come mio padre», rispose Falcón. «Suo marito… deve aver calpestato parecchie persone prima di raggiungere la vetta. Probabilmente molti là fuori sarebbero…»
«Sì, molti sarebbero contenti di vederlo morto, specialmente quelli che lui aveva corrotto e che ora sono liberi dal peso dei loro obblighi.»
Un'unghia indicò con derisione l'estremità della galleria fotografica, quella dei funzionari.
«Se è al corrente di qualcosa… potrebbe essere d'aiuto.»
«Non mi dia retta, sto scherzando», disse Consuelo Jiménez. «Se ci fosse stata corruzione io non lo avrei saputo direttamente. Io dirigevo i ristoranti, curavo l'arredamento, mi occupavo delle decorazioni floreali, controllavo che i prodotti della cucina fossero di prima qualità. Ma, come può immaginare anche senza aver conosciuto mio marito, non sono entrata mai in contatto nemmeno con una peseta di denaro vero e nemmeno ho mai trattato con la gente di potere, legale o no, che ha permesso a Raúl di costruire, che gli assicurava le licenze e che faceva in modo che non vi fossero… imprevisti.»
«Perciò è possibile che…»
«Molto improbabile, Inspector Jefe. Se c'è qualcosa di marcio in quel settore, nei ristoranti lo si avverte subito e nessun cattivo odore ha mai raggiunto il mio naso.»
Falcón decise di aver dato mano libera a quella donna troppo a lungo. Era venuto il momento che si rendesse veramente conto di ciò che era accaduto in quella stanza, che smettesse di considerarla una notizia che non la toccava personalmente. Era tempo di farle cambiare idea.
«In questo istante stanno eseguendo l'autopsia sul corpo di suo marito. Dovremo poi recarci all'Instituto Anatómico Forense in modo che lei possa identificare il cadavere. Potrà rendersi conto che l'assassinio di suo marito è stato del tutto insolito, il più insolito che io abbia mai visto nella mia carriera.»
«Ho visto con i miei occhi il genere di produzione messa in scena dall'assassino, Inspector Jefe. Per spiare in quel modo una famiglia bisogna essere profondamente disturbati.»
«Lei ha visto le ultime immagini della cassetta e forse non ha compreso ciò che stava vedendo. Suo marito si stava intrattenendo con una prostituta, qui, ieri sera. L'assassino ha filmato tutto. Crediamo che sia entrato nell'appartamento molto tempo prima, verso mezzogiorno, approfittando dell'autoscala della ditta di traslochi, e che si sia nascosto qui, aspettando il suo momento.»
La donna spalancò gli occhi. Afferrato il pacchetto di sigarette, ne accese una e si passò una mano sulla fronte.
«Sono stata qui ieri pomeriggio con i miei figli prima di andare all'hotel Colón», disse, in piedi ora, camminando su e giù davanti alla scrivania.
«Abbiamo trovato suo marito seduto su quella sedia», spiegò Falcón, senza staccarle gli occhi di dosso. «Gli avambracci, le caviglie e la testa erano stati legati alla sedia con un filo elettrico. Era scalzo, perché i calzini erano stati usati per imbavagliarlo. Lo avevano costretto a guardare qualcosa sullo schermo, qualcosa di così orribile che lui ha lottato con tutte le sue forze per cercare di sottrarsi.»
Mentre parlava Falcón si rese conto che ciò era vero soltanto in parte: l'orrore sullo schermo probabilmente era stato l'inizio, ma Raúl Jiménez era stato indotto a dibattersi convulsamente perché, risvegliandosi dalla sua agonia, aveva scoperto che un pazzo gli aveva asportato le palpebre. In quel momento doveva aver compreso di non aver più niente da perdere e aveva cominciato a lottare disperatamente finché il cuore aveva ceduto.
«Che cosa era stato obbligato a guardare?» domandò la signora Jiménez confusa. «Io non ho visto…»
«Ciò che ha visto conteneva una certa dose di orrore che la toccava personalmente, sapere di essere spiati dà i brividi, ma non è certamente così orrendo da spingere all'automutilazione pur di non dover guardare.»
La donna, che era tornata a sedersi dritta sulla poltrona, le ginocchia strette come una bambina beneducata, si sporse in avanti e si afferrò le caviglie, ripiegandosi su se stessa.
«Non riesco a immaginare», disse dopo un po', «non riesco a immaginare niente di così terribile.»
«Nemmeno io», ammise Falcón.
La signora Jiménez aspirò una boccata di fumo, poi lo sputò quasi ne fosse disgustata. Falcón la osservava, cercando un indizio di finzione nel suo atteggiamento.
«Non ci riesco», ripeté la donna.
«Deve sforzarsi, Doña Consuelo, perché dovrà ripensare a ogni minuto trascorso con Raúl Jiménez e dovrà dirmi anche tutto ciò che sa della sua vita prima che vi incontraste, dovrà dire tutto… a me e allora, forse, noi due insieme potremo trovare la piccola crepa, la…»
«La piccola crepa?»
La mente di Falcón si vuotò. Di quale crepa stava parlando? Di una fessura. Di un'apertura. Ma su che cosa?
«Potremo scoprire qualcosa che ci permetta di dare uno sguardo all'interno. Sì, uno sguardo all'interno.»
«Su che cosa?»
«Su ciò di cui suo marito aveva paura.» Falcón perse il filo dei suoi pensieri.
«Mio marito non aveva niente da temere. Non c'era niente di spaventoso nella sua vita.»
Falcón riprese il controllo. Paura? A che cosa aveva pensato? Che cosa stava per rivelargli la paura di quell'uomo?
«Suo marito aveva gusti particolari», riprese Falcón, tastando il pacchetto di Celtas. «Eccoci qui, in uno dei condomini più prestigiosi di Siviglia, o perlomeno lo era quindici anni fa…»
«Cioè quando abbiamo comprato l'appartamento», lo interruppe lei. «A me non è mai piaciuto, qui.»
«E dove stavate per trasferirvi?»
«A Heliópolis.»
«Un luogo altrettanto lussuoso», osservò Falcón. «Suo marito possedeva quattro tra i migliori ristoranti di Siviglia, frequentati da gente danarosa, potente, celebre, eppure… Celtas. E le fumava togliendo il filtro. Eppure… una prostituta da poco prezzo raccolta sull'Alameda.»
«Si tratta di cosa recente. Risale a non più di due anni fa, quando è stato scoperto il Viagra. Per tre anni prima di allora è stato impotente.»
«I suoi gusti in fatto di tabacco probabilmente derivano dal tempo in cui era povero. Quando?»
«Non lo so, non ne parlava mai.»
«Da dove veniva?»
«Non parlava mai nemmeno di questo; quelli della sua generazione non amano rivangare il passato, un passato che per noi spagnoli non è poi tanto glorioso.»
«Che cosa sa dei genitori di suo marito?»
«Sono morti entrambi.»
Consuelo Jiménez non lo guardava più, i suoi occhi di ghiaccio azzurro vagavano irrequieti per la stanza.
«Quando vi siete conosciuti?»
«Alla Feria de Abril nel 1989. Ero stata invitata nella sua
«Lei aveva passato da poco i trent'anni, non è vero? E lui ne aveva sessanta.»
Un'ultima, lunga boccata, poi Consuelo Jiménez spense con forza la sigaretta, si avvicinò alla finestra divenendo una sagoma scura contro il cielo di un azzurro brillante e incrociò le braccia sul petto.
«Sapevo che sarebbe successo», disse alla fine, le labbra quasi a contatto con il vetro freddo. «Questo scavare, questo rivoltare tutto. Perciò ho preteso qualcosa da lei prima che cominciasse. Non volevo vomitare la mia vita dentro gli ingranaggi della polizia, i meccanismi che incapsulano la vita della gente e la riducono in formato A4, che non hanno spazio per le sfumature e le ambiguità, che non vedono il grigio, ma solo il bianco e il nero e in realtà soltanto il nero.»
La donna si voltò e Falcón si spostò sulla sedia, cercando di vedere meglio il suo viso; accese la lampada sulla scrivania e ricominciò lo studio di Consuelo Jiménez in quella luce più calda. Forse la durezza che la donna aveva mostrato all'inizio l'aveva imparata vivendo con Raúl Jiménez e lavorando per lui. L'abito, i gioielli, le unghie, i capelli… forse era stato Raúl a volerla così e lei li indossava come un'armatura.
«Il mio lavoro è arrivare alla verità», le disse. «Lo faccio da più di vent'anni. In questo periodo io… e la scienza dell'investigazione abbiamo elaborato centinaia di tecniche che ci aiutano ad arrivare a una verità dimostrabile. Vorrei poterle dire che è ormai una scienza esatta, che è
«Dopotutto forse il suo lavoro non è tanto diverso da quello di suo padre.»
«Non capisco.»
«Lasci perdere», tagliò corto la donna. «Mi chiedeva come ci siamo conosciuti mio marito e io. La differenza di età.»
«Ho soltanto trovato insolito che una donna attraente di poco più di trent'anni…»
«Potesse stare con un vecchio rospo come Raúl», terminò lei. «Sono certa di poter trovare una spiegazione soddisfacente, qualcosa sulla stabilità economica e affettiva dell'uomo maturo, ma credo che noi due ci comprendiamo, non è così? Perciò le dirò le cose come stanno. Raúl Jiménez non mi ha dato tregua, mi ha fatto pressione, mi ha messo alle corde, mi ha supplicato. Mi ha stremato al punto che non ho resistito e gli ho detto di sì. E dopo aver passato mesi a evitare quella parola, in effetti a dire no, no, no, una volta pronunciato, quel 'sì' mi ha… mi ha liberato.»
«Liberato da che?»
«Immagino che abbia conosciuto delle delusioni», disse la signora Jiménez. «Quando sua moglie l'ha lasciata, per esempio. Quanti anni aveva sua moglie, a proposito?»
«Trentadue», rispose Falcón, senza più opporsi alle sue digressioni.
«E lei?»
«Quarantaquattro a quel tempo.»
Doña Consuelo sedette nella poltrona di pelle con le gambe accavallate e fece girare il sedile da una parte all'altra.
«Come avrà già capito, io non sono di Siviglia», disse. «Vivo qui da più di quindici anni ma non sono una di loro, sono
«Nel 1984, quando lavoravo in una galleria d'arte, mi innamorai di un cliente, il figlio di un duca. Non l'annoierò con i particolari… le dirò solo che rimasi incinta. Lui mi disse che non potevamo sposarci e mi pagò il viaggio in aereo fino a Londra per abortire. Ci salutammo all'aeroporto di Barajas e da quella volta l'ho rivisto soltanto sulle pagine di
«Da come parla si direbbe che fosse pazzo di lei. Avete avuto tre figli. Sembra che lavorare per lui le sia piaciuto. La decisione di accettare la sua proposta, come ha detto lei stessa, deve averle semplificato la vita.»
La signora Jiménez frugò nei cassetti della scrivania finché non ebbe trovato un mucchietto di vecchie foto in bianco e nero fra le quali cercò rapidamente, scegliendone una che si premette sul petto.
«Sì, me l'ha semplificata», disse, «fino a quando non ho visto questa…»
Gli porse la fotografia e Falcón fece passare lo sguardo dall'immagine a lei e viceversa.
«Se non fosse per il neo sul labbro, non riuscirebbe a distinguerci, non è vero, Inspector Jefe? Sembra anche che fosse un po' più bassa di me.»
«Chi è?»
«La prima moglie di Raúl», rispose la donna. «Ora capisce, Inspector Jefe, Consuelo una volta, Consuelo per sempre.»
«E che ne è stato di lei?»
«Si è suicidata. Nel 1967. Aveva trentacinque anni.»
«Per qualche ragione?»
«Raúl diceva che era cronicamente depressa. Quello era il suo terzo tentativo. Si è gettata nel Guadalquivir, non da un ponte, però, dalla riva, una cosa che mi è sempre parsa strana. Non spegnersi con le pillole per dormire, non punirsi selvaggiamente tagliandosi i polsi, non tuffarsi nell'oblio in modo che tutti vedano, ma buttarsi via.»
«Come immondizia.»
«Sì. Suppongo di sì», convenne la donna. «Raúl non mi ha mai parlato di questo, tra parentesi. L'ho saputo da un suo vecchio amico del tempo di Tangeri.»
«Io sono cresciuto a Tangeri», osservò Falcón, il suo cervello incapace di resistere a un'ennesima coincidenza apparente. «Come si chiamava l'amico di suo marito?»
«Non ricordo. È stato dieci anni fa e davvero troppi nomi mi sono passati davanti dopo di allora. Lavorando nei ristoranti, capisce…»
«Suo marito ha avuto figli da quel matrimonio?»
«Sì. Due. Un maschio e una femmina. Avranno cinquant'anni ora, o quasi. La figlia… sì, questo è interessante. Circa un anno dopo il nostro matrimonio arrivò qui una lettera da un posto che si chiamava San Juan de Dios.»
«È un centro per malattie mentali nei dintorni di Madrid, a Ciempozuelos.»
«Come sa ogni
«E il figlio?»
«Non l'ho mai conosciuto. Raúl non si lasciava convincere ad affrontare quell'argomento. Per lui era un capitolo chiuso, finito. Non si parlavano e io non so nemmeno dove viva, anche se ora dovrò cercare di scoprirlo, immagino.»
«Conosce il nome?»
«José Manuel Jiménez.»
«E il cognome della madre?»
«Bautista, sì, e aveva un nome strano: Gumersinda.»
«I figli erano nati a Tangeri?»
«Sì, penso di sì.»
«Farò una ricerca via computer.»
«Non ne dubito.»
«Non parlava mai di Tangeri, suo marito?»
«Si tratta di
«E vicino al fiume.»
«Sì, lei deve aver guardato molto il fiume. Può esercitare una forza ipnotica, un fiume di notte. Acque nere, lente, che non sembrano così pericolose.»
«Che cosa sa di suo marito e…»
«Lo chiami Raúl, Inspector Jefe.»
«… e delle sue relazioni personali e di affari tra, diciamo, la morte della prima moglie e il vostro incontro alla Feria nel 1989?»
«È storia vecchia, Inspector Jefe. Crede che sia importante?»
«No, ma è per capire lo sfondo. In una sola mattina devo sapere tutto su una vita intera. Devo inserire la vittima nel giusto contesto, se voglio avere una possibilità di scoprire il movente. Nella maggior parte dei casi, le vittime sono uccise da gente che conoscono…»
«O che credono di conoscere.»
«Precisamente.»
«L'assassino ci conosceva, non è vero? La felice famiglia Jiménez.»
«
Del tutto inaspettatamente il viso di lei si contrasse e la donna si mise a piangere, scoppiando in singhiozzi strazianti e lasciandosi cadere in ginocchio. Falcón avanzò verso di lei, incerto sul da farsi in una situazione del genere. Consuelo Jiménez avvertì la sua presenza e gli tese una mano. Falcón le porse una scatola di fazzoletti di carta, indugiando accanto a lei come un goffo cameriere. La signora Jiménez tornò ad accasciarsi nella poltrona, ansante, gli occhi neri e scintillanti.
«Mi stava chiedendo delle relazioni personali e di affari», disse alla fine, lo sguardo fisso nel vuoto fuori dalla finestra.
«Aveva quarantaquattro anni quando morì la prima moglie. Non posso credere che sia vissuto per vent'anni senza…»
«Naturalmente ci sono state altre donne», lo interruppe lei brusca, in collera ora, probabilmente furiosa con lui a causa della sua curiosità e dell'inutilità di tali domande. «Quante non so, immagino che fossero molte, ma nessuna per lungo tempo. Più d'una ha cercato di vedermi… di vedere la conquistatrice della devozione di Raúl. La maggior parte di loro aveva affilato le unghie, pronta a graffiare. Sa come sono riuscita a liberarmene, Inspector Jefe? Ho dato loro la soddisfazione di credermi una sciocca puttanella. Sa, un pochino
«E gli affari?»
«Raúl ha aperto i ristoranti dopo il boom del turismo degli anni '80, quando la gente ha scoperto che in Spagna non c'era soltanto la Costa del Sol. All'inizio è stato per divertimento. Era un uomo molto socievole e non vedeva perché mai non dovesse ricavare del denaro da ciò. Il primo locale è stato quello a El Porvenir, per i suoi amici ricchi, poi ne ha aperto uno a Santa Cruz per i turisti, così come l'altro, grande, vicino a plaza de la Alfalfa. Dopo il nostro matrimonio ne ha aggiunti due sulla costa e l'anno scorso abbiamo inaugurato quello a La Macarena.»
«Come ha cominciato a fare soldi?»
«Ne ha fatti molti a Tangeri, dopo la Seconda guerra mondiale, quando la città era un porto franco. In quei giorni c'erano migliaia di aziende là. Raúl aveva perfino una banca sua e un'impresa di costruzioni. Era un posto dove ci si arricchiva facilmente allora, come certamente saprà.»
«Ero molto piccolo, non ho nessun ricordo della città», disse Falcón.
«Negli anni '60 ha fondato una compagnia di trasporti qui a Siviglia e credo che per un certo tempo abbia avuto anche una fabbrica siderurgica. Poi si è dedicato alle proprietà immobiliari ed è diventato socio di un'impresa edile, la Hermanos Lorenzo, che ha lasciato nel 1992.»
«Sono rimasti in buoni rapporti?»
«I Lorenzo sono clienti abituali dei nostri ristoranti. Noi abbiamo portato i bambini nella loro casa di Marbella ogni estate fino a quando Raúl non si è stancato.»
«E così, a parte la morte della moglie e la pazzia della figlia, lei non crede che vi siano stati altri problemi importanti nella vita di Raúl?»
La signora Jiménez rimase per un po' in silenzio, guardando fuori dalla finestra, dondolando un piede, la scarpa quasi sfilata.
«Sto cominciando a pensare che Raúl fosse la quintessenza dello spagnolo, forse anche del sivigliano. La vita è una
«Forse anche un modo per tenere a bada la malinconia, un antidoto», ribatté Falcón, non trovandosi d'accordo con lei, pensando che anche lui era spagnolo e che non si considerava infelice.
«No, un antidoto no, perché la sua
«E lei non ne ha mai scoperto la ragione profonda?»
«Non voleva che la scoprissi e non lo desideravo nemmeno io. Aveva capito molto presto che, se visivamente io ero la sostituta di sua moglie, non ero, tuttavia, il suo clone. Dopo avermi corteggiato in modo folle, non è assolutamente riuscito ad amarmi. Credo, in realtà, di averlo reso ancora più infelice, ricordandogli continuamente la donna che aveva perso. Però ha tenuto fede ai patti, lo dico a suo credito.»
«Quali patti?»
«Era deciso a non volere altri figli, mentre io li desideravo molto. Gli avevo detto che non lo avrei sposato, se non mi avesse voluto dare dei bambini. Così… ci siamo accoppiati, credo che sia la parola giusta, nelle tre occasioni necessarie. Per il più piccolo ce l'ha fatta a stento. Il Viagra non era ancora stato scoperto.»
«E così lei si è trovata Basilio Lucena.»
«Non ho ancora finito di parlare dei miei figli», ribatté seccamente la donna. «Dopo aver detto di non volerli, è letteralmente impazzito per loro, era protettivo in modo incredibile, ossessivo. Era fissato con la sicurezza. Qualcuno doveva sempre andarli a prendere a scuola, non uscivano mai da soli, non potevano nemmeno giocare senza essere sorvegliati. E ha visto la porta d'ingresso dell'appartamento? È stata blindata dopo la nascita del nostro ultimo figlio. Sei sbarre d'acciaio sono incorporate nella struttura e con cinque giri di chiave vengono inserite nel muro. Neppure in ufficio abbiamo una porta così, sebbene là ci sia una cassaforte.»
«Di regola chi chiudeva a chiave la porta, la sera?»
«Lui. A meno che fosse lontano e in quel caso mi chiamava all'una o alle due di notte per assicurarsi che lo avessi fatto.»
«La chiudeva anche quando era solo in casa?»
«Sono sicura di sì. Ripeteva di continuo che doveva diventare un'abitudine, solo così non ce ne saremmo dimenticati.»
«Non gli ha mai chiesto la ragione di tale comportamento un po' strano, ossessivo?»
«Mi commuoveva pensare che tenesse tanto ai nostri figli.»
Ramírez chiamò sul cellulare. Aveva finito con gli addetti ai traslochi: non era stato facile farli parlare, ma alla fine avevano ammesso di essersi allontanati durante l'intervallo di mezzogiorno, lasciando sul posto l'autoscala, perché bisognava portare giù un altro cassettone. L'autoscala non funzionava se il motore non era acceso, ma la piattaforma saliva su binari che di per sé erano praticamente una scala. Nessuno era tornato nell'appartamento dopo che il cassettone era stato calato. Falcón gli ordinò di controllare le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso insieme a Fernández e al portiere, e riattaccò.
«Vorrei parlare di Basilio Lucena», disse.
«Non c'è niente di cui parlare.»
«Avevate qualche progetto?»
«Progetto?»
«Suo marito era vecchio. Non le è mai venuto in mente…?»
«No… mai. Basilio e io stiamo bene insieme, andiamo anche a letto, naturalmente, ma non è una grande passione. Non siamo innamorati.»
«Stavo ripensando a quel figlio del duca di cui mi ha parlato.»
«Era una cosa diversa», affermò lei. «Non ho nessuna intenzione di approfondire la relazione con Basilio. In effetti credo che potrei anche mettere fine in questo istante alla mia storia con lui.»
«Davvero?»
«Sarò al centro dell'attenzione generale. Credevo, dato che ha un padre famoso, che lei avrebbe capito. Ci saranno chiacchiere e voci maligne, non dissimili dai sospetti che lei è pagato dallo stato per nutrire. Pettegolezzi, certo… ma cattivi, e io voglio proteggere i miei figli.»
«Era lei o suo marito ad avere nemici?»
«La gente mi giudica come una donna non all'altezza del suo sposo, dipendente da lui, una che, nella vita, sarebbe stata un fallimento, se non avesse incontrato Raúl Jiménez. Ma se ne accorgeranno», soggiunse, contraendo i muscoli del viso, «se ne accorgeranno.»
«Conosce i termini del testamento di suo marito?»
«Non l'ho mai visto firmare un testamento, ma sapevo quali fossero le sue intenzioni. Avrebbe lasciato tutto a me e ai nostri figli, con qualche lascito alla figlia, alla sua
«Qual è?»
«Nuevo Futuro: in particolare gli interessavano i
«Ragazzi abbandonati, di strada?»
«Perché no?»
«In genere si aiutano le opere di carità per un motivo. Una moglie muore di cancro e il marito dona del denaro per la ricerca sui tumori.»
«Diceva di aver cominciato a dare il suo contributo dopo un viaggio in America centrale. Era stato molto colpito dalla piaga dei bambini rimasti orfani a causa delle guerre civili in quei paesi.»
«Forse era lui stesso un orfano della Guerra civile.»
Consuelo Jiménez si strinse nelle spalle. La penna di Falcón si spostò sul taccuino fino alla parola
«E le prostitute?» domandò, scaraventando la parola nella stanza. «Lei non ha visto la parte della cassetta che riguarda suo marito sull'Alameda. Avrebbe potuto permettersi di meglio in ambienti meno pericolosi. Perché pensa che…?»
«Non chieda a me perché gli uomini vadano con le prostitute», rispose la donna; poi, quasi in un ripensamento: «La sua infelicità, forse».
«Sulla quale lei non sa gettare alcuna luce.»
«Si parla di certe cose solo se si vuole o se se ne è capaci. Una sofferenza tale da rendere mio marito così infelice con ogni probabilità era sepolta tanto profondamente che nemmeno lui sapeva più che cosa fosse. Era il suo stato normale. Come si comincia a parlare di una cosa del genere?»
Le parole di Consuelo Jiménez produssero un momentaneo stato di assenza in Falcón. La sua mente balzò indietro alle prime ore dell'indagine e di nuovo si scontrò con la paura, con quel panico incombente. Camminava nel corridoio, così come aveva fatto anche l'assassino, lo stesso percorso verso la parete nuda con il gancio illuminato dalla luce proveniente dalla stanza degli orrori. E poi la faccia e gli occhi di quell'uomo e la terrificante implacabilità di ciò che essi avevano visto.
«Don Javier», disse la donna, riportandolo di colpo alla realtà: non aveva usato il suo titolo questa volta.
«Mi dispiace», si scusò, «mi ero perso. Ero altrove, per meglio dire.»
«Non in un luogo dove avrei voluto essere anch'io», osservò lei.
«Stavo soltanto riesaminando mentalmente una cosa.»
«Allora deve aver visto qualcosa di terribile. Ha detto lei stesso che l'assassinio di Raúl è il più insolito della sua carriera.»
«Sì, l'ho detto, ma questa è una cosa del tutto diversa», ribatté Falcón. E si trovò sull'orlo di una confessione: una situazione, pensò, in cui l'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios non avrebbe mai dovuto trovarsi.
IV
Le offrì un passaggio in macchina. La donna rifiutò e disse che sarebbe andata a casa di sua sorella. Falcón le domandò allora qualcosa sulla sorella, tanto per tenerla sotto pressione, e le ricordò che sarebbe passato a prenderla più tardi per accompagnarla all'Instituto Anatómico Forense, per l'identificazione del cadavere. Voleva interrogarla là, ancora traumatizzata dalla vista del corpo del marito, uno spettacolo che avrebbe cancellato in lei ogni traccia residua di autocompiacimento. Le chiese di sforzarsi di ricordare se, negli affari o nella vita personale di Raúl, vi fosse stato qualcosa di insolito nell'ultimo anno; le disse anche di telefonare subito ai ristoranti e di farsi dare i nomi delle tre persone licenziate per aver permesso al marito di mangiare più del dovuto, disubbidendo agli ordini. Era consapevole che si trattava di false piste, ma voleva suscitare in lei il timore della sua estrema accuratezza nelle indagini. Si strinsero la mano sulla porta dell'appartamento; la sua era sudata, quella della vedova fredda e asciutta.
Ramírez lo seguì nello studio di Jiménez.
«È stata lei», domandò, lasciandosi cadere sulla sedia con lo schienale rigido, «o l'ha fatto fare a qualcun altro, Inspector Jefe?»
Falcón rigirò la penna tra le dita.
«Notizie da Pérez all'ospedale?» domandò.
«La domestica è ancora in stato confusionale.»
«E le registrazioni delle telecamere?»
«Quattro persone non identificate dal portiere. Due individui maschi. Due femmine. Una delle donne mi sembra la puttana, ma ha un'aria molto giovane. Fernández ha portato tutto alla centrale per fare qualche stampa da mostrare in giro nel condominio.»
«E le altre uscite del palazzo? Il garage, per esempio.»
«In quel punto le telecamere non funzionano. Il portiere ha chiamato i tecnici stamani, ma non sono ancora arrivati. Semana Santa, Inspector Jefe.»
Falcón gli fornì i nomi e gli indirizzi degli impiegati licenziati raccomandando che fossero interrogati al più presto e Ramírez uscì. Falcón prese la fotografia della prima moglie di Raúl Jiménez, Gumersinda Bautista, chiamò la Jefatura e chiese di effettuare una ricerca su José Manuel Jiménez Bautista, nato a Tangeri alla fine degli anni '40, inizio anni '50.
Si appoggiò allo schienale sfogliando le altre foto con i loro volti senza nome, finché ne trovò una di Raúl Jiménez sul ponte di uno yacht. A malapena riconoscibile. Nessun indizio premonitore che lasciasse immaginare l'aspetto da rospo che avrebbe assunto in seguito: appariva bello e sicuro di sé, nell'atteggiamento di chi è cosciente di esserlo, le mani sui fianchi, le spalle erette, il petto in fuori. Falcón fece scorrere il pollice su quel torace, pensando che vi fosse una macchiolina sulla foto. La macchiolina non scomparve e, osservando meglio, Falcón si accorse che si trattava di una specie di ferita al muscolo pettorale destro, vicino all'ascella. Girò la foto: «Tangeri, luglio 1953», era scritto sul retro.
Suonò il cellulare. Il computer della polizia aveva trovato un indirizzo e un numero di telefono di Madrid per José Manuel Jiménez. Annotò tutto e chiese di Serrano e di Baena, altri due membri della sua squadra. Erano fuori per la Semana Santa. Ordinò che lo raggiungessero nell'appartamento di Jiménez.
Invece di ricontrollare i suoi appunti e programmare il successivo assalto alle raffinate difese di Doña Consuelo Jiménez, la quale, inutile negarlo, rimaneva la sua principale indagata, si scoprì a protendere la mano verso le vecchie istantanee. Vi erano alcune foto di gruppo, anche queste scattate a Tangeri, nel 1954 secondo le date sul retro. Esaminò i volti, convinto di essere ancora alla ricerca dell'immagine di suo padre, finché non si rese conto che si stava concentrando maggiormente sulle donne e si domandò se sua madre, morta sette anni dopo che quelle foto erano state scattate, potesse figurare tra quegli sconosciuti. Era affascinato dalla prospettiva di trovare una fotografia di lei, in compagnia di persone delle quali non aveva mai sentito parlare, in un periodo in cui non era ancora nato. Alcune facce erano troppo piccole e sgranate, così decise di portarsi le foto a casa per esaminarle con la lente d'ingrandimento.
Sfilò una sigaretta dal pacchetto di Celtas e l'annusò. Non fumava da quindici anni. Aveva smesso quando ne aveva trenta, lo stesso giorno in cui aveva troncato la sua relazione con Isabel Alamo, una relazione durata cinque anni. Le aveva spezzato il cuore, anche perché lei si era illusa che quel loro incontro si sarebbe concluso con una proposta di matrimonio. Il ricordo lo disturbò al punto da spingerlo a spezzare il filtro, prendere l'accendino e accendere la sigaretta. Un gusto orribile anche senza aspirare il fumo: Falcón la posò sul portacenere. Lasciò vagare i pensieri a un altro ricordo di Tangeri, il Capodanno del 1963. Era in piedi accanto alle scale, in pigiama; era piccolo, arrivava a malapena alla vita degli ospiti che stavano uscendo per recarsi al porto a vedere i fuochi d'artificio. Mercedes, la sua matrigna, la seconda moglie del padre, lo aveva preso in braccio per riportarlo a letto. Aveva quell'odore nei capelli, Celtas, qualcuno degli ospiti doveva aver fumato quella marca di sigarette. A Tangeri gli spagnoli erano ancora numerosi in quei giorni, anche se i bei tempi erano passati da un pezzo. Mercedes lo aveva messo a letto, lo aveva baciato, se l'era stretto con forza al petto. Falcón lasciò il ricordo a quel punto. Normalmente pensava a Mercedes soltanto quando gli capitava di avvertire il profumo Chanel N° 5, il suo preferito.
Un colpo bussato alla porta lo riportò al presente. Serrano e Baena erano in piedi nel corridoio.
«Avete fatto presto», disse Falcón.
I due uomini entrarono con una certa esitazione, a disagio, pensando che il commento avesse una sfumatura ironica, di rimprovero. Avevano impiegato quaranta minuti per arrivare.
«Traffico», disse Baena, per risolvere il problema in entrambi i casi.
Falcón rimase sconcertato nel vedere la sigaretta ridotta in cenere davanti a lui. Un'occhiata all'orologio lo lasciò stupefatto: erano le undici e non aveva ancora concluso niente. Scorse le sue annotazioni per controllare l'ora in cui, secondo Ramírez, gli uomini dei traslochi si erano allontanati per la colazione e ordinò a Serrano e a Baena di cercare nel vicinato un testimone che avesse visto una persona, probabilmente in tuta, salire sui binari dell'autoscala fino al sesto piano dell'Edificio Presidente.
Il Subinspector Pérez telefonò per dire che la domestica, Dolores Oliva, aveva finalmente ripreso conoscenza. Non c'era stato verso di farla parlare finché non aveva avuto un rosario in mano e per tutto il tempo del colloquio non aveva fatto altro che stringere un portachiavi con l'immagine della Virgen del Rocío. Era convinta di essere venuta in contatto con il male assoluto, entrato non si sa come nella casa. Falcón tamburellò con le dita sulla scrivania. Era sempre così con Pérez. L'accademia e undici anni sul campo non lo avevano guarito dalla necessità di trasformare un rapporto in una storia da raccontare. Gli occorsero otto minuti per riferire che Dolores Oliva aveva aperto la porta con cinque giri di chiave.
Falcón interruppe Pérez e gli disse di venire a Los Remedios prima possibile per controllare gli appartamenti del condominio, mostrando le immagini stampate delle persone non identificate riprese dalle telecamere. Occorreva anche dare un nome alla prostituta e trovarla. Riattaccò e vide che il Médico Forense gli aveva inoltrato un messaggio per informarlo che l'autopsia era stata completata e il rapporto scritto era quasi pronto. Rifletté per un attimo se fosse il caso di lasciare che Consuelo Jiménez vedesse il cadavere in tutto il suo orrore, poi decise che sarebbe stato meglio mantenere l'asportazione delle palpebre un fatto riservato. Richiamò il Médico Forense e gli chiese di rendere il cadavere pulito e presentabile.
Si avviò per andare a prendere Consuelo Jiménez a casa della sorella a San Bernardo e mentre scendeva per dirigersi alla sua auto chiamò Fernández e gli disse di mettersi in contatto con Pérez per controllare insieme gli appartamenti.
Dopo la penombra della casa la luce sulla strada sembrava accecante e l'aria quasi calda. Era sempre così per la Semana Santa e la Feria, un periodo tra i più incerti dell'anno, né caldo, né freddo, né asciutto, né umido. Né religioso, né laico. Salì in macchina e gettò il fascio di fotografie sul sedile, in cima quella di Gumersinda, la prima moglie di Raúl. Era un vero e proprio ritratto in cui la donna fissava intensamente l'obiettivo, ma furono le parole di Consuelo Jiménez a tornargli alla mente: «Non è assolutamente riuscito ad amarmi».
Due pensieri bizzarri si scontrarono nella sua mente, pompandogli adrenalina nell'organismo, tanto che mise in moto e uscì dal parcheggio senza badare a ciò che faceva. Uno stridere di pneumatici. Un grido soffocato di «
Eseguì l'inversione e attraversò il fiume sul puente del Generalísimo. I binari dello scalo ferroviario scorrevano sotto di lui e le gru formavano una guardia d'onore fino al massiccio puente del V Centenario che si ergeva al di sopra della foschia urbana. I suoi pensieri si sbrigliarono mentre si dirigeva a nord-est al di là del parque de Maria Luisa e provò un desiderio disperato della sigaretta che aveva lasciato a consumarsi nello studio di Raúl Jiménez. Erano state le parole di sua moglie, Inés, a tornargli alla mente, Inés che lui non era riuscito ad amare. Come Raúl. «Tu non hai cuore, Javier Falcón», e le parole si mescolavano all'immagine di Gumersinda, una donna di un'altra epoca, che aveva suscitato il ricordo di sua madre, Pilar, e della sua matrigna, Mercedes. Inés, Pilar, Mercedes, tre donne immensamente importanti per lui, verso le quali sentiva ora di avere, in certo modo, fallito.
Un'idea così nuova e strana che gli fece desiderare spasmodicamente di gettarsi come un pazzo nel lavoro e dimenticare.
Al semaforo si fermò tamburellando sul volante, borbottando: «Questa è follia», perché non era possibile che gli stesse accadendo una cosa del genere, lui non aveva mai pensieri incontrollati, inesplicabili, non era per natura portato a sognare a occhi aperti. Era sempre stato calmo e metodico, caratteristiche che ora non gli appartenevano più. Dal momento in cui aveva visto il volto torturato di Raúl, si era prodotto in lui una specie di cataclisma, non diverso da una mutazione genetica. La sua mente era ormai inondata di ricordi disturbanti, il sudore gli imperlava la fronte e gii inumidiva le mani, la sua capacità di concentrazione era svanita. Non riusciva nemmeno a seguire le indagini. Non aveva controllato le finestre e le porte che davano sul balcone dell'appartamento di Jiménez. La prima cosa da fare. E la faccenda del televisore, strappare il filo dalla presa a muro e non farne menzione. Non era da professionista. Non era da lui.
Seguì la calle Balbino Murrón fino alla fine, raggiungendo un edificio che si affacciava sul campo da calcio del Colegio de los Jesuitas. Ripose le foto nel vano portaoggetti. Consuelo Jiménez uscì prima ancora che Falcón avesse raggiunto la casa. Alla finestra vide un bambino, forse il più piccolo. La donna lo salutò con la mano e lui rispose agitando freneticamente la sua. Falcón ne fu rattristato. Rivide se stesso alla finestra, lasciato indietro.
Si avviarono, tagliando attraverso le arterie di scorrimento che portavano al centro della città. Consuelo Jiménez guardava fisso davanti a sé, senza vedere quasi nulla al di là del vetro.
«L'ha già detto ai suoi figli?» domandò Falcón.
«No. Non volevo farlo e poi lasciarli per andare all'ospedale.»
«Devono aver capito che è successo qualcosa.»
«Si sono accorti che sono nervosa. Non sanno perché siamo dalla zia, continuano a chiedermi come mai non andiamo nella casa di Heliópolis e quando verrà il papà con il regalo che ha promesso.»
«Il cane?»
«Lei sa come produrre una certa impressione sulle persone, Inspector Jefe», osservò la donna. «Non ha figli, vero?»
«No…» rispose Falcón, pur nutrendo il desiderio di completare in qualche modo la risposta.
Continuarono in silenzio, diretti a nord verso La Macarena.
«Come stanno andando le indagini?»
«È ancora presto.»
«Così lei ha soltanto il movente più ovvio su cui lavorare.»
«E cioè?»
«Moglie vuole liberarsi di marito più anziano che non l'ama, ereditare il suo patrimonio e involarsi con giovane amante.»
«Molti hanno ucciso per meno.»
«Sono stata
«Nemmeno Basilio Lucena?»
«Sa soltanto che Raúl era impotente e che io ho certe esigenze.»
«Sa dove si trovava ieri notte?»
«Ah, sì, certo. È l'amante a compiere il misfatto», disse la donna. «Ma conoscerà Basilio e poi mi dirà di che cosa lo ritiene capace.»
Passarono davanti alla basílica de La Macarena e pochi minuti dopo giunsero all'austero edificio grigio sull'avenida Sánchez Pizjuán che ospitava l'Instituto Anatómico Forense. Una folla era adunata davanti al portone. Falcón superò la sbarra dell'ospedale e parcheggiò l'auto. La signora Jiménez indossò un paio di occhiali da sole. La folla si precipitò verso di loro non appena scesero dalla macchina, i microfoni puntati. Parole staccate si elevavano al di sopra della cacofonia, laceranti come schegge di proiettile —
La guidò lungo i corridoi fino all'ufficio del Médico Forense, che li condusse in una stanza vicina. Un addetto tirò indietro la tenda e al di là del pannello di vetro videro Raúl Jiménez disteso sotto un lenzuolo che gli lasciava scoperto il torace. Due candele erano accese ai lati della testa. Gli occhi, ripuliti dal sangue, fissavano il soffitto. Occhi vacui. La nuca, in precedenza una massa di sangue coagulato, era stata lavata, il naso miracolosamente riattaccato e la ferita prodotta dal cavo elettrico sulle guance era scomparsa. La vecchia cicatrice sul pettorale destro notata nella fotografia sembrava la peggiore che fosse mai stata inflitta a quel corpo. Consuelo Jiménez identificò formalmente il cadavere e la tenda scivolò davanti al corpo, celandolo alla vista. Falcón la pregò di aspettare mentre parlava brevemente con il Médico Forense, il quale lo informò che Raúl Jiménez era morto alle tre del mattino per emorragia cerebrale e collasso cardiaco. Nel suo sangue era stato trovato un alto livello di Viagra. La conclusione del medico era stata che l'aumentata pressione del sangue e l'elevato grado di sofferenza, uniti alle condizioni precarie delle arterie, avevano fatto sì che Raúl Jiménez, per così dire, scoppiasse dall'interno. Il medico consegnò a Falcón il rapporto scritto.
Affrontarono l'impresa di tornare alla macchina ma, invece di ripassare dall'uscita delimitata dalla sbarra, dove si affollavano i giornalisti, Falcón percorse i giardini della facoltà uscendo dall'edificio principale dell'ospedale sulla calle de San Juan de Ribera.
«Avrebbero dovuto chiudergli gli occhi», osservò Consuelo Jiménez. «Non si può riposare in pace con gli occhi aperti, anche se non vedono niente»
«Non hanno potuto farlo», osservò lui mentre il semaforo dava via libera per svoltare a sinistra in calle Muñoz León.
Superate le vecchie mura della città, Falcón trovò nella via affollata un posto in cui parcheggiare. La signora Jiménez si teneva aggrappata alla maniglia sul tettuccio, le nocche sbiancate, il viso contratto in attesa delle parole che già presagiva. Il caso peggiore della carriera dell'ispettore.
Falcón le rivelò tutto, senza attenuare niente, fornendole la sua versione, quella che gli aveva gelato il sangue. Sì, era il caso peggiore della sua carriera. Altre scene che aveva dovuto «elaborare» forse potevano sembrare ancora più terribili: entrare in un appartamento nel casermone di una
La signora Jiménez aveva cominciato a piangere. A piangere davvero. Non qualche lacrima da asciugare per non sbavare il trucco, ma un vero tracollo fatto di grida, di singhiozzi violenti, di naso che colava. Javier Falcón si rendeva conto della crudeltà della sua professione. Non era la persona adatta a consolare quella donna; era stato lui a metterle tali immagini nella mente. Il suo incarico, lo scopo del suo lavoro in quel momento era di constatare non soltanto la veridicità di quelle emozioni, ma anche di cogliere l'eventuale fessura, la crepa nella corazza nella quale avrebbe potuto inserire la sua leva. Era stata una tattica studiata farla salire in macchina, portarla in un parcheggio di una strada affollata senza che potesse andare da nessuna parte, nel frastuono di un mondo indifferente che le passava accanto inconsapevole di quell'enormità.
«Era all'hotel Colón ieri sera?» domandò, e lei annuì. «È rimasta sola dopo che i suoi figli sono andati a letto?»
La donna scosse il capo.
«Basilio Lucena era con lei?»
«Sì.»
«È stato con lei tutta la notte?»
«No.»
«A che ora se ne è andato?»
«Abbiamo cenato in camera. Poi siamo andati a letto. Dev'essere andato via alle due.»
«Dov'era diretto?»
«A casa, immagino.»
«Non all'Edificio Presidente?»
Silenzio. Nessuna risposta mentre Falcón scrutava la struttura del suo viso.
«Che cosa fa per vivere Basilio Lucena?» domandò.
«Qualcosa di inutile all'università. È un assistente.»
«In quale facoltà?»
«Una facoltà scientifica. Biologia o chimica, non ricordo. Non abbiamo mai parlato del suo lavoro, a lui non interessa, è solo un posto e uno stipendio, tutto qui.»
«Gli ha dato una chiave?»
«Dell'
«Come fa a sapere che non l'ho già conosciuto?»
Silenzio.
«Si è messa in contatto con Basilio Lucena questa mattina?» le domandò Falcón.
Un cenno affermativo.
«Che cosa gli ha detto?»
«Ho ritenuto che dovesse sapere cos'era successo.»
«In modo che si potesse preparare?»
«Sulla carta, Inspector Jefe, Basilio Lucena può sembrare un uomo intelligente. Certamente è istruito e di modi raffinati, ma la sua intelligenza è molto ben sintonizzata su una lunghezza d'onda assai ridotta e la sua raffinatezza è apprezzata da una cerchia di persone molto ristretta. È stato reso pigro dalla mancanza di stimoli sul lavoro, la casa e la macchina gliele hanno pagate i genitori. Non ha nessuno che dipenda da lui e il suo reddito gli permette un tenore di vita da irresponsabile. Non è il tipo d'uomo che abbia mai dovuto camminare con le proprie gambe, perché la maggior parte del tempo la passa sdraiato. Le sembra il profilo di un assassino?»
Suonò il cellulare di Falcón. Pérez gli fece un rapporto complicato sulle persone ignote riprese dalle telecamere a circuito chiuso. Due erano state identificate, una no e la foto della presunta prostituta era stata inviata alla buoncostume. Falcón ordinò a Pérez di seguire la questione della ragazza e chiese a Fernández di ricontrollare gli appartamenti durante l'ora di colazione.
Il momento in cui Consuelo Jiménez avrebbe potuto cedere e fornirgli qualche elemento per incriminarla era passato. Falcón si immise nel traffico, eseguì un'inversione e si diresse verso il fiume. Diede un'occhiata al suo ostaggio per vedere quale direzione avessero preso i pensieri di lei, intuendo che si stava avvicinando una nuova crisi, tanto che cominciò a pensare che forse sarebbe finito tutto ancor prima della riunione con Calderón. Così andavano in genere le cose, stando alla sua esperienza. Tutto risolto in ventiquattr'ore oppure ci si impantanava in mesi di lunghe, squallide fatiche.
«Mi sta riportando nell'appartamento?» domandò la signora Jiménez.
«Lei è una donna intelligente, Doña Consuelo.»
«La sua occasione per adularmi è passata da un bel pezzo.»
«Trascorre la vita tra la gente», continuò lui, «capisce le persone. Credo che comprenda le esigenze del mio lavoro.»
«Cioè che lei deve essere orribilmente sospettoso.»
«Sa quanti omicidi avvengono a Siviglia ogni anno?»
«In questa città della gioia? In questa città dei battimani per le strade, di
«Nella città di Siviglia.»
«Duemila», affermò la donna, lanciando la cifra in aria con le dita inanellate.
«Quindici», disse lui.
«Metaforicamente, pugnalare alle spalle è un omicidio.» «La droga è responsabile della maggior parte di questi delitti. I pochi rimanenti sono classificati come 'domestici' o 'passionali'. In
«Allora lei si trova davanti a un'eccezione, Inspector Jefe, perché
Attraversarono il sottopassaggio della vecchia stazione ferroviaria a plaza de Armas e proseguirono lungo il fiume sul paseo Cristóbal Colón, superando la Maestranza, l'Opera e la Torre del Oro. Il sole brillava sull'acqua, il fogliame degli alti platani era verdissimo. Non il momento giusto per confessare un omicidio e rassegnarsi a passare chissà quante primavere dietro le sbarre.
«Il meccanismo psichico della rimozione è molto potente…» cominciò Falcón.
«Non posso saperlo, non ho mai rimosso niente.»
«… perché così non esistono dubbi… mai.»
«Insomma, sono una bugiarda oppure sono completamente pazza», ribatté la donna. «Non posso vincere con lei, Inspector Jefe, ma perlomeno dico sempre la verità a me stessa.»
«Ma la sta dicendo a me, Doña Consuelo?» domandò Falcón.
«Finora… ma forse sto cambiando idea.»
«Non so come sia riuscita a convincere le antiche fiamme di suo marito di essere una sciocca.»
«Mi sono vestita in modo da sembrarlo», rispose lei, tamburellando con le unghie. «So anche parlare come una sciocca.»
«Un'attrice consumata.»
«Tutto congiura contro di me.»
I loro occhi si incontrarono. Quelli dell'uomo morbidi, scuri, color tabacco. Quelli della donna, acquamarina e ghiaccio. Falcón sorrise. Suo malgrado Consuelo Jiménez gli piaceva. Quella forza. Quella bocca inesorabile. Si domandò che sapore avesse e cacciò subito via quel pensiero dalla mente. Attraversarono il puente del Generalísimo e Falcón cambiò argomento.
«Non mi ero mai reso conto di che quartiere franchista sia questo. Il ponte. La strada che porta il nome di Carrero Blanco…»
«Perché crede che mio marito vivesse nell'Edificio Presidente?»
«Pensavo che la maggior parte della gente seguisse la moda del torero Paquirri.»
«Sì, be', a mio marito piacevano
«E a lei?»
«È stato prima dei miei tempi.»
«Anche dei miei.»
«Dovrebbe tingersi i capelli, Inspector Jefe, la credevo più vecchio.»
Parcheggiarono. Falcón chiamò Fernández sul cellulare e gli disse di raggiungerlo nell'appartamento di Jiménez, poi salì in ascensore con la signora Jiménez fino al sesto piano e salutò con un cenno del capo il poliziotto davanti alla porta. Percorsero il corridoio vuoto verso il gancio nel muro, quel doppio tragitto ancora imbrigliato nella mente di Falcón. Sedettero nello studio e non parlarono più finché Fernández non fu arrivato.
«Faccia vedere le foto alla signora Jiménez, per favore», disse Falcón. «In ordine di apparizione nelle registrazioni delle telecamere.»
Fernández le fece scorrere l'una dopo l'altra, sempre con risposta negativa da parte di Consuelo Jiménez fino all'ultima, quando la donna sgranò gli occhi e batté le palpebre a scoppio ritardato.
«Chi c'è nella foto, Doña Consuelo?»
La signora Jiménez alzò lo sguardo su di lui, ipnotizzata, incantata, come se avesse assistito a una magia.
«Basilio», rispose, restando a bocca aperta.
V
Come suonare quella musica? Falcón resistette alla tentazione di far scorrere le dita sul bordo della scrivania come un pianista in un finale travolgente. Appoggiò il mento sul pollice, contrasse i muscoli della mandibola, sfiorandosi lo zigomo con un polpastrello mentre l'adrenalina gli scorreva nelle arterie. Questo è quanto, pensò. Ma in che modo farli cantare? Separati o insieme? Si sentiva ispirato e decise per l'approccio stile «galli da combattimento». Mettiamoli insieme, lasciamo che si aggrediscano e si feriscano, che si becchino e si trafiggano.
«La signora Jiménez viene con me a El Porvenir», disse a Fernández. «Si metta in contatto con il Subinspector Pérez e lo aiuti a trovare la prostituta. Gli dica che abbiamo identificato gli sconosciuti ripresi dalle telecamere.»
La signora Jiménez accavallò le gambe e si accese una sigaretta. Il piede non riusciva a stare fermo. Falcón uscì nel corridoio per contattare Ramírez con il cellulare. Avrebbe voluto che quell'uomo gli fosse più simpatico.
Ramírez era seccato. Si era assunto l'inutile compito di interrogare personalmente gli impiegati licenziati e fino a quel momento aveva saputo soltanto che due di loro erano contenti di essersi liberati della signora Jiménez. Mentre Ramírez dava sfogo al suo malumore, Falcón teneva d'occhio la donna: Consuelo Jiménez stava battendo l'unghia dell'indice contro quella del pollice, a ritmo con i suoi pensieri. Falcón impartì istruzioni a Ramírez e gli comunicò l'indirizzo di Basilio Lucena, ordinandogli di recarsi là e di prepararsi a fare pressione sui due sospetti.
Condusse Consuelo Jiménez di nuovo al di là del fiume, in calle Río de la Plata. Il traffico era aumentato, come sempre all'ora di pranzo. Nel parco c'era gente che correva, ragazze con i capelli raccolti a coda di cavallo sobbalzavano dietro la staccionata, allegre sotto i raggi del sole. Quei momenti del suo lavoro di poliziotto lo affascinavano: guidare mentre l'indagato sosteneva una straziante battaglia interiore tra la negazione e la verità, tra insistere nella menzogna o accogliere il sollievo della confessione e del perdono. Da dove proveniva l'impulso che catalizzava i meccanismi interiori per una decisione di tale portata?
Svoltò in avenida de Portugal, dietro le alte torri della plaza de España. L'edificio, che era stato l'attrazione principale dell'Expo del '29, era per lui così usuale che in genere non lo notava, ma quel giorno, con i suoi mattoni rossi sullo sfondo del cielo azzurro e con l'esplosione di verde tutto intorno, lo lasciò stupefatto: gli riportò alla memoria l'immagine di suo padre che si rizzava sulla sedia mentre guardavano
«Può parlare, se vuole», soggiunse.
La donna sembrò sul punto di rispondere in tono aggressivo ma dopo la prima sillaba si ricompose, trattenendosi. Trovò il rossetto nella borsa e si ridisegnò la bocca con un tocco molto gradevole.
«Sono curiosa quanto lei.» Una risposta scoraggiante.
Parcheggiarono a una certa distanza dalla casa. Nessuna traccia di Ramírez. Falcón prese il rapporto dell'autopsia e lo lesse per intero, allibito dai particolari. Gli strumenti usati, l'abilità tecnica evidente dell'omicida, gli agenti chimici e le soluzioni presenti sugli indumenti della vittima, tutto confermava i suoi sospetti.
Un'auto si affiancò e, passando, Ramírez fece un cenno col capo prima di parcheggiare in fondo alla strada. Tornò indietro a piedi, superò il cancello d'ingresso e suonò il campanello del numero 17. Lucena venne ad aprire, seguì una discussione, poi Ramírez esibì il tesserino e, finalmente, gli fu consentito di entrare. Trascorsi alcuni minuti, Falcón e la signora Jiménez scesero dalla macchina e suonarono il campanello. Lucena si presentò alla porta, evidentemente preoccupato, e si trovò a guardare dritto negli occhi di Falcón, cogliendo di lato il lampo azzurro di quelli della sua amante. La paura era inequivocabile, ma di che cosa Falcón non avrebbe saputo dire. Entrarono, il giovane decisamente sotto pressione a causa di tutti quegli sguardi inquisitori fissi su di lui. Falcón si sistemò accanto al televisore, che era collegato a una telecamera, mentre Ramírez tornava a prendere posizione vicino alla porta; Lucena sedette a disagio sul bordo di una poltrona e la signora Jiménez si accomodò sul divano di fronte a lui, scrutandolo con la coda dell'occhio, le gambe accavallate, il piede mollemente sospeso nel vuoto.
«Abbiamo già saputo dalla signora Jiménez che è stato in sua compagnia la notte scorsa», cominciò Falcón. «Ricorda a che ora l'ha lasciata?»
«Verso le due», rispose l'uomo, passandosi le dita tra i capelli fini e scuri.
«Dov'è andato dopo aver lasciato l'hotel Colón?»
Il piede di Consuelo smise di dondolare.
«Sono venuto qui.»
«È uscito di nuovo durante la notte?»
«No, sono uscito stamani per andare al lavoro.»
«Come ci è andato?»
Lucena esitò, già in difficoltà a quella domanda preliminare da principianti.
«Con l'autobus.»
Subentrò Ramírez che lo tartassò a proposito di percorsi dei mezzi pubblici, ma Lucena insistette nella sua bugia, finché Falcón, calmo, gli mise in mano l'immagine ripresa dalle telecamere.
«È lei, signor Lucena?»
Il giovane assentì, un gesto carico di apprensione.
«Di quale materia si occupa all'università?»
«Biochimica.»
«Perciò, probabilmente, lei lavora in uno di quegli edifici dell'avenida de la Reina Mercedes?»
Cenno affermativo.
«Molto vicino a Heliópolis, dove la signora Jiménez sta traslocando?»
Il giovane si strinse nelle spalle.
«Nel suo ambiente di lavoro sarebbe facile appropriarsi di una sostanza come il cloroformio?»
«Facilissimo.»
«E di soluzioni saline, di bisturi e di forbici chirurgiche?»
«Certamente, abbiamo un laboratorio.»
«Vede quei numeri in basso a destra sull'immagine? Che cosa legge?»
«02.36, 12.04.01.»
«Chi doveva vedere nell'Edificio Presidente a quell'ora?»
Stringendosi il setto nasale tra il pollice e l'indice, Lucena serrò le palpebre.
«Possiamo parlare in privato?» domandò poi.
«Qui siamo tutti parti interessate», obiettò Ramírez.
«Venticinque minuti dopo il suo ingresso nel palazzo, Raúl Jiménez è stato assassinato», dichiarò Falcón; si rese conto che Lucena, invece di considerarlo un persecutore, lo voleva avere come amico; era della donna che aveva paura.
«Sono salito all'ottavo piano», rispose alla fine Lucena, alzando le mani.
Una risposta inattesa e Ramírez tirò fuori il suo taccuino.
«All'
«Orfilia Trinidad Muñoz Delgado», disse Ramírez.
«Avrà novant'anni», osservò Consuelo Jiménez.
«Settantaquattro», corresse Ramírez. «All'ottavo piano c'è anche Marciano Joaquín Ruiz Pizarro.»
«Marciano Ruiz, il regista teatrale», precisò Falcón.
Lucena annuì.
«Lo conosco», disse Falcón. «Era venuto a trovare mio padre. Ma è…»
«
Ramírez, come un attore in un film comico, compì un passo indietro sbarrando gli occhi di fronte a Lucena. Falcón usò il cellulare per chiamare Fernández, il quale gli comunicò che, nel pomeriggio, all'appartamento di Ruiz non aveva risposto nessuno.
«Oggi è fuori città», spiegò Lucena. «Mi ha accompagnato all'università e poi è andato a Huelva. Sta provando
Nella stanza la corrente aveva cambiato direzione. La signora Jiménez scattò in piedi e, prima che qualcuno potesse intervenire, la sua mano venne a contatto duramente con un lato della testa di Lucena: non un ceffone, piuttosto un colpo secco.
«
Il sangue colò lungo la guancia di Lucena. La porta di casa sbatté. Tacchi a spillo colpirono il selciato.
«Non ci arrivo», disse Ramírez, più a suo agio ora che la donna aveva lasciato la stanza. «Perché la scopava se è un…»
Lucena recuperò un pacchetto di fazzoletti di carta, si asciugò la fronte.
«Può spiegarmelo?» insistette Ramírez. «Voglio dire, o si è una cosa o l'altra, no?»
«Devo proprio sopportare questo imbecille?» domandò Lucena a Falcón.
«Sì, a meno che non voglia passare molto tempo alla Jefatura.»
Lucena si alzò, infilò le mani in tasca, compì qualche passo nella stanza e si girò verso Ramírez, la debolezza dimostrata fino a quel momento sostituita da una disinvoltura aristocratica, vendicativa, della specie usata dai damerini quando venivano sfidati a duello.
«L'ho scopata perché mi ricordava mia madre», disse, Un'offesa calcolata che ottenne l'effetto desiderato di scioccare Ramírez, giudicato da Lucena chiaramente un individuo appartenente a una classe diversa dalla sua. L'Inspector veniva da una famiglia di lavoratori sivigliani conservatori e abitava con la moglie e due figlie in casa dei genitori. Sua madre era ancora in vita, stava con loro e alla morte, ormai imminente, del suocero avrebbero ospitato anche la sua vedova. Ramírez strinse i pugni. A lui nessuno poteva parlare così di una madre.
«Ora ce ne andiamo», annunciò Falcón, dando una strizzatina di avvertimento al bicipite gonfio di Ramírez.
«Voglio prendere… voglio prendere il numero di telefono dell'altro
Lucena andò alla scrivania, scarabocchiò qualcosa di traverso su un foglio e lo porse a Falcón, che pilotò Ramírez fuori dalla stanza. All'esterno la calle Río de la Plata si muoveva lentamente come le acque su cui si affaccia Buenos Aires. La signora Jiménez aspettava in fondo alla via, la sua rabbia evidente sul viso illuminato dal sole. Ramírez era non meno furioso di lei. Falcón, tra i due, non era più l'investigatore, piuttosto una specie di assistente sociale.
«Chiami Fernández sul cellulare, senta se hanno trovato la ragazza», ordinò a Ramírez.
La porta di Lucena sbatté alle loro spalle. Falcón si diresse verso Consuelo Jiménez riflettendo: era quella la raffinata educazione di cui blateravi e che ti incantava tanto? Che cosa siamo? Dove siamo? Questa società senza più regole.
La donna stava piangendo, ma di rabbia e di umiliazione questa volta, digrignando i denti e battendo i piedi per terra. Falcón le si affiancò, le mani in tasca, annuendo, come se volesse dirle che era d'accordo con lei, ma pensando: così è il lavoro nella polizia, un momento si è sul punto di chiudere il caso e prepararsi per celebrare con una bevuta la soluzione del mistero, e un momento dopo eccoci di nuovo in strada a domandarci come abbiamo potuto essere così sciocchi.
«La riaccompagno a casa di sua sorella», le disse.
«Che cosa gli ho fatto?» domandò Consuelo Jiménez. «Che cosa gli ho
«Niente», rispose Falcón.
«Che giornata!» esclamò lei, alzando lo sguardo al cielo perfetto, tutto serenità fin oltre la stratosfera. «Che giornata del cazzo!»
Fissò il fazzoletto di carta appallottolato, come un aruspice che potesse trovarvi spiegazione, chiarezza o futuro. Lo gettò nella cunetta della strada. Falcón la prese per un braccio e la indirizzò verso la macchina. Mentre la stava aiutando a salire Ramírez disse che era stata trovata la ragazza dell'Alameda: la stavano portando alla Jefatura sulla Blas Infante.
«Dica a Fernández di interrogare l'ultimo degli impiegati licenziati dalla signora Jiménez. Pérez dovrebbe lasciare la ragazza sulle spine finché non arriviamo. Voglio tutti i rapporti pronti alle quattro e mezzo, prima di incontrare il Juez Calderón alle cinque.»
Chiamò Marciano Ruiz sul cellulare e gli disse di tornare a Siviglia quella sera per una deposizione. Protesta di Ruiz seguita dalla minaccia da parte di Falcón di arrestare Lucena.
«Si è calmato?» domandò a Ramírez, il quale annuì al di sopra del tettuccio dell'auto. «Allora porti il signor Lucena alla Jefatura e lo faccia deporre… e non sia rude.»
Falcón fece salire Lucena sul sedile posteriore della macchina di Ramírez. Partirono, Falcón curvo sul volante, borbottando dentro di sé mentre le gomme stridevano sull'avenida de la Borbolla. Tutti pazzi in quei giorni. Alcuni casi avevano questo effetto, logoravano troppo i nervi: i casi di bambini, in genere, il rapimento seguito dall'attesa e dall'inevitabile scoperta del corpo e della violenza che aveva subito. E ora stava accadendo la stessa cosa… come se un indefinibile ma orrendo elemento si fosse aggiunto a un'esperienza umana già eccessiva, portando via qualcosa di grande che non avrebbe mai più potuto essere sostituito. La luce del giorno sarebbe stata per sempre un poco più attenuata, l'aria mai più veramente pulita.
«Ne vede molte di cose del genere?» domandò la signora Jiménez. «Sì, suppongo di sì, suppongo che per lei sia la norma.»
«Che cosa?» domandò Falcón stringendosi nelle spalle, sapendo ciò che lei intendeva dire ma per nulla intenzionato a sviscerare l'argomento.
«Gente con una vita perfetta che se la vede distruggere in una manciata di…»
«Mai», ribatté lui, quasi con veemenza.
Quella parola, «perfetta», lo aveva reso più cattivo, gli aveva ricordato ciò che la donna gli aveva detto e che aveva scorticato viva la sua vita «perfetta»: «Dev'essere dura… Essere lasciato perché lei preferiva stare da sola». Si sentiva crudele e dovette fare uno sforzo per non restituire il colpo: dev'essere dura… essere scaricata per un amante dell'altro sesso. Ripose il pensiero con l'etichetta «indegno» sostituendolo con un altro: forse Inés aveva rovinato l'immagine delle donne nella sua mente.
«Ma, Inspector Jefe…» fece per replicare la signora Jiménez.
«No, mai», ribadì Falcón, «perché non ho mai conosciuto nessuno che avesse una vita perfetta. Un passato perfetto e un futuro radioso, sì, ma il passato perfetto è sempre riveduto e corretto brillantemente e il futuro radioso sempre un sogno irrealizzabile. L'unica vita perfetta è sulla carta e anche in questo caso ci sono spazi tra le parole e le righe e raramente si tratta di spazi vuoti.»
«Sì, siamo sempre cauti su ciò che mostriamo agli altri e ciò che riveliamo a noi stessi.»
«Non volevo essere così… veemente», si scusò Falcón. «Ma è stata una giornata lunga e non è ancora finita. Abbiamo incassato qualche duro colpo.»
«Non posso credere di essere stata talmente stupida», disse la donna. «Ho conosciuto Basilio nell'ascensore dell'Edificio Presidente. Probabilmente stava scendendo dall'ottavo piano. Di lui non lo avrei mai detto. Ma… ma
«Lo dimentichi. Non è importante.»
«A meno che non mi abbia attaccato qualcosa.»
«Faccia gli esami», tagliò corto Falcón, più brutale di quanto avesse inteso essere, «ma, Doña Consuelo, cominci anche a pensare a chi avrebbe potuto avere un motivo per assassinare suo marito. Voglio i nomi e gli indirizzi dei suoi amici, voglio che lei ricordi, per esempio, chi è stato a dirle che somigliava tanto alla sua prima moglie. Voglio il diario di Raúl.»
«Aveva un'agenda in ufficio che io gli tenevo aggiornata. Ha buttato via la rubrica quando ha cominciato a usare il telefonino. E comunque comunicava solo per telefono. Non scriveva mai a nessuno, perdeva sempre le penne e si appropriava delle mie.»
Falcón non ricordava di aver visto un cellulare. Chiamò la scientifica e il Médico Forense. Nessun cellulare. Doveva averlo preso l'assassino.
«Qualcos'altro?»
«Un vecchio elenco di indirizzi nel computer dell'ufficio.»
«Dove?»
«Sopra il ristorante vicino a plaza de la Alfalfa.»
Le fornì il suo numero di cellulare e le chiese di procurargli una stampata dell'elenco entro mezz'ora.
La lasciò davanti alla casa della sorella a San Bernardo poco dopo le tre del pomeriggio e dieci minuti più tardi parcheggiava accanto al cancello orientale dei jardines de Murillo, continuando a piedi, quasi di corsa attraverso le vie affollate del barrio de Santa Cruz dove si adunavano i turisti per le processioni della Semana Santa. Il sole era sbucato dalle nuvole. Faceva caldo e ben presto Falcón cominciò a sudare. L'aria nelle viuzze sapeva di Ducados, di fiori d'arancio, di sterco di cavallo e di tracce d'incenso, vestigia delle processioni. I ciottoli della strada, cosparsi di cera delle candele, erano scivolosi.
Falcón si tolse l'impermeabile e tagliò per le stradine laterali, che conosceva grazie alle rare volte in cui riusciva a seguire le lezioni d'inglese (che comunque continuava a pagare) al British Institute in calle Federico Rubio. Sbucò nell'angolo sudorientale di plaza de la Alfalfa, gremito di tutte le tribù del mondo. Macchine fotografiche lo annusarono, ma Falcón si fece largo tra la gente, percorse in fretta la calle San Juan e, all'improvviso, fu spinto in avanti dalla folla che sopraggiungeva da calle Boteros. Si rese conto dell'errore troppo tardi, vide la processione muoversi verso di lui, non riuscì a liberarsi e l'orda lo sospinse verso la piattaforma cosparsa di fiori, che aveva appena superato un angolo difficile grazie agli sforzi dei venti
La folla si spingeva in avanti, il
VI
Il
Falcón allentò la cravatta, si asciugò il sudore sulla fronte e, facendosi largo verso il limitare della folla, barcollò sgusciando tra le fila dei
Non aveva mangiato nulla in tutto il giorno, pensò, ma sapeva che non era quella la causa del suo malessere. Si voltò verso il
Trovò l'ufficio sopra il ristorante di Jiménez, si fece dare la stampata degli indirizzi e un bicchiere d'acqua. Lasciato il centro storico evitando ogni processione, scese in macchina verso il fiume e lo attraversò in direzione di plaza de Cuba. Si sentiva svuotato, affamato e si fermò in un bar sull'avenida República Argentina per un
La Jefatura si trovava all'incrocio tra l'avenida Blas Infante e calle López de Gomara. Parcheggiò sul retro dell'edificio e salì le due brevi rampe di scale fino al suo ufficio, affacciato sulle file ordinate di automobili, un luogo spartano dove non teneva niente di personale. Due sedie, una scrivania di metallo, qualche armadietto grigio. La luce proveniva dalla lampada al neon sul soffitto. Falcón non voleva distrazioni sul lavoro.
Lo aspettavano trentotto messaggi, cinque dei quali del suo immediato superiore, Jefe de Brigada de Policía Judicial, Comisario Andrés Lobo, senza dubbio sotto pressione da parte del
«Quello che ha detto all'Inspector Ramírez prima, a casa sua…» cominciò: la cattiveria di quella frase lo infastidiva ancora.
«Qualsiasi studente potrebbe dirle che i docenti reagiscono molto male con i cretini.»
«Non c'era altro?»
«Sono sorpreso che le importi, Inspector Jefe.»
Gliene importava invece, e Falcón si domandò se si stesse rendendo ridicolo.
«Dubito che mia madre sia mai stata brava a letto come Consuelo, se è questo che si sta chiedendo», disse Lucena.
«Lei è un uomo complicato, signor Lucena.»
«In un mondo complicato», ribatté il giovane, agitando la penna in direzione di Falcón.
«Da quanto tempo frequenta la signora Jiménez?»
«Da un anno circa», rispose Lucena. «Quella era la prima volta che tornavo all'Edificio Presidente da quando ci siamo conosciuti… La mia solita fortuna.»
«E Marciano Ruiz?»
«È curioso come l'Inspector, vero? Io mi annoio facilmente, Don Javier. Marciano e io ci vediamo quando la mia noia diventa insopportabile.»
Entrò Pérez, informò Falcón sulla stanza in cui si trovava la prostituta e gli diede il cambio nell'interrogatorio di Lucena.
La ragazza, seduta al tavolo, fumava impilando due pacchetti di Fortunas l'uno sull'altro, a ritmo continuo come in uno strano gioco. Aveva i capelli corti, sembrava che se li fosse tagliati da sola e senza uno specchio. Fissava lo schermo spento della TV, ombretto azzurro, labbra rosse. Una parrucca bionda era appesa alla spalliera di una sedia non occupata. Indossava una minigonna scozzese, una camicetta bianca e stivali neri. Era minuta, aveva l'aria di una scolaretta, ma gli occhi scuri rivelavano tutta la depravazione che avevano visto in quella specie di prolungata assenza dai banchi di scuola.
Ramírez accese il registratore, identificò la ragazza come Eloisa Gómez e presentò se stesso e Falcón.
«Sai perché sei qui?» domandò l'ispettore capo.
«Non ancora. Hanno detto che era per qualche domanda, ma io vi conosco voialtri, ci sono già stata qui, conosco i vostri giochetti.»
«Noi siamo diversi», disse Ramírez.
«D'accordo. Siete diversi. Chi siete?»
Falcón scosse la testa in modo quasi impercettibile in direzione di Ramírez.
«Eri con un cliente la notte scorsa…» riprese.
«Sono stata con un sacco di clienti la notte scorsa. È la Semana Santa», ribatté la ragazza. «Per noi è il momento di maggior lavoro dell'anno.»
«Più ancora della Feria?» domandò Ramírez, vagamente sorpreso.
«Certamente. Specie gli ultimi giorni, quando arriva la gente da fuori.»
«Uno dei tuoi clienti si chiamava Raúl Jiménez. Sei stata da lui ieri sera nel suo appartamento all'Edificio Presidente.»
«Lo conoscevo come Rafael. Don Rafael.»
«Lo avevi incontrato altre volte?»
«È un cliente fisso.»
«A casa sua?»
«Ieri sera è stata forse la terza o la quarta volta nel suo appartamento. In genere lo facciamo in macchina.»
«E questa volta com'è andata?» domandò Ramírez.
«Mi ha chiamato sul cellulare. Il mio gruppo di ragazze ha comprato tre telefonini l'anno scorso.»
«A che ora?»
«Non ho preso io la telefonata, ero con un altro… ma dev'essere stato verso mezzanotte. La prima volta.»
«La prima volta?»
«Voleva parlare solo con me, perciò ha richiamato verso mezzanotte e un quarto. Mi ha chiesto di andare a casa sua. Io gli ho detto che stavo facendo un sacco di soldi sulla
Ramírez scoppiò in una gran risata.
«Semana Santa davvero!» esclamò. «È un prezzo assurdo.»
Rise anche la ragazza, rilassandosi un poco.
«Non dirmi che l'ha pagato», disse Ramírez.
«Ci siamo accordati per cinquanta.»
«
«Come sei arrivata fin là?» domandò Falcón, cercando di tornare al punto.
«In taxi», rispose lei, accendendosi una Fortuna.
«A che ora ti ha lasciato davanti all'edificio?»
«Mezzanotte e mezzo, o poco dopo.»
«Non c'era nessuno in giro?»
«Io non ho visto nessuno.»
«E nel palazzo?»
«Non ho visto nemmeno il portinaio e mi ha fatto piacere. Non c'era nessuno neanche in ascensore o sul pianerottolo e lui mi ha fatto entrare prima ancora che suonassi il campanello, come se stesse guardando dallo spioncino.»
«Non lo hai sentito girare la chiave?»
«Ha aperto e basta.»
«Ha chiuso a chiave la porta dopo averti fatto entrare?»
«Sì. Non mi è piaciuto, ma lui ha lasciato la chiave nella serratura, perciò non ho protestato.»
«Che cos'hai notato nell'appartamento?»
«Che era praticamente vuoto. Mi ha detto che stava traslocando. Gli ho chiesto dove, ma non mi ha risposto. Aveva altro per la mente.»
«Raccontaci tutto perbene.»
La ragazza sorrise divertita, scuotendo la testa, come a dire che gli uomini erano uguali in tutto il mondo.
«L'ho seguito nel corridoio fino al suo studio. C'era la TV in un angolo, davano un vecchio film. Lui ha preso una cassetta dalla scrivania e l'ha messa su, poi mi ha chiesto di indossare una gonna blu che mi arrivava al ginocchio e un maglione blu sopra la camicia. Mi ha detto di farmi i codini. Portavo una parrucca nera, lunga», spiegò. «Preferisce le brune.»
«Lo hai visto prendere una pillola?»
«No.»
«Non hai osservato niente di strano a parte la mancanza di mobili?»
«Strano come?»
«Niente che ti abbia innervosito?»
La ragazza rifletté, desiderosa di collaborare, alzò un dito e i due si sporsero in avanti.
«Non aveva le scarpe», disse, «ma non è che questo mi abbia terrorizzato.»
I due si accasciarono sulla sedia.
«Ehi! È colpa vostra! Mi fate vedere cose che non ci sono!»
«Vai avanti», disse Ramírez.
«Gli ho chiesto i soldi e lui mi ha dato un po' di biglietti da cinquemila che io ho contato, poi ha preso il telecomando e ha avviato un film porno. Si è tolto i calzoni. Voglio dire che li ha lasciati cadere a terra e li ha scavalcati. E abbiamo cominciato.»
«Che cosa mi dici delle finestre?» domandò Ramírez.
«Che cosa c'entrano le finestre?»
«Eri girata verso le finestre.»
«Come fa a saperlo?»
«
«Le tende erano tirate», rispose la ragazza, ormai insospettita.
«E così avete fatto sesso», riprese Ramírez. «Quanto è durato?»
«Più del previsto.»
«Per questo ti giravi a guardare?» domandò Ramírez.
Gli occhi bruni si fecero duri. Quelli non erano i soliti giochetti.
«Chi
«Inspector Ramírez», disse l'uomo, secco come uno sherry.
«Siamo del Grupo de Homicidios», spiegò Falcón.
«L'hanno
«La persona che l'ha ucciso si trovava nell'appartamento mentre eri là.»
La ragazza si strappò la sigaretta di bocca e soffiò via il fumo con forza.
«Come lo sa?»
Ramírez, che in precedenza aveva inserito la cassetta nel videoregistratore, premette il tasto del telecomando, così che lo schermo fu istantaneamente riempito dal corridoio vuoto, dal gancio sul muro, dalla luce proveniente dalla porta dello studio mentre l'audio emetteva i suoni delle due finte estasi di piacere mescolati assieme. Falcón si sentì rizzare i capelli sulla nuca. La telecamera voltò l'angolo e la ragazza, che fissava lo schermo ipnotizzata, vide se stessa inginocchiata davanti a Raúl Jiménez, il viso rivolto verso le tende, mentre l'uomo guardava lo schermo. Vide se stessa girare la testa, poi la telecamera sobbalzò all'indietro nell'oscurità.
Mandata la sedia a sbattere sul pavimento, la ragazza si mise a passeggiare avanti e indietro. Ramírez spense il televisore.
«È allucinante!» esclamò lei, indicando lo schermo con le dita che stringevano la sigaretta.
«Non hai notato nulla?» domandò Falcón.
«Non so se siete stati voi a mettermi certe cose in testa, ma ora mi sembra di ricordare qualcosa», rispose lei, chiudendo gli occhi. «È stato solo un cambiamento della luce, un'ombra che si muoveva. Nel mio lavoro questo mi spaventa… quando le ombre si muovono.»
«Quando le tenebre hanno una vita propria.» Le parole sfuggirono di bocca a Falcón e gli altri due lo guardarono perplessi. «Ma non hai reagito… a queste ombre che si muovevano?»
«Ho creduto di averle immaginate e comunque lui ha raggiunto il culmine proprio allora e mi sono distratta.»
«E dopo?»
«Mi sono lavata in bagno e me ne sono andata.»
«Ha richiuso la porta a chiave quando sei uscita?»
«Sì. Come aveva fatto prima. Cinque o sei mandate. L'ho sentito anche sfilare la chiave. Poi è arrivato l'ascensore.»
«Che ora era?»
«Non credo che fosse molto dopo l'una. All'una e mezzo ero con un altro cliente sull'Alameda.»
«Cinquantamila», disse Ramírez. «Non male come tariffa oraria.»
«Per guadagnare altrettanto a lei ci vorrebbe un bel po' di tempo», ribatté la ragazza, e risero tutti e due.
«Qual è il tuo numero di cellulare?» domandò Falcón e di nuovo gli altri due risero finché non si accorsero della sua serietà: Eloisa snocciolò subito il numero.
«Bene», osservò Ramírez, ancora di buonumore, «mi pare che sia tutto, tranne… sono sicuro che ha tralasciato qualcosa, non è così, Inspector Jefe?»
«Vi ho detto tutto quello che è successo», protestò lei.
«Eccettuata la cosa più importante», disse Ramírez. «Non ci hai detto quando lo hai fatto entrare nell'appartamento.»
Le occorsero alcuni secondi per afferrare le implicazioni delle parole pronunciate in tono blando, poi la sua espressione si indurì, il viso simile a una maschera funeraria.
«Mi sembrava che lei fosse troppo perfetto per essere vero», osservò.
«Non sono perfetto», affermò Ramírez, «e non lo sei nemmeno tu. Sai che cosa ha fatto quel tizio, quello che hai fatto entrare nell'appartamento? Ha torturato un vecchio fino alla morte, ha fatto soffrire il tuo Don Rafael nel modo più atroce, non abbiamo mai visto niente di simile in tutta la nostra carriera. No, non l'ha ucciso con un colpo di pistola alla testa e nemmeno con una pugnalata al cuore, è stata una tortura lenta… brutale.»
«Non ho fatto entrare nessuno nell'appartamento!»
«Hai detto che aveva lasciato la chiave nella serratura», intervenne Falcón.
«Non ho fatto entrare nessuno.»
«Hai detto di aver visto qualcosa», disse Ramírez.
«Siete stati voi a farmi pensare di aver visto qualcosa, ma non ho visto nulla.»
«La luce era cambiata», insistette Ramírez.
«Le ombre si erano mosse», disse Falcón.
«Non ho fatto entrare nessuno», affermò la ragazza parlando lentamente, «è andata come vi ho detto.»
Conclusero l'interrogatorio verso le 16.30 e Falcón mandò Ramírez con la ragazza da una donna poliziotto, perché la scientifica potesse poi identificare il pelo pubico trovato nello studio. Mentre uscivano udì Ramírez parlarle come se fossero vecchi amici e stessero andando a farsi una
«No, lascia che te lo dica, Eloisa, se fossi in te lascerei perdere quel tipo, lo scaricherei come una patata bollente. Se può uccidere un uomo in quel modo, può far fuori anche te. Può ammazzarti senza il minimo scrupolo. Perciò, stai in guardia. Se ti viene un sospetto, un dubbio, chiamami subito.»
Tornato nel suo ufficio, Falcón telefonò a Baena e a Serrano per vedere se avessero trovato un testimone all'esterno dell'Edificio Presidente. Nessun testimone. Poca gente in giro, negozi chiusi, la maggior parte degli abitanti della zona in centro per le processioni.
Riagganciò e fece scrocchiare le dita l'una dopo l'altra, un'abitudine che Inés detestava ma che era un gesto inconsapevole utile a schiarirgli le idee. A sua moglie metteva i brividi.
Chiamò il Comisario Lobo, il quale gli disse di passare dal suo ufficio, e mentre si dirigeva all'ascensore Falcón vide Ramírez e gli disse di preparare le scartoffie per l'incontro con il Juez Calderón. Salì all'ultimo piano. La segretaria di Lobo, una sivigliana dai modi spicci che teneva da parte qualsiasi giovialità per il tempo libero, gli comunicò con un battito di ciglia che poteva entrare.
Lobo, rivolto verso la finestra, teneva le mani incrociate dietro la schiena e piegava ritmicamente le ginocchia contemplando al di là della strada la vegetazione lussureggiante del parque de los Príncipes. Basso e tarchiato, aveva mani grandi, agricole, collo taurino e capelli grigi. Aveva sempre portato occhiali pesanti dalla montatura nera, reperti di un'altra era, fino all'anno prima quando sua moglie lo aveva convinto a passare alle lenti a contatto: un tentativo di migliorare la sua immagine che si era rivelato un fallimento perché aveva gli occhi color del fango e la mancanza della cornice aveva reso il naso ancora più adunco, scoprendo anche troppo la faccia grossolana. Le labbra sottili erano poco più scure della carnagione color cumino. Una faccia poco raccomandabile, ancor meno di quelle rinchiuse in cella, ma l'uomo era un bravo capo, che parlava chiaro e sosteneva sempre i suoi sottoposti.
«Sa di che cosa si tratta?» disse senza voltarsi.
«Di Raúl Jiménez.»
«No, Inspector Jefe, si tratta del Comisario León.»
«Era nelle fotografie appese nello studio di Jiménez.»
«Con chi era a letto?»
«Non era quel genere di…»
«Sto scherzando, Inspector Jefe», lo interruppe Lobo. «Probabilmente lei ha visto molti altri
«Sì.»
«Ha visto anche me?»
«No, Comisario.»
«Perché io non ci sono, Inspector Jefe», disse Lobo avvicinandosi rapidamente alla scrivania.
Sedettero, e Lobo strinse le mani come se volesse schiacciare una piccola testa.
«Lei non era qui al tempo dell'Expo del 1992, non è vero?»
«Ero a Saragozza.»
«La situazione qui all'epoca dell'Expo del '92 era molto diversa da quella delle olimpiadi di Barcellona. Là, sono sicuro che lo ricorda, i catalani ne hanno tratto profitto, mentre qui per gli andalusi è stata una perdita paurosa.»
«Si era parlato di corruzione.»
«Parlato!» ruggì Lobo infuriato. «Non si trattava di chiacchiere, Inspector Jefe, la corruzione c'è stata, tanta che a
«Non lo sapevo.»
«E non soltanto la gente di qui. Arrivavano in forze anche da Madrid. Si era capito che a Siviglia prevaleva un certo comportamento, una certa negligenza, una mancanza di attenzione ai particolari che poteva essere sfruttata economicamente.»
«Che importanza può avere dopo dieci anni?»
«Ricorda quante persone sono state incriminate per questo?»
«Non ricordo, Comisario.»
«Nessuna!» sbottò Lobo, battendo sulla scrivania le mani intrecciate. «Nessuna.»
«Hermanos Lorenzo», disse Falcón. «Settore edile.»
«E allora?»
«Raúl Jiménez era in rapporti di affari con loro, rapporti finiti nel 1992.»
«Vedo che comincia a capire. Raúl Jiménez faceva parte della commissione dell'Expo de Sevilla, era tra i responsabili dello sviluppo edilizio dell'area. Hermanos Lorenzo non era la sola impresa edile con cui Jiménez fosse in contatto.»
«Non sono ancora sicuro di aver capito che cosa abbia a che vedere tutto questo con un omicidio avvenuto dieci anni dopo.»
«Forse nulla. Dubito anzi che esista qualche rapporto tra le due cose, ma se lei rimesterà nella merda, Inspector Jefe, verranno a galla cose sgradevoli.»
«E il Comisario León?»
«Non vuole brutte sorprese. Lei deve informare me su ogni punto 'delicato' e… nessuna fuga di notizie, Inspector Jefe, o ci faranno a pezzi.»
Lobo piaceva ai suoi uomini anche per l'eccezionale bravura nel far loro capire la gravità di una situazione. Falcón si alzò e si diresse alla porta, sapendo però che non era finita lì, perché Lobo amava dare una pacca finale ai suoi quando stavano per andarsene. Lasciava loro un'impressione più duratura.
«Probabilmente avrà pensato, con tutta la sua esperienza a Barcellona, Saragozza e Madrid, che il suo trasferimento in una città come Siviglia, una città di secondo piano in quanto a omicidi, sarebbe stato ben accolto.»
«Io non do niente per scontato, Comisario. La politica entra in tutte le nomine.»
«Ho dovuto battermi duramente per lei.»
«Perché lo ha fatto?» domandò Falcón, che non conosceva Lobo prima di arrivare a Siviglia.
«Per la ragione molto fuori moda che lei era il migliore per quel posto.»
«Allora la ringrazio.»
«Il Comisario León ammirava molto il talento e la tenacia dell'Inspector Ramírez.»
«Anch'io, Comisario.»
«Sono in contatto tra loro, Inspector Jefe… informalmente.»
«Capisco.»
«Molto bene», disse Lobo, di colpo allegro. «Ci contavo.»
VII
«Sono convinto che sia stata Eloisa Gómez a lasciarlo entrare», annunciò Ramírez mentre attraversavano il fiume.
«Baena e Serrano non hanno trovato nessun testimone all'esterno dell'Edificio Presidente», disse Falcón. «E io trovo più convincente quest'ipotesi di quella dell'assassino che si arrampica sull'autoscala e resta nascosto nell'appartamento per mezza giornata, anche se era un appartamento vuoto, a parte la breve comparsa della signora Jiménez. La ragazza era spaventata?»
«Non ha più aperto bocca da quando abbiamo finito di interrogarla.»
«Ci ha creduto?»
«Chi lo sa?»
L'Edificio de los Juzgados era accanto al Palacio de Justicia, esattamente di fronte ai jardines de Murillo. Erano le cinque passate quando Falcón e Ramírez parcheggiarono nel cortile posteriore del palazzo. Falcón, che detestava arrivare in ritardo, avrebbe voluto fare a pezzettini il pettine che Ramírez si stava passando tra i capelli neri e lustri di brillantina, ma il suo sguardo omicida non ebbe nessun effetto sull'Inspector, il quale riteneva che fossero in anticipo e considerava prioritaria la condizione della sua capigliatura: avrebbero anche potuto incontrare qualche segretaria.
I due uomini, vestiti di scuro, camicia bianca e occhiali da sole, entrarono dall'ingresso principale dello squallido palazzo grigio, il monocromatico ritratto della giustizia nella città-giardino. Fecero passare le cartelle nella macchina a raggi X e mostrarono il tesserino di riconoscimento. Il luogo era tranquillo; tutto il movimento aveva luogo la mattina. Salirono al piano superiore dove si trovava l'ufficio del Juez Calderón. L'edificio era buio, perfino lugubre all'interno; non c'era mai niente di gradevole nella giustizia, nemmeno quando era vera e autentica.
Ramírez chiese di Lobo e Falcón gli disse che il Comisario León si era già fatto sentire: accennò anche alla questione della corruzione, ma l'altro parve annoiato.
Calderón non era nel suo ufficio. Ramírez si lasciò cadere su una sedia e giocherellò con l'anello d'oro che portava al dito medio, un anello con tre brillanti che aveva sempre irritato Falcón, il quale lo giudicava troppo effeminato per Ramírez, individuo tutto muscoli color mogano.
«Dovremo fare qualcosa per quel
Falcón lasciò vagare lo sguardo per la stanza dalle pareti ricoperte di libri. Ramírez si accomodò meglio sulla sedia.
«Secondo me chi scopa sia le donne sia gli uomini in fondo è un
«Anche se si tratta di un'esperienza isolata?»
«Non è una cosa con cui fare esperimenti, Inspector Jefe, è nei geni. Se uno anche solo pensa di poterlo fare, è un
«Non parliamo di questo con Calderón.»
Il giovane magistrato arrivò alle sei meno un quarto, sedette alla scrivania ed entrò subito in argomento. Era nel ruolo di Juez de Instrucción ora, il che significava che era lui ad avere la responsabilità della direzione del caso e di presentare con successo le prove d'accusa in tribunale.
«Che cosa abbiamo in mano?» domandò.
Ramírez sbadigliò. Calderón accese una sigaretta e porse il pacchetto a Ramírez che ne prese una. I due fumarono mentre Falcón si domandava il perché di tanta confidenza… finché non gli venne in mente il calcio. Il Betis che perdeva quattro a zero il giorno in cui l'assassino aveva ripreso con la telecamera Raúl e i suoi figli. Ma come mai quella disinvoltura di modi? Cercò di ricordare se lui l'avesse mai posseduta. Doveva averla perduta da giovane, quando il lavoro aveva cominciato a diventare una cosa troppo seria, o forse quando lui era diventato troppo serio a proposito del suo incarico, chissà.
«Chi comincia?» domandò Calderón.
«Partiamo dal cadavere», disse Falcón, e fece un resoconto dei risultati dell'autopsia.
«In che modo sarebbero state asportate le palpebre?» chiese Calderón.
«Un'incisione iniziale con il bisturi e poi il taglio con le forbici. Il medico legale ha detto che è stato un lavoro pulito.»
«E noi pensiamo che la mutilazione sia stata inflitta per costringerlo a vedere qualcosa alla televisione?»
«La gravità delle lesioni che si è procurato indica che l'uomo era inorridito da ciò che gli era stato fatto e anche da ciò che volevano obbligarlo a guardare», rispose Falcón.
«Occorre approfondire», disse Calderón, toccandosi inconsciamente le palpebre. «Nessuna idea su ciò che l'assassino gli aveva mostrato?»
Ramírez scosse il capo: non c'era posto per quel genere di congetture nella sua testa dura.
«Credo che si possano conoscere soltanto i
«Sì, io ho paura dei topi, per esempio», disse Calderón allegramente.
«Mia moglie non sopporta i ragni… nemmeno alla televisione», affermò Ramírez.
I due risero.
«Qui siamo di fronte a qualcosa di peggio di una fobia», riprese Falcón, inchiodato al ruolo del maestro di scuola. «E per il momento le congetture non ci aiutano, dobbiamo piuttosto concentrarci sul movente.»
«Il movente», ripeté Calderón annuendo, come se ripassasse una lezione. «Ha parlato con la signora Jiménez?»
«Mi ha fornito da sola il suo movente per uccidere o far uccidere il marito», rispose Falcón. «Il loro matrimonio andava male, la signora aveva un amante e lei e i figli avrebbero ereditato tutto.»
«L'amante», insistette Calderón. «Lo ha interrogato?»
«Sì, perché le telecamere lo avevano ripreso mentre entrava nell'Edificio Presidente una mezz'ora circa prima che Raúl Jiménez fosse assassinato. Inoltre è assistente alla facoltà di biochimica.»
«Opportunità
«Oltre all'accesso al cloroformio e agli strumenti di laboratorio», disse Ramírez e il magistrato lo guardò storto, incerto se pensare che avesse voluto fare lo spiritoso o che fosse stupido.
«E allora?» domandò poi, allargando le braccia, in attesa della risposta ovvia.
Falcón gli riferì la brutta notizia che Lucena era salito all'ottavo piano, nell'appartamento di Marciano Ruiz.
«Conosco questo nome», disse Calderón. «Non è un regista teatrale?»
«E una nota
«Non capisco.»
«Lucena se li faceva tutti e due», spiegò Ramírez. «Ha detto che scopava
«Che cos'è questa storia?»
«Lucena stava cercando di offendere l'Inspector Ramírez», spiegò Falcón.
«Ma non lei», osservò blando Calderón. «Intende arrestarlo?»
«Prima di tutto non credo che l'assassino sia il genere di persona tanto stupida da farsi riprendere da una telecamera…»
«A meno che agisca al contrario in modo molto intelligente e sottile», obiettò Calderón. «Per esempio, non si vede mai l'amante nel film
«Sta dimenticando la prostituta, Eloisa Gómez», obiettò Falcón. «Se Lucena fosse l'assassino, sarebbe stato nell'appartamento per filmare lei e Raúl Jiménez come abbiamo visto nella cassetta. La ragazza è stata ripresa mentre usciva dal palazzo all'una e tre minuti ed era di nuovo sull'Alameda all'una e mezzo. Basilio Lucena a quell'ora si trovava ancora all'hotel Colón con la signora Jiménez. Ho calcolato i tempi per vedere se è comunque possibile e lo è, ma è anche decisamente improbabile.»
«Be', una cosa quasi emozionante, no?», disse Calderón. «A che ora Lucena ha lasciato l'edificio?»
«Non c'è nessuna registrazione», rispose Falcón. «Dice di essere uscito la mattina dopo con Marciano Ruiz.»
«Come mai non c'è nessuna registrazione?»
«I cavi della telecamera del garage erano stati tagliati», rispose Ramírez e la notizia giunse nuova a Falcón. «Secondo la Policía Científica sono stati recisi con le pinze.»
«Allora sarebbe entrato da lì?» domandò Calderón, sperando di veder emergere scoperte più interessanti.
«Di sicuro è uscito da lì», disse Falcón. «Il problema, però, non era soltanto entrare nel palazzo senza essere visto, ma anche entrare nell'appartamento. Raúl Jiménez era attentissimo alla sicurezza e chiudeva sempre a chiave la porta con cinque giri di chiave, lo ha confermato la prostituta che lo ha sentito chiudere mentre aspettava l'ascensore.»
«Allora come ha fatto a entrare l'assassino?»
Falcón gli spiegò la teoria dell'autoscala delle Mudanzas Triana. Calderón si rigirò l'idea nella testa.
«E così entra nell'appartamento, che è vuoto, ma vi rimane nascosto per dodici ore e si porta dietro anche la telecamera per registrare Raúl Jiménez con una prostituta? Non mi sembra che…»
«Pur ammettendo che le cose siano andate in questo modo, non credo che quella parte fosse programmata», lo interruppe Falcón. «Credo che abbia agito spinto dalla sua stessa arroganza. Voleva dimostrarci che era sempre stato lì. Se non li avesse filmati, noi sapremmo molto meno, probabilmente staremmo ancora a perdere tempo con Basilio Lucena. Perciò dobbiamo ringraziare l'assassino di questa piccola svista, nonché dello straccio imbevuto di cloroformio che ha dimenticato, perché con ognuno di questi errori ci rivela qualcosa di sé.»
«Cioè che si tratta di un dilettante», disse Calderón.
«Ma di un dilettante con i nervi saldi», replicò Falcón. «Sa rischiare e gli piace prendersi gioco degli altri.»
«Uno psicopatico?»
«Motivato e disposto a scherzare. E senza molto da perdere.»
«E con una certa esperienza chirurgica», aggiunse Ramírez.
Falcón illustrò la seconda ipotesi: Eloisa Gómez che lasciava entrare il suo amante o un amico del suo ambiente per uccidere Raúl Jiménez.
«Non è stato rubato niente», spiegò Ramírez. «L'appartamento era praticamente vuoto, perciò l'unico motivo per volerci entrare era uccidere Raúl Jiménez.»
«La ragazza come ha retto l'interrogatorio?»
«È una dura», rispose Ramírez.
«Ci riproverete comunque, no?» raccomandò Calderón.
Nella calma che seguì i loro cenni di assenso, Falcón fece al magistrato un breve resoconto sul suo colloquio con Lobo a proposito del livello di corruzione al tempo dell'Expo '92 e del coinvolgimento di Raúl Jiménez. Accennò anche all'avvertimento che gli aveva dato il Comisario.
«Se questo delitto ha a che fare con casi di corruzione, io devo essere libero di parlarne», affermò Calderón, uno scintillio negli occhi, all'improvviso il magistrato combattente.
«Certamente», lo rassicurò Falcón. «Ma vi sono aspetti abbastanza delicati, con il coinvolgimento di personaggi importanti che, anche se sono puliti, potrebbero non gradire l'associazione. Dell'ambiente della magistratura, ricorda chi compariva nelle fotografie? Bellido e Spinola, tanto per nominarne due.»
«Si tratta di cose di dieci anni fa, comunque», disse Calderón, il suo attacco di idealismo rapidamente smorzato.
«Non è un tempo poi tanto lungo per coltivare un rancore», osservò Falcón, e gli altri due lo guardarono come se l'Inspector Jefe di rancori ne coltivasse parecchi simultaneamente.
Dopo aver riferito la sua conversazione con Consuelo Jiménez, Falcón porse al giudice la stampata del vecchio elenco di indirizzi, ricordando che l'assassino si era appropriato del telefono cellulare di Raúl Jiménez. Calderón scorse l'elenco. Ramírez sbadigliò e si accese un'altra sigaretta.
«E così mi state dicendo», concluse Calderón, «che nonostante la scena orripilante che l'assassino ha lasciato nell'appartamento, malgrado tutti gli interrogatori e le deposizioni raccolte fino a questo momento… in effetti non abbiamo nessuna pista concreta?»
«Abbiamo sempre la signora Jiménez come principale indiziata. È l'unica ad avere avuto un movente preciso e la possibilità di mettere in esecuzione il suo piano. Eloisa Gómez è invece una possibile complice di un assassino che ha agito di propria iniziativa.»
«Oppure no», obiettò Calderón. «L'assassino potrebbe anche in questo caso essere stato pagato dalla signora Jiménez e, se così fosse, sono certo che la signora non avrebbe voluto attirare l'attenzione su di sé fornendo la chiave al sicario. Gli avrebbe detto di trovare da solo il modo di entrare nell'appartamento.»
«E l'assassino si sarebbe servito della prostituta oppure dell'autoscala?» domandò Ramírez. «Io so quello che avrei fatto.»
«Se si fosse servito della ragazza per entrare, perché filmarla?» si chiese Calderón. «Non sembra logico. Sembra più sensata l'altra ipotesi, cioè che l'abbia fatto per farci vedere quanto sia bravo.»
«In entrambi i casi esistono aspetti possibili e aspetti improbabili», osservò Falcón.
«Siete tutti e due convinti che la signora Jiménez sia seriamente una candidata attendibile come colpevole dell'omicidio del marito?» domandò Calderón.
Ramírez rispose di sì, Falcón di no.
«In che modo
Falcón fece scrocchiare le dita l'una dopo l'altra. Calderón reagì con un moto di fastidio. L'ispettore non voleva ancora rivelare ciò che gli suggeriva l'istinto, aveva bisogno di tempo per riflettere. In quel caso c'erano già abbastanza elementi straordinari senza proporre di esaminare la vita di Jiménez verso la fine degli anni '60. Ma era lui il capo e quindi lui doveva avere le idee.
«Dovremmo lavorare su entrambe le ipotesi e sull'elenco di indirizzi di Raúl Jiménez», disse. «Credo che dobbiamo mantenere una presenza dentro e intorno all'Edificio Presidente per tentare di trovare un testimone che confermi una delle teorie sul modo in cui è entrato l'assassino e possibilmente ce ne fornisca una descrizione. Dobbiamo interrogare gli addetti della ditta di traslochi e dobbiamo mantenere sotto pressione sia Consuelo Jiménez sia Eloisa Gómez.»
Nessuna replica da parte di Calderón.
Stavano tornando alla Jefatura sulla Blas Infante. Ramírez era alla guida e, mentre attraversavano il fiume in direzione di plaza de Cuba, la pubblicità della birra Cruzcampo gli provocò l'impressione di avere la gola asciutta. Non gli sarebbe dispiaciuto farsi una birretta, pensò, ma non con Falcón. Voleva bere in compagnia di qualcuno più socievole di lui.
«Che cosa pensa veramente, Inspector Jefe?» domandò, strappando Falcón alle sue riflessioni sulle difficoltà del suo primo incontro con il giovane magistrato.
«Penso più o meno quello che ho detto al Juez Calderón.»
«No, no, non ci credo», ribatté Ramírez, battendo la mano sul volante. «Io la conosco, Inspector Jefe.»
L'osservazione costrinse Falcón a volgersi sul sedile: l'idea che Ramírez avesse una sia pur minima idea di ciò che gli passava per la mente era quanto meno risibile.
«Mi dica, Inspector.»
«Lei gli ha riferito alcune cose, ma ne pensava altre», affermò Ramírez. «Voglio dire, lei sa bene che controllare quell'elenco di indirizzi è solo una perdita di tempo, come lo è, ammettiamolo, interrogare i dipendenti licenziati dalla signora Jiménez.»
«Questo non lo so», disse Falcón. «E
«Ma non crede che ci sia un collegamento, vero?»
«Rimango aperto a tutte le ipotesi.»
«Questa è opera di uno psicopatico e lei lo sa, Inspector Jefe.»
«Se io fossi uno psicopatico e mi piacesse ammazzare la gente, non sceglierei un appartamento al sesto piano dell'Edificio Presidente, con tutte le complicazioni che ciò comporta.»
«Gli piace mettersi in mostra.»
«Ha studiato quelle persone, ha voluto sapere tutto del suo bersaglio, è stato accurato», obiettò Falcón. «Deve averli visti visitare la loro nuova casa, deve aver spiato gli addetti ai traslochi salire nell'appartamento…»
«Dobbiamo interrogarli domattina come prima cosa», disse Ramírez. «Una tuta dimenticata, cose del genere.»
«Domani è
Ramírez entrò nel parcheggio dietro la Jefatura.
«Il movente», soggiunse scendendo dall'auto. «Perché sta eliminando dal quadro la vipera?»
«La vipera?»
«Quei ragazzi con i quali ho parlato, quelli che erano contenti di essere sfuggiti alle grinfie di Consuelo Jiménez, non hanno avuto una sola parola gentile su di lei come persona, però dal punto di vista professionale hanno detto che era bravissima.»
«E a Siviglia questa è una cosa insolita?» domandò Falcón.
«Lo è per quel tipo di donna, la moglie di un uomo ricco. Normalmente alle donne di quel genere non piace sporcarsi le mani e trattano solo con il Marqués e la Marquesa de No Sé Que. Ma a quanto pare la signora Jiménez faceva tutto.»
«Per esempio?»
«Lavava l'insalata, tagliava la verdura, cucinava i
«E che cosa ne conclude?»
«Le piaceva quel lavoro, lo aveva fatto diventare il
«Conosce il locale?»
«Il miglior
Ramírez spinse con la spalla la porta sul retro della Jefatura, la tenne aperta per Falcón e lo seguì su per le scale.
«Che cosa mi vuole dire con questo?» domandò Falcón.
«Come crede che avrebbe reagito, diciamo, se il marito avesse deciso di vendere tutto?» disse Ramírez, facendo arrestare Falcón sul gradino. «Non l'ho tirato fuori davanti a Calderón, perché ho solo la parola di quei ragazzi a questo proposito.»
«Be', sono contento che sia stato
«Non riuscirà lo stesso a farmi lavorare su quegli indirizzi», replicò Ramírez.
«E così, quelli hanno sentito Raúl Jiménez parlare con qualcuno?»
«Conosce una catena di ristoranti che si chiama Cinco Bellotas, gestita da un certo Joaquín López? È giovane, dinamico e molto solido sotto il profilo economico. È uno dei pochi a Siviglia che potrebbe comprare e mandare avanti i locali di Jiménez anche domani.»
«Nessun collegamento tra lui e la signora Jiménez?»
«Non lo so.»
«Il piano di questo delitto è molto elaborato. Elaborato
«Dipende da quanto intensamente lo voleva», ribatté Ramírez. «Non c'è nessuna innocenza in lei, se vuole il mio parere.»
I due uomini guardarono dalla finestra dell'ufficio di Falcón le file di macchine, meno numerose ora che il buio stava calando.
«E c'è dell'altro», riprese Falcón, «qualsiasi cosa l'assassino abbia mostrato a Raúl Jiménez era vera. Lui non voleva vederla e per questo l'altro ha dovuto…»
Ramírez annuì, ogni sforzo cerebrale terminato per quel giorno. Accese una sigaretta, senza pensare o ricordare che Falcón detestava che si fumasse nel suo ufficio.
«E allora qual è la
Falcón scoprì che stava mettendo a fuoco un'immagine più vicina: non stava più guardando il parcheggio vuoto, ma il suo riflesso nel vetro. Un volto dagli occhi incavati, assenti, che non vedevano, un volto perfino sinistro.
«L'assassino voleva costringerlo a vedere», disse.
«Ma che cosa?»
«Abbiamo tutti qualcosa di cui ci vergogniamo, qualcosa che solo a pensarci ci fa rabbrividire per l'imbarazzo o peggio.»
Accanto a lui Ramírez si irrigidì, parve solidificarsi, il carapace di colpo presente, impenetrabile. Nessuno poteva armeggiare dentro i meccanismi di Ramírez. Falcón l'osservò nel vetro e decise di rendere le cose più facili al sivigliano.
«Sa, come quando da ragazzi si fa la figura degli idioti con una ragazzina oppure si è codardi, non si ha il coraggio di proteggere un compagno o si è moralmente deboli, o non ci si schiera apertamente a difesa di qualcosa in cui si crede, perché si ha paura di prenderle. Questo genere di cose, ma trasferite in una vita adulta, con implicazioni adulte.»
Ramírez si contemplò la cravatta, il massimo di introspezione che avesse mai dimostrato.
«Vuol dire il genere di cose sulle quali il Comisario Lobo l'ha messa in guardia?»
Un modo brillante di deviare il discorso, pensò Falcón. Corruzione, la macchia affrontabile. Lavatrice, risciacquo, centrifuga. Dimenticata. Solo una questione di soldi, tutto parte del gioco.
«No», rispose.
Ramírez si avviò alla porta, annunciando che per quel giorno aveva finito e Falcón lo salutò attraverso il riflesso sul vetro.
All'improvviso si sentì stanchissimo, la pesantezza della giornata gli piombò sulle spalle. Chiuse gli occhi e invece di pensare alla cena, a un bicchiere di vino e al sonno, scoprì che nella sua mente girava e rigirava sempre la stessa domanda.
Che cosa poteva essere così terribile?
VIII
Nella grande casa del diciottesimo secolo appartenuta a suo padre, Javier Falcón era seduto nello studio, una stanza al pianterreno che si apriva sul portico del patio al centro del quale si trovava una fontana con la scultura in bronzo di un fanciullo ritto su un piede, l'altra gamba sollevata dietro di sé e un'urna sulla spalla. Falcón la faceva funzionare soltanto d'estate, quando il gorgoglio dell'acqua che ricadeva dall'urna gli dava l'illusione di non avere caldo.
Era solo in casa. La governante, Encarnación, che era stata anche la governante di suo padre, se ne andava alle sette di sera, e ciò significava non vederla mai. Uniche prove della sua presenza, un biglietto ogni tanto e la sua abitudine, irritante per Falcón, di spostare gli oggetti: i vasi delle piante nel patio all'improvviso occupavano un angolo diverso, piccoli mobili venivano trasportati da una stanza all'altra, apparivano immagini della Virgen del Rocío in nicchie in precedenza vuote. Anche sua moglie, la sua ex moglie, era stata una grande sostenitrice della necessità dei cambiamenti.
«Questa potrebbe diventare la tua stanza del biliardo», diceva. «Potremmo metterci un
«Ma io non fumo.»
«Credo che sarebbe bello.»
«E non gioco a biliardo.»
«Dovresti provare.»
Stupidi discorsi che gli tornavano alla mente mentre sedeva alla scrivania con una lente di ingrandimento in mano. Non il ridicolo strumento alla Sherlock Holmes che sua moglie gli aveva regalato per un compleanno, un aggeggio assurdo per l'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios. Questa era una lente di ingrandimento montata su una scatola di perspex che illuminava l'oggetto osservato.
Stava guardando le foto che aveva trovato nella scrivania di Raúl Jiménez. Di fronte a lui, appoggiate alla cornice di una fotografia di sua madre che lo teneva in braccio, con accanto suo fratello Paco di sette anni e sua sorella Manuela di cinque, stavano altre due foto vicine. La prima un'altra istantanea di sua madre, seduta sulla spiaggia con il vento tra i capelli, in costume da bagno, in testa una cuffia cosparsa di fiori di gomma dai petali bianchi. Era la foto che lei preferiva. Sul retro era scritto: «Tangeri, giugno 1952». Aveva venticinque anni allora ed era impossibile credere, guardando quell'immagine così vitale, che le restassero soltanto nove anni da vivere.
La seconda era una fotografia di suo padre, capelli neri pettinati all'indietro, baffetti sottili, naso troppo grosso per il viso giovane, la bocca sensuale. E gli occhi. Perfino in bianco e nero gli occhi erano straordinari. Davano l'impressione di vedere molto, molto lontano e qualsiasi luce ricevessero brillava nell'iride, che era verde ma tendente all'ambra vicino alla pupilla. A più di ottant'anni, anche dopo il primo infarto che lo aveva indebolito, quegli occhi verdi riuscivano ancora a catturare la luce. Erano gli occhi che ci si aspettava in un artista della sua statura, scrutatori, penetranti e magici. Nella foto suo padre indossava uno smoking bianco e un papillon nero. Sul retro: «Capodanno 1953, Tangeri».
Falcón esaminò le fotografie di Jiménez, seccato per la loro cattiva qualità. Si domandò perché diavolo le stesse studiando. Aveva, sì, l'abitudine di lavorare partendo per la tangente, ma questo era assurdo, non aveva nessun collegamento con il caso. Che differenza avrebbe fatto riconoscere l'uno o l'altro dei suoi genitori in quelle fotografie? Che importanza poteva avere che si fossero trovati a Tangeri nello stesso periodo in cui anche Raúl e Gumersinda Jiménez erano là? C'erano anche altri quarantamila spagnoli. Eppure, mentre argomentava così contro quella mancanza di logica, era sempre più preso dalla sua ricerca, tanto che, per un attimo, si convinse che fosse un inequivocabile segno di vecchiaia.
Le foto dello yacht, semplici scatti per immortalare il nuovo giocattolo di Raúl Jiménez, non lo interessarono finché non arrivò a un'immagine del porto pieno di barche e di gente che festeggiava sui ponti, in primo piano Jiménez, la moglie e i bambini. Sembravano felici. La moglie salutava con la mano, i due figli ridenti sulle ginocchia. Falcón fece scorrere la lente sulle altre imbarcazioni ormeggiate dietro quella di Jiménez. Si arrestò, tornò indietro su una coppia in coperta e scartò l'idea di una somiglianza. Spostò di nuovo la lente, ma, riportandola sulla coppia, comprese perché lo aveva fatto: l'uomo era suo padre, appoggiato alla battagliola di uno yacht molto più grande di quello di Raúl. Era con una donna della quale non riusciva a distinguere con chiarezza il viso, ma che aveva i capelli biondi. Si stavano baciando. Un rapido particolare privato che il fotografo di Jiménez aveva colto inavvertitamente. Controllò il retro della foto: «Tangeri, agosto 1958». Pilar, sua madre, era ancora viva. Osservò più attentamente la donna bionda e con suo stupore vide che era Mercedes, la seconda moglie di suo padre. Fu colto da un senso di nausea e, spinta via la lente, si premette il palmo delle mani sugli occhi. Ecco quello che accadeva quando si partiva per la tangente… ci si imbatteva in verità insospettate. Solo per questo lo faceva.
Squillò il telefono: sua sorella, da un cellulare in un bar affollato.
«Sapevo che ti avrei trovato a casa, visto che non eri al lavoro», gli disse Manuela. «Che stai facendo, fratellino?»
«Sto guardando qualche vecchia foto.»
«Ehi! Andiamo, vecchietto, un po' di vita! Siamo qui a La Tienda ancora per una mezz'ora, vieni a bere una
«Vengo per la
«Bravo, fratellino. E un'altra cosa, una condizione molto importante…»
«Sì, Manuela?»
«Non ti sarà permesso di pronunciare la parola 'Inés'. Okay?»
Manuela riagganciò. Falcón scosse il capo verso il telefono muto. Sua sorella era una cattiva psicologa. Infilò la giacca, raddrizzò il nodo alla cravatta, controllò le tasche e vi trovò l'indirizzo e il numero di telefono del figlio di Raúl Jiménez. Il giorno dopo era
«Sono già stato informato», rispose l'altro, pronto a riagganciare.
«Volevo soltanto parlarle di…»
«In questo momento non posso.»
«Forse potremmo vederci domani… per una breve conversazione. Sarebbe importante per precisare il quadro.»
«Davvero non vedo come…»
«Verrei io a Madrid, naturalmente.»
«Non c'è nulla di cui parlare. Non vedevo mio padre da anni.»
«È proprio questo il punto. Non sono interessato al presente.»
«Ma non c'è davvero nulla!»
«Ci dorma sopra. La richiamerò domattina, non sarà una cosa lunga e potrebbe aiutarci molto.»
Jiménez farfugliò qualcosa e riagganciò. Quell'uomo era un avvocato, Falcón lo sapeva, ma non gli aveva suggerito questa impressione: troppo confuso e insicuro. Spense la lampada e, uscito nel patio, inspirò l'aria fresca della sera e il silenzio: quasi silenzio, perché i rumori della città giungevano come un rombo lontano in quel centro buio e concavo della casa. Si stirò, respirò a pieni polmoni allargando le braccia e tra gli archi della galleria sovrastante il patio vide ciò che Eloisa Gómez avrebbe definito «ombre che si muovevano». Corse su per i gradini, frugandosi in tasca alla ricerca della chiave che apriva il cancello di ferro battuto in cima alla scala, poi corse fino a un secondo cancello che dava sull'altro tratto di galleria davanti allo studio di suo padre. Nessuno. Tornò all'arco dove gli era parso di intravedere il movimento e si affacciò sul patio. L'acqua nella fontana, ferma e nera come una pupilla, fissava il cielo. Solo stanchezza, pensò, serrando le palpebre.
Uscì di casa dal portoncino ritagliato nel massiccio portale di legno con le borchie di ottone, l'entrata di quella casa troppo grande per lui sulla calle Bailén. Troppo grande per lui. Sì, e troppo grandiosa per un uomo nella sua posizione, ma ogni volta che pensava di venderla, si arenava davanti al pensiero di ciò che questo avrebbe comportato. Prima di tutto avrebbe dovuto eseguire le istruzioni contenute nel testamento di suo padre, una cosa che rimandava da tempo, e cioè vuotare lo studio e bruciare tutto, fino all'ultimo schizzo. Non poteva farlo. Non lo aveva fatto, non era nemmeno mai entrato nello studio da quando suo padre era morto, due anni prima. Non aveva nemmeno mai aperto quell'ultimo cancello di ferro battuto nella galleria.
L'avvocato di suo padre era morto tre mesi dopo la lettura del testamento e a Paco e a Manuela non importava un accidente di niente, erano troppo impegnati con la loro parte di eredità: la
Falcón percorse le strette gole delle viuzze acciottolate fino al bar in calle Gravina, una vecchia bottega che conservava ancora le antiche bilance sul banco. Gli avventori si riversavano sul marciapiede con le loro birre; Manuela e il suo amico erano in fondo, pigiati tra la folla. Falcón si fece strada fino al loro tavolo.
«Fratellino!» Manuela lo aveva sempre chiamato così fin da quando erano piccoli. «Hai l'aria stanca. Altri cadaveri?»
«Soltanto uno.»
«Un altro raccapricciante caso di droga?» si informò la sorella accendendo una disgustosa sigaretta al mentolo, che riteneva meno dannosa.
«Raccapricciante, ma senza droga questa volta. Più complicato.»
«Non so come fai.»
«Non molti dei tuoi amici riuscirebbero a immaginare una donna bella e raffinata come Manuela Falcón con il braccio insanguinato fino alla spalla mentre tira fuori vitelli nati morti.»
«Oh, non lo faccio più da tanto tempo!»
«Non ti vedo a tagliare le unghie ai barboncini.»
«Devi parlare con Paco», disse lei, ignorandolo. «È molto preoccupato, sai.»
«La Feria è il periodo più faticoso per lui.»
«No, no, non si tratta di questo», bisbigliò Manuela. «È per le
Falcón sorseggiò la birra, mangiò una fetta di
«Se lo obbligano a fare i test ufficiali e trovano un animale con la malattia dovrà abbatterli tutti, anche quelli con una storia familiare di centovent'anni.»
«C'è di che essere preoccupati.»
«Gli fa male anche la gamba, è sempre così quando è sotto stress. Certi giorni non riesce nemmeno a camminare.»
Alejandro gli mise davanti un piatto di formaggi e istintivamente Falcón girò la testa dall'altra parte.
«Non gli piace il formaggio», spiegò Manuela e il piatto sparì.
«È saltato fuori il tuo nome, oggi al lavoro», disse Falcón.
«Male.»
«Hai vaccinato il cane di una persona, c'era una fattura.»
«Il cane di chi?»
«Spero che ti abbia già pagato.»
«Non avresti trovato la ricevuta firmata, altrimenti.»
«Raúl Jiménez.»
«Sì, un simpatico Weimeraner. Era un regalo per i suoi figli… stanno cambiando casa. Doveva venirlo a prendere oggi.»
Falcón la fissò. Manuela batté le palpebre guardando la sua birra, posò il boccale. Accadeva di rado che un vero omicidio scivolasse in una conversazione che non fosse di lavoro. Normalmente, se sollecitato, Falcón raccontava qualcosa sul suo modo di condurre le indagini, sulle sue idiosincrasie, la sua attenzione ai particolari, ma non parlava mai di come fosse in realtà il suo lavoro, sempre faticoso, talvolta molto tedioso e inframmezzato da momenti di orrore.
«Sono preoccupata per te, fratellino.»
«Non corro pericoli.»
«Voglio dire… il tuo mestiere. Ti fa delle cose.»
«Quali cose?»
«Non so, suppongo che nella tua professione si debba diventare cinici per sopravvivere.»
«Cinico? Io? Io svolgo indagini sugli omicidi. Cerco la ragione per cui si producono questi momenti di aberrazione. Cerco di scoprire perché in questi tempi così razionali, così civili, sia ancora possibile crollare e cadere come normali esseri umani. Non è come sopprimere cuccioli o massacrare intere mandrie di bestiame.»
«Non sapevo che certe cose ti toccassero tanto.»
Erano così vicini che Falcón avvertiva il mentolo della sigaretta nell'alito di lei, nonostante l'odore di sudore e profumi del bar affollato. Manuela era fatta così, riusciva sempre a provocare e per questo i suoi amori, scelti per il bell'aspetto e il portafogli, non duravano mai. Sua sorella non sapeva essere sempre dolce e femminile.
«
«Non era questa una delle cose di cui ti accusava Inés?»
«Hai pronunciato tu la parola proibita, non io.»
Manuela alzò lo sguardo, sorrise e si strinse nelle spalle. «Hai detto che speravi mi avessero pagato per il cane di quel poveretto e mi è sembrata una battuta un po' cinica, ecco tutto. Ma forse eri soltanto… flemmatico.»
«È stata una cosa di cattivo gusto», convenne Falcón, sorprendendosi a mentire subito dopo. «Non sapevo che il cane fosse un regalo per i figli.»
Alejandro inserì tra loro il profilo della sua superba mandibola e Manuela rise, senza nessuna ragione, se non che erano i primi tempi e lei voleva ancora far sentire il suo uomo contento di sé.
Parlarono di
«Una volta l'ho visto alla televisione, in Messico. Era stato incornato e il sangue gli scorreva lungo il polpaccio, era pallido e aveva l'aria sofferente ma era rimasto in piedi, aveva ritrovato l'equilibrio, aveva fatto allontanare i suoi uomini e si era avvicinato di nuovo al toro. Perdeva tanto sangue, si vedeva: a ogni passo gli sprizzava dalla scarpa. Poi ha puntato il toro e lo ha infilzato. L'hanno portato subito all'ospedale.
«Vostro cugino Pepe», disse Alejandro, che aveva sentito quella storia già troppe volte, «Pepe Leal. Ha qualche possibilità per la Feria?»
«Non è nostro cugino», lo corresse Manuela, dimenticando per un momento il suo ruolo. «È figlio del fratello di nostra cognata.»
Alejandro scrollò le spalle. Voleva ingraziarsi Javier. Sapeva che Javier era il confidente di Pepe e che la mattina della corrida andava sulla
«Quest'anno no», rispose Javier. «È andato molto bene a Olivenza in marzo, gli hanno dato un orecchio di ognuno dei suoi tori e lo hanno invitato per la Feria de San Juan a Badajoz, ma non pensano ancora che sia al livello della Feria de Abril. Può solo stare lì e sperare che qualcuno si ritiri.»
Gli dispiaceva per il ragazzo, Pepe, che aveva diciannove anni e un grande talento, ma anche un manager che non riusciva mai a inserirlo nelle
«La moda cambierà», disse Manuela, consapevole che il fratello si sentiva responsabile per Pepe.
«È convinto di essere ormai troppo vecchio per poter sfondare», spiegò Javier. «Si confronta con El Juli, che sembra sull'arena da decenni e che ha solo un paio d'anni più di lui. E si scoraggia.»
Alejandro ordinò altre tre birre. Manuela stava fissando Javier, un sopracciglio inarcato.
«Che c'è?» domandò Falcón.
«Tu», rispose lei. «Tu e Pepe.»
«Lascia perdere.»
«Ricordi, vero, quello che ha scritto quel tizio su
«Un idiota.»
«Tu sei più vicino a Pepe di quanto non lo sia suo padre. Ha un mucchio di affari in Sudamerica, ma non va a vedere suo figlio quando si esibisce in Messico.»
«Stai facendo del sentimentalismo, come quel giornalista», commentò Javier. «Io mi limito ad aiutare Pepe con i tori.»
«Sei fiero di lui come non lo è nemmeno suo padre.»
«Non sei giusta», obiettò Falcón e poi, per cambiare argomento: «Oggi mi è capitato di vedere una foto di papà…»
«Devi trovarti una donna, Javier», lo interruppe Manuela. «Non va bene questo star lì a guardare i vecchi album.»
«Era una fotografia trovata nello studio di Raúl Jiménez. Si trovava a Tangeri più o meno nello stesso periodo. Papà non si era accorto di essere fotografato.»
«Stava facendo qualcosa di imperdonabile?»
«La data era agosto 1958 e lui stava baciando una donna…»
«Non dirmi… non era Mamá?»
«Proprio così.»
«E per te è stato un colpo?»
«Sì», rispose lui. «Era Mercedes.»
«Papà non era un angelo, Javier.»
«Mercedes era ancora sposata a quel tempo, no?»
«Non lo so», disse Manuela, scacciando ogni cosa con la sua sigaretta. «Era la Tangeri di quei giorni, tutti quanti su di giri a scopare di qua e di là.»
«Puoi cercare di ricordare? Eri più grande di me, io non avevo nemmeno quattro anni.»
«Che importanza può avere?»
«Penso soltanto che potrebbe essere di aiuto.»
«Per l'omicidio di Raúl Jiménez?»
«No, no, non credo. È sul piano personale, voglio solo chiarire le cose, tutto qui.»
«Sai, Javier, forse non dovresti vivere da solo in quella grande casa.»
«Ho provato a viverci con qualcuno che non si può nominare.»
«Questo è il punto. Le vecchie case sono piene e alle donne non piace dividere il proprio spazio vitale a meno che non siano loro a volerlo fare.»
«A me piace vivere lì. Mi sento al centro delle cose.»
«Però non ci vai mai 'al centro delle cose', vero? Non conosci niente che non si trovi tra calle Bailén e la Jefatura. E la casa è davvero troppo grande per te.»
«Come lo era per papà?»
«Dovresti prenderti un appartamento come il mio… con l'aria condizionata.»
«L'aria condizionata?» ripeté Javier. «Sì, forse aiuterebbe. Aria purificata. Gli ultimi modelli non hanno un pulsante che dice: 'passato condizionato'?»
«Sei sempre stato un bambino strano. Papà avrebbe dovuto lasciarti fare l'artista.»
«Il che avrebbe risolto tutti i problemi, perché sarei stato talmente in bolletta che alla sua morte avrei dovuto vendere immediatamente la casa.»
Sopraggiunsero gli altri amici di Manuela e di Alejandro e Javier finì la birra. Si nascose dietro una barricata di scuse per evitare la cena: il lavoro, insistette più volte, una cosa che pochi di loro potevano capire, essendo bene al riparo dalle difficoltà del quotidiano.
Tornato a casa, cenò con cozze in salsa di pomodoro, fredde. Un piatto che gli aveva lasciato Encarnación, la quale sapeva che non si poteva mangiare bene senza una donna in casa. Bevve un bicchiere di vino bianco scadente e raccolse il sugo con un pezzo di pane raffermo. Non pensava a niente in particolare, eppure sentiva la mente affannata da un senso di precipitazione. Forse si stava scaricando dalle tensioni del giorno, si disse, ma dopo un po' si rese conto che stava piuttosto «caricando» qualcosa, come un nastro che si riavvolgesse rapidamente: Inés. Separazione. Divorzio. «Tu non hai cuore.» Trasloco in quella casa. Suo padre morente…
Fermò il nastro. Nella testa avvertì un deciso scatto. Andò a letto con troppe cose che avvenivano dentro di lui, sbatté contro un muro di sonno e fece il primo sogno che avrebbe ricordato da diversi anni a quella parte. Un sogno semplice. Era un pesce. Pensava di essere un grosso pesce, ma non poteva vedersi.
Sveglio, si guardò intorno, stupito di ritrovarsi nel suo letto. Si premette la mano sull'addome. Quei frutti di mare…?
IX
Si alzò presto; quel peso sullo stomaco era svanito. Passò un'ora sulla cyclette, regolata grazie al computer per eseguire un circuito che simulava un terreno difficile, e la concentrazione richiesta per sfondare la barriera della fatica lo aiutò a pianificare le ore successive. Non sarebbe stata una giornata di vacanza.
Prese un taxi fino alla estación de Santa Justa e bevve un
«
Falcón si presentò di nuovo e chiese un appuntamento.
«Non ho niente da dirle, Inspector Jefe. Niente che possa aiutarla. Mio padre e io non avevamo più alcun rapporto da trent'anni.»
«Davvero?»
«Tra noi è successo molto poco.»
«Vorrei parlare con lei di questo, ma non al telefono», insistette Falcón. Jiménez non reagì. «Posso essere da lei all'una e andarmene prima di pranzo.»
«Davvero non mi è comodo.»
Falcón era preso da un desiderio sfrenato di parlare con quell'uomo, ma poteva farlo solo nel suo tempo libero. Insistette.
«Sto conducendo un'indagine su un omicidio, signor Jiménez. Un assassinio non è mai comodo.»
«Non posso fare nessuna luce sul suo caso, Inspector Jefe.»
«Devo conoscere lo sfondo, il passato.»
«Chieda a sua moglie.»
«E che cosa sa della sua vita prima del 1989?»
«Perché risalire a tanto tempo fa?»
Ridicolo battagliare così per parlare con quell'uomo. Falcón divenne più determinato.
«Ho un modo curioso ma efficace di procedere nelle mie indagini, signor Jiménez», replicò, tanto per farlo restare all'apparecchio. «E sua sorella? La vede mai?»
L'etere sibilò per un'eternità.
«Mi richiami tra dieci minuti», disse l'altro e riattaccò.
Per dieci minuti Falcón passeggiò avanti e indietro nell'atrio della stazione, pensando a una nuova strategia. Al momento di richiamare aveva una serie di domande allineate come proiettili in una cartucciera.
«L'aspetto all'una», disse Jiménez, e riagganciò.
Falcón comprò un biglietto e salì sul treno. A mezzogiorno l'AVE lo aveva consegnato alla estación de Atocha nel centro di Madrid. Prese la metropolitana per Esperanza, il che gli parve di buon auspicio, e da lì il tragitto fino all'appartamento di Jiménez fu breve.
José Manuel Jiménez lo fece entrare. Era più basso di Falcón, ma di corporatura più robusta e teneva la testa come se dovesse passare sotto una trave o portare sulle spalle un carico. Mentre parlava gli occhi saettavano di qua e di là sotto sopracciglia massicce e scure che evidentemente non erano affidate alle cure della moglie. L'effetto, in luogo di essere furtivo, era di deferenza. Prese il soprabito di Falcón e lo guidò lungo un corridoio dal pavimento di legno fino allo studio, lontano dalla cucina e dalle voci della famiglia, camminando piegato in avanti, come se stesse trascinando una slitta.
Diversi tappeti marocchini ricoprivano il parquet dello studio; la scrivania, in stile inglese, era di noce. Alle pareti, fino alla finestra, scaffali di libri rilegati, strumenti di lavoro di un avvocato. Il caffè fu offerto e accettato. Nei minuti in cui venne lasciato solo, Falcón ispezionò le fotografie di famiglia posate su un mobile con le ante di vetro. Riconobbe Gumersinda con i due figli piccoli. Nessuna di Raúl, e nessuna della figlia in cui la ragazzina avesse più di dodici anni. Le altre, che ritraevano la famiglia di José Manuel Jiménez in varie epoche, culminavano con due foto dei figli diplomati.
Jiménez rientrò con il caffè. Cercarono di manovrare per non urtarsi mentre Falcón ritornava al suo posto e Jiménez sedeva alla scrivania, le mani intrecciate, i bicipiti e le spalle in rilievo sotto la giacca di tweed verde.
«Tra le vecchie foto di suo padre ne ho trovata una di
«Mio padre possedeva vari ristoranti, sono sicuro che aveva moltissime foto dei suoi clienti.»
E così di suo padre sapeva perlomeno quello.
«Questa non si trovava tra quelle delle celebrità…»
«Suo padre è una celebrità?»
Non avrebbe voluto parlarne, ma Falcón pensò che forse, come aveva dimostrato Consuelo Jiménez, dire qualcosa di sé avrebbe portato a rivelazioni sorprendenti da parte di altri.
«Mio padre era il pittore Francisco Falcón, ma non è per…»
«Allora non sono sorpreso che non fosse sulla parete tra le celebrità», lo interruppe Jiménez. «Mio padre aveva gli interessi culturali di un contadino, quale era in realtà.»
«Ho notato che fumava le Celtas togliendo il filtro.»
«Un tempo fumava le Celtas
«Quando aveva fatto il contadino?»
«I suoi genitori avevano un po' di terra dalle parti di Almería, la lavoravano loro. Furono uccisi durante la Guerra civile, andò tutto perduto, e dopo la loro morte mio padre se ne andò. Non so altro. Probabilmente questa è la ragione per cui il denaro era diventato così importante per lui.»
«Vostra madre non…?»
«Dubito che lo sapesse. Comunque sia, a noi non l'ha mai detto. Davvero, non credo che sapesse niente della sua vita prima del loro incontro e mio padre non ne avrebbe certo parlato con i genitori di lei.»
«Si sono conosciuti a Tangeri?»
«Sì. La sua famiglia si era trasferita là all'inizio degli anni '40. Suo padre era un avvocato, era andato a Tangeri, come tutti gli altri, per fare fortuna dopo la Guerra civile che aveva lasciato la Spagna in rovina. Lei era una bambina, poteva avere otto anni, penso. Mio padre entrò sulla scena un po' dopo, forse nel '45. Si innamorò di lei a prima vista.»
«Sua madre era ancora molto giovane, no? Tredici anni?»
«E mio padre ne aveva ventidue. Un rapporto curioso, disapprovato dai genitori di lei. Vollero che aspettasse di avere diciassette anni per sposarsi.»
«Era solo per la differenza di età?»
«Avevano solo quella figlia», spiegò Jiménez, «e non credo che fossero molto contenti della mancanza di retroterra familiare di mio padre. Devono aver capito di che metallo vile fosse fatto. Era anche un uomo che amava l'ostentazione.»
«Era già ricco a quel tempo?»
«Aveva fatto un sacco di soldi laggiù e gli piaceva spendere.»
«Come aveva costruito la sua fortuna?»
«Probabilmente con il contrabbando. Non li aveva fatti legalmente, i soldi, questo è sicuro. In seguito si era dedicato alla finanza, a un certo punto ha perfino posseduto una banca… non che ciò significasse gran che. Entrò anche nel settore edile e immobiliare.»
«Come sa tutto questo?» domandò Falcón. «Lei aveva solo dieci anni quando ve ne andaste e dubito che suo padre le abbia rivelato molto.»
«Ho messo insieme i vari pezzi, Inspector Jefe, così funziona la mia mente. È stato il mio modo di trovare un senso in ciò che è successo.»
Il silenzio scese nella stanza come la notizia di un lutto. Falcón voleva che l'altro continuasse, ma Jiménez stringeva le labbra, cercando il coraggio.
«Lei è nato nel 1950», disse Falcón, incitandolo.
«Nove mesi esatti dopo il loro matrimonio.»
«E sua sorella?»
«Due anni dopo. Per lei ci furono complicazioni nel parto, so che rischiò di morire e che mia madre rimase molto debole. Avrebbero voluto molti bambini, ma mia madre non poté più averne. Anche mia sorella ne subì le conseguenze.»
«Quali?»
«Era una bambina dolcissima, sempre in pena per tutto… gli animali, specialmente i gatti, Tangeri era piena di gatti randagi. Non c'era niente da fare… lei era…» esitò, fece un gesto in aria con le mani, costringendosi a tirare fuori le parole. «Era una semplice, tutto qui. Non stupida, solo… semplice. Diversa dagli altri bambini.»
«Sua madre ha mai recuperato le forze?»
«Sì, sì, le ha recuperate completamente. Lei…» La voce si affievolì, Jiménez contemplò il soffitto. «Rimase perfino incinta un'altra volta. Fu un periodo molto difficile. Mio padre fu costretto a lasciare Tangeri, ma mia madre non poteva muoversi.»
«Quando accadde?»
«Alla fine del 1958. Lui prese con sé mia sorella e io rimasi con mia madre.»
«Dove andò?»
«Affittò una casa in un villaggio sulle montagne sopra Algeciras.»
«Stava scappando?»
«Non dalle autorità.»
«Una questione di affari?»
«Non l'ho mai saputo.»
«E sua madre?»
«Ebbe il bambino, un maschio. Mio padre comparve misteriosamente la notte del parto, era venuto a Tangeri di nascosto. Aveva paura che qualcosa potesse andare male, come la volta precedente, e che lei non sopravvivesse. Lui era…»
Jiménez aggrottò la fronte, come se si fosse trovato davanti a qualcosa che sfuggiva alla sua comprensione. Sbatté le palpebre, respingendo le lacrime.
«Questo è un terreno molto delicato, Inspector Jefe», disse alla fine. «Credevo che sarei stato contento nell'apprendere che mio padre era morto, che sarebbe stato un sollievo, una liberazione da… Avrebbe voluto dire la fine di tutti questi pensieri incompiuti.»
«Pensieri incompiuti, signor Jiménez?»
«Pensieri che non hanno una fine. Pensieri che sono interminabili, perché non hanno una risoluzione, che lasciano per sempre in bilico.»
Il significato rimaneva oscuro, anche se le parole erano comprensibili, e tuttavia Falcón, senza sapere perché, capiva qualcosa del tormento dell'uomo. Fu a sua volta assalito dai pensieri: la morte di suo padre, le cose non dette, lo studio mai visitato.
«Potrebbe essere lo stato naturale dell'uomo», osservò Falcón. «Provenendo da individui complicati che non possiamo conoscere, saremo per sempre i portatori di cose irrisolvibili. A queste noi aggiungiamo la nostra parte di storie mai chiarite che a nostra volta passiamo alle future generazioni. Forse è meglio essere privi di complicazioni. Come sua sorella, senza l'ingombro del bagaglio di chi ci ha preceduto.»
Sotto i cespugli delle sopracciglia Jiménez lo perforò con occhi simili a quelli di un animale che si stesse nutrendo delle parole uscite dalla bocca di Falcón. Si raddrizzò, l'espressione perse la sua intensità.
«L'unico problema in quel caso», disse, «nel caso di mia sorella, è che la sua mancanza di complessità non le ha permesso di darsi una struttura, le è mancata la possibilità di rimettere ordine al caos dopo il cataclisma avvenuto nella nostra famiglia. Ha perso ogni tenue legame con un'esistenza strutturata e dopo di allora ha fluttuato nello spazio. Sì, credo che la sua follia sia questo… il galleggiare di un astronauta staccato dalla sua navicella spaziale, che rotea in un vuoto schiacciante.»
«Credo che sia andato troppo avanti perché io possa seguirla.»
«È vero», confermò Jiménez, «e so anche il perché.»
«Forse dovremmo tornare a suo padre preoccupato per la possibilità che la moglie non sopravvivesse al parto.»
«Quello che stavo pensando quando l'ho detto, ciò con cui mi stavo confrontando, era l'idea sorprendente, visto come sono andate le cose in seguito, che mio padre fosse in realtà profondamente innamorato di mia madre. È qualcosa che anche ora riesco ad ammettere con difficoltà. Da piccolo, quando mia madre è morta, non lo credevo affatto, credevo anzi che lui avesse deciso di distruggerla.»
«Come è arrivato a quell'idea?»
«Psicoanalisi, Inspector Jefe. Non avrei mai pensato di diventare un candidato per una cosa che consideravo una ciarlataneria. Sono un avvocato, ho una mente organizzata, ma quando sei disperato, e intendo dire colmo di disperazione al punto da non vedere altro che la vita crollare intorno a te, allora riesci ad ammetterlo, allora dici: 'Sono matto e devo parlarne con qualcuno'.»
Jiménez diede quella spiegazione in tono molto personale, come se si rivolgesse a una parte di Falcón che richiedeva un'attenzione particolare.
«Che cosa accadde a sua madre e al bambino?» domandò Falcón.
«Mia madre ebbe bisogno di un po' di tempo per ristabilirsi. Ricordo molto bene quel periodo. Non ci era permesso di uscire di casa, i domestici dovevano dire che non c'era nessuno, i viveri ci arrivavano di nascosto attraverso le case dei vicini. Uomini armati che normalmente sorvegliavano i cantieri stavano di guardia sull'altro lato della strada. Mio padre non faceva che passeggiare avanti e indietro come un leone in gabbia, fermandosi soltanto per sbirciare da una fessura nell'imposta quando gli sembrava di aver udito qualcosa all'esterno. La tensione era pari alla noia; è stato l'inizio della follia nella nostra famiglia.»
«E non ha mai scoperto di che cosa avesse paura suo padre?»
«A quel tempo ero un bambino, non me ne curavo, volevo soltanto evitare di annoiarmi. Più tardi… molto più tardi, ho pensato che fosse importante sapere che cosa avesse spinto mio padre a quegli eccessi. Perciò, trent'anni dopo gli eventi, ho deciso che l'unica persona che potesse darmi una spiegazione era proprio mio padre. È stata l'ultima volta in cui ci siamo parlati su un piano personale. E questa è la magia del cervello umano.»
«Che cosa?» domandò Falcón, drizzandosi di colpo sulla sedia, come se avesse mancato di cogliere un punto vitale.
«Se lì dentro abbiamo qualcosa che non ci piace, ci giriamo intorno per evitarla. È come un fiume che, stufo di scorrere continuamente lungo la stessa ansa, decidesse di deviare il suo corso e di tagliarla fuori. L'ansa diviene uno stagno non più collegato al fiume, un serbatoio di memoria che, non più alimentato, alla fine si secca.»
«Aveva dimenticato tutto?»
«Ha rimosso tutto. Per quanto lo riguardava non era mai accaduto. Mi guardava come se fossi pazzo.»
«Nonostante la moglie morta e la figlia ricoverata a San Juan de Dios?»
«Eravamo nel 1995, allora. Era sposato a Consuelo, una vita diversa. Il passato per lui era distante come… come un'esistenza precedente.»
«Lei è rimasto sorpreso da Consuelo?»
«Dal suo aspetto? Mio Dio, sono rimasto allibito, mi ha messo i brividi. Ho bruciato la foto del matrimonio che mi aveva spedito.»
«E così non ha ottenuto nessuna rivelazione da suo padre?»
«Solo che avevo ritenuto importante una cosa che non lo era. Non esisteva nulla nel mondo di mio padre, per quanto potevo vedere, al quale avrebbe potuto attribuire maggior valore che alla vita di un bambino. Lo avevo capito dal suo silenzio, dalla sua decisa negazione, da tutto il suo modo di essere… da quel matrimonio con una fotocopia della moglie…»
«Ma non poteva essere una tortura per lui?»
«Se per lei il conforto di una bella donna è una punizione… allora, sì.» Jiménez sbuffò per esprimere un moto di derisione. «Mio padre era istintivo come un animale, la sua mente non funzionava come quella di un normale essere umano. Per essere un uomo d'affari di successo, e, mi creda, io lo so, perché lavoro per qualche uomo d'affari di grandissimo successo, non si può ragionare come la gente comune… e per lui era così, infatti.»
«Mi sono perso di nuovo, forse sta pensando troppo in fretta per me.»
Jiménez si sporse verso di lui, un'espressione decisa.
«Non pensi nemmeno per un momento che io non sappia quello che faccio», dichiarò. «Prima d'ora non ho mai parlato di queste cose con nessuno, a parte l'uomo che mi ha sciolto il nodo nel cervello. E sa perché? Perché non vorrei mai infettare la pace mentale di mia moglie con qualcosa di tanto terribile. Getterebbe il buio sulla nostra casa, lasciandoci a brancolare nelle tenebre.»
«Mi dispiace», disse Falcón.
Jiménez raddrizzò le spalle e alzò una mano in segno di scusa, rendendosi conto di essere stato troppo drammatico.
«Lasciammo Tangeri di notte, senza valigie, solo i vestiti che avevamo indosso, l'abito da sposa di mia madre e i suoi gioielli. Al porto era stato tutto pagato, non ci venne chiesto nessun documento. A un certo punto sembrò che dovessero fermarci, ma altro denaro passò di mano e noi salimmo sulla barca e prendemmo il largo. Passammo a prendere mia sorella nel villaggio sopra Algeciras e iniziammo la nostra vita da zingari.
«Non avvertii mai nessun senso di pericolo. Mio padre non passeggiò mai più avanti e indietro come un leone in gabbia, ma quando il suo istinto gli diceva di partire… partivamo. In genere abitavamo in città grandi, passammo un certo tempo qui a Madrid, ma mio padre detestava Madrid. Io credo che lo facesse sentire provinciale, che gli ricordasse chi era.
«Arrivammo ad Almería all'inizio del 1964. Mio padre possedeva un paio di imbarcazioni per la navigazione costiera da Algeciras a Cartagena, ma gli si presentò l'occasione di costruire un albergo sul mare ad Almería, così ci trasferimmo là. Sembrava che a mio padre piacesse l'idea di sistemarci; deve aver pensato che cinque o sei anni di spostamenti fossero sufficienti, il mondo cambiava, i rancori si esaurivano senza il nutrimento della vendetta. Sbagliava. Perciò credevo che fosse importante sapere che cosa mai avesse fatto per rendere altri implacabili al punto che non avrebbero mai cessato di cercarlo. E devo ammettere che ancora me lo chiedo, anche se ho stemperato la morbosità di questo interesse con la convinzione della sua irrilevanza.»
«Perché vuole saperlo?»
«Credo che mi servirebbe per rendermi conto esattamente di che mostro fosse.»
Falcón ebbe un brivido, diviso tra le emozioni contrastanti suscitate dal pensiero che Raúl Jiménez fosse stato un mostro e il ricordo di suo padre che giocava a fare il mostro: che facce terribili assumeva mentre fingeva di divorarlo! Suo padre non sapeva controllarsi, perché ben poco nel suo mondo esigeva il controllo di sé e ben più di una volta sulla schiena di Javier era rimasto il segno dei denti per giorni.
«Si sente bene, Inspector Jefe?»
Falcón sperò di non avere una faccia simile a quelle di suo padre, mascheroni da fontana con lingue sbavanti.
«Pensieri incompiuti», disse.
«Dove eravamo?»
«Almería, 1964», rispose Falcón. «Non mi ha detto come sua madre avesse preso tutto questo girovagare.»
«Dal punto di vista della salute fisica, bene. Se era infelice, non lo dava a vedere né a noi né a lui. D'altronde le mogli non avevano molta voce in capitolo allora. Lei tirava avanti.»
«Suo padre stava costruendo l'albergo?»
«A questo punto dovrei parlarle di Marta. Le ho detto che le piaceva prendersi cura degli altri, ricorda?»
«Dei gatti.»
«Già, i gatti. Una volta partiti da Tangeri, lei trasferì tutte le sue cure su Arturo. Mia madre avrebbe potuto affidarglielo completamente. Marta faceva tutto per lui, era la sua vita. Curioso, no? Marta non aveva bambole, ne riceveva in regalo ma non le guardava nemmeno. La affascinavano di più gli esseri viventi. Strano, non crede, per una creatura così poco complicata?»
«Forse non aveva sviluppato l'immaginazione.»
«Può darsi. L'immaginazione è una cosa complicata, come la vita, del resto.»
«Probabilmente non vi leggeva quello che c'era.»
«Un tempo mi chiedevo che cosa le passasse per la mente.»
«Ora non più?»
«Per i primi vent'anni quasi non ha detto una parola. Poi è accaduto qualcosa. Nel corso del tempo il personale dell'istituto dove si trova è cambiato, non sono molti i giovani disposti a lavorare in un ospedale psichiatrico e così i posti vengono occupati dagli immigrati. Nel caso di Marta si è trattato di un ragazzo del Marocco che aveva portato con sé un gattino e quindi deve essere scattato qualcosa dentro di lei. Si è animata. Forse le ha ricordato i giorni dell'infanzia, i ragazzi della casa e i gatti.»
«Ha parlato?»
«Non erano parole intelligibili — non usava le corde vocali da decenni — però articolava qualcosa. È stato comunque un principio. Da allora non ha fatto grandi progressi. A me non dice niente quando vado a trovarla, forse io le rammento troppo il trauma originario.»
«I medici sapevano quale fosse stato questo trauma?»
«Lo hanno saputo solo tre anni fa e non tutta la storia.»
«Tre anni fa?»
«Quando io stesso ho cominciato a osare affrontare l'argomento. Mi chiedevano chi fosse Arturo: Marta era arrivata fin là. E io li ho rimandati a mio padre, il quale ha negato che nel nostro ambiente familiare vi fosse mai stato qualcuno con quel nome, il che non era vero. Il padre di mia madre si chiamava Arturo. Le ho detto che i suoi genitori erano morti?»
«No.»
«L'anno prima della nascita di Arturo morirono tutti e due a distanza di tre mesi l'uno dall'altro. La nonna di cancro, il nonno di infarto. Credo sia stato per questo che mia madre decise di rischiare.»
«Che cosa ha detto ai medici di Marta?»
«Il mio psicoanalista ha scritto loro una lettera in seguito, per chiarire tutto, ma allora io ho detto soltanto che si trattava di un nostro fratello minore e che era morto.»
«È andata così, non è vero?»
«Suppongo che nel suo lavoro lei venga a contatto spesso con la natura del male assoluto», osservò Jiménez.
«Mi sono imbattuto in cose brutte e in cose folli, ma non sono sicuro di aver conosciuto 'la natura del male assoluto'. Ho indagato su fatti criminali e perciò comprensibili, ma quando si comincia a parlare del male ci si addentra in un terreno metafisico.»
«Il che», chiese Jiménez, «è al di là del campo di azione dell'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla?»
«Non sono un prete», ribatté Falcón. «Se lo fossi stato, forse mi avrebbe aiutato, perché l'omicidio di suo padre è stato il più impressionante di tutta la mia carriera. Quando ho visto la sua faccia e mi sono reso conto di ciò che gli era stato fatto, ho sentito di trovarmi alla presenza di qualcosa di potentissimo. In genere sono molto distaccato nel mio lavoro, ma questa volta sono stato profondamente coinvolto. È una cosa che non vorrei far sapere ai miei superiori.»
Jiménez, seduto di sbieco sulla sedia, le gambe accavallate, aprì e chiuse una mano: Falcón pensò che forse avrebbe voluto sapere ciò che era successo a Raúl, ma che non osasse chiederlo.
«L'animo malvagio conosce profondamente la natura umana», disse Jiménez dopo qualche momento. «È felice quando può crogiolarsi tra vendetta e tradimento, quando può nutrirli, sa istintivamente dove e quando colpire e sa arrivare esattamente al cuore delle… cose. Non hanno ucciso mio padre, il che forse sarebbe stato giusto, non hanno stuprato e ammazzato mia madre o mia sorella o me, il che sarebbe stato ingiusto e crudele. Hanno fatto l'unica cosa che sapevano avrebbe totalmente distrutto la famiglia di mio padre. Hanno preso Arturo. Un giorno lo hanno portato via e da allora non abbiamo mai più saputo nulla né di lui, né di loro.»
Jiménez batté rapidamente le palpebre, sperduto nelle vaste desolazioni della sua incomprensione.
«Vuol dire che lo hanno rapito?»
«Marta mentre andava a scuola accompagnava sempre Arturo alla sua e lo passava a prendere al ritorno. Un giorno non lo trovò a scuola e non era nemmeno a casa. Noi setacciammo la città mentre la mamma chiamava mio padre al cantiere. Arturo aveva sei anni, era ancora piccolo. E lo portarono via.»
Jiménez guardò le foto di famiglia come se la loro preziosità fosse stata sciupata dal veleno della memoria, il labbro inferiore tremante, il pomo di Adamo che andava su e giù.
«La polizia non scoprì niente?» domandò Falcón.
«No», rispose Jiménez. La parola gli uscì di bocca come il respiro di uno spettro.
«Normalmente, quando sparisce un bambino…»
«Non trovarono niente, Inspector Jefe, per la semplice ragione che non era stata data loro nessuna informazione.»
«Non capisco.»
Jiménez si sporse verso di lui appoggiandosi alla scrivania che cigolò: sembrava che gli occhi volessero sfuggirgli dalla testa.
«Mio padre denunciò il rapimento, disse alla polizia che era un mistero e ventiquattr'ore dopo avevamo già lasciato Almería», disse Jiménez. «Non so se lo abbia fatto perché era terrorizzato all'idea che quella gente volesse colpire ancora o se volesse evitare domande da parte delle autorità o per entrambe le ragioni. Ma lasciammo Almería. Passammo due settimane in un albergo di Malaga, io dormivo con Marta, che si era ritratta in se stessa e non parlava più. Mia madre e mio padre erano nella stanza accanto e le urla… i pianti… Mio Dio, è stato terribile. Poi ci portò tutti a Siviglia. Affittammo un appartamento a Triana e qualche mese dopo ci trasferimmo a plaza de Cuba. Mio padre dovette tornare qualche volta ad Almería per sistemare i suoi affari e per comparire davanti alle autorità, e quella fu la fine di Arturo.»
«Ma che cosa disse a voi, alla sua famiglia? Come spiegò quella reazione bizzarra?»
«Non la spiegò. Usò semplicemente la sua rabbia vulcanica per farci capire che dovevamo tutti quanti dimenticarci di Arturo… che Arturo non esisteva.»
«E i rapitori… sta dicendo che non erano arrivate richieste di…?»
«Lei non ha capito, Inspector Jefe», lo interruppe Jiménez, protendendo le mani con un gesto supplichevole sulla scrivania, «non arrivò
«Ha ragione. Non capisco. Non capisco niente di tutto questo.»
«Benvenuto nel club: mia madre morta, mia sorella pazza, io. E adesso lei. Nel trasferimento tra Almería e Siviglia perdemmo ogni traccia di Arturo, non portammo con noi nessuna prova della sua esistenza: tutto sparito, fotografie, giocattoli, perfino il suo letto. Mio padre riscrisse la storia di famiglia e lasciò fuori Arturo. Al momento di traslocare nell'appartamento di plaza de Cuba eravamo come morti viventi. Mia madre guardava la strada dalla finestra tutto il giorno, accostandosi di colpo al vetro ogni volta che vedeva passare un bambino; mia sorella rimase muta e dovette essere tolta dalla scuola che aveva appena cominciato a frequentare. Io cercavo di stare lontano di lì il più possibile. Di perdermi, grazie ai miei nuovi amici che non sapevano che avessi avuto un fratello minore.»
«Perdersi?»
«Credo che mi sia successo proprio questo. Mi venne una strana incapacità di ricordare qualsiasi cosa fosse accaduta prima dei quindici anni. I ricordi di molta gente risalgono ai tre, quattro anni, per qualcuno anche al tempo in cui era in culla. Io non ricordavo nulla distintamente, avevo solo vaghe immagini, semplici ombre di ciò che ero stato… Fino a qualche anno fa.»
Falcón cercò di pensare al suo ricordo più lontano e non riuscì a trovare quasi nulla che fosse precedente alla colazione del giorno prima.
«E non ha nessuna idea del perché suo padre avesse preso quella decisione devastante?»
«Presumo che si sia trattato di qualcosa di criminale. Un'indagine seria sul rapimento di Arturo avrebbe necessariamente comportato rivelazioni importanti che con ogni probabilità avrebbero rovinato mio padre… forse sarebbe finito in prigione. Ovviamente doveva avere a che fare con qualche sporca faccenda di Tangeri e forse c'era anche un aspetto morale di non so quale tipo. Comunque sia, mio padre deve aver ragionato nel suo modo particolare, concludendo che, a poche ore dal suo rapimento, Arturo doveva essere già in Nordafrica o certamente su una nave diretta là. Nella sua mente mostruosa deve aver calcolato che la polizia non avrebbe avuto nessuna possibilità, che
«Il messaggio dei rapitori era chiaro: questo è il prezzo per ciò che hai fatto. E ora questa è la tua scelta. Lo cerchi e ti rovini o accetti di pagare lo scotto e vai avanti. Non crede che la
Jiménez alzò una mano, col palmo all'insù come se soppesasse qualcosa, la sollevò in alto: «La leggerezza di piuma del bene morale?»
Alzò l'altra e la lasciò ricadere con un tonfo sulla scrivania: «O il peso dorato del potere, della posizione e della ricchezza?»
Muti, i due uomini contemplarono la disparità tra i due piatti della bilancia.
«Pensavo», disse Falcón nel silenzio rilegato in pelle tra le pareti coperte di libri, «pensavo che avessimo superato il tempo della tragedia, che vivessimo in un'era in cui le figure tragiche non potessero più esistere. Non abbiamo più re o grandi guerrieri che possano cadere da tali altezze a tali profondità. Oggi noi ammiriamo attori del cinema, sportivi e uomini d'affari, personaggi privi, in certo modo, della stoffa di cui è fatta la tragedia, eppure… suo padre. Suo padre mi colpisce come una bestia rara, la figura tragica moderna.»
«Vorrei soltanto che la tragedia rappresentata non fosse quella della mia vita», osservò Jiménez.
Falcón si alzò per accomiatarsi e vide il suo caffè freddo e intatto sul bordo della scrivania. Strinse la mano di Jiménez a lungo, per dimostrargli la sua gratitudine.
«Per questo le ho chiesto di richiamarmi», disse Jiménez, «dovevo parlare con il mio analista.»
«Per chiedergli il permesso?»
«Per vedere se mi giudicasse pronto. Mi è sembrato ritenesse una buona idea che l'unica altra persona ad apprendere da me la storia della mia famiglia fosse un poliziotto.»
«Per agire di conseguenza, vuol dire?»
«Perché un poliziotto sarebbe stato legato al segreto professionale», rispose serio il legale.
«Preferisce che non dica nulla di tutto questo a Consuelo?»
«Servirebbe a qualcosa, se non a spaventarla a morte?»
«Ha avuto tre figli da suo padre.»
«Non riuscivo a crederci quando l'ho saputo.»
«Come l'ha saputo?»
«Mio padre mi ha mandato due righe a ogni nascita.»
«È stata lei a obbligarlo, era una condizione per il matrimonio.»
«È comprensibile.»
«Mi ha anche detto che suo padre aveva l'ossessione della sicurezza, aveva installato nell'appartamento una porta superblindata e si accertava personalmente che fosse chiusa ogni sera.»
Jiménez contemplò la superficie della scrivania.
«Mi ha detto anche un'altra cosa che dovrebbe rivestire un certo interesse per lei…»
La testa di Jiménez si rialzò su un collo molto stanco, un lampo di paura negli occhi: non voleva sapere nulla che potesse comportare una modifica della visione degli eventi da lui appena costruita. Falcón scrollò le spalle per tranquillizzarlo.
«Mi dica», lo invitò l'altro.
«Consuelo ha detto che il socievole proprietario di ristoranti che era suo marito, con la sua raccolta di foto sorridenti, era un uomo che viveva nella più abietta infelicità.»
«E così alla fine è toccata anche a lui», commentò Jiménez, senza soddisfazione. «Ma probabilmente non sapeva che
«Ha detto anche un'altra cosa. Si tratta di un particolare del testamento. Suo padre ha lasciato una donazione alla sua istituzione benefica prediletta, Nuevo Futuro — Los niños de la calle.»
Jiménez scosse il capo, se per la pena o per l'incredulità era difficile a stabilirsi. Girò intorno alla scrivania per accompagnare Falcón alla porta, precedendolo lungo il corridoio con il suo passo affaticato. Quel passo era stato diverso prima della psicoanalisi, si domandò Falcón? Forse prima camminava curvo, come se portasse un grave fardello, e ora perlomeno il fardello era dietro di lui. Jiménez prese il soprabito dell'Inspector Jefe, lo aiutò a indossarlo. Una sola domanda era ancora in bilico nella mente di Falcón. Rivolgerla o no?
«Ha mai pensato», disse, «che Arturo potrebbe essere ancora vivo? Avrebbe quarantadue anni ora.»
«L'ho pensato, sì», rispose Jiménez. «Ma sto meglio da quando ho raggiunto un senso di conclusione.»
X
Era pieno perfino quell'ultimo AVE della sera, il cui arrivo era previsto a Siviglia solo dopo la mezzanotte. Mentre il treno ad alta velocità sfrecciava nella notte castigliana, Falcón scosse dai calzoni le briciole di un
Aveva lasciato José Manuel Jiménez alle tre del pomeriggio, dopo avergli chiesto se avesse qualcosa in contrario a una sua visita a Marta all'istituto San Juan de Dios a Ciempozuelos, quaranta chilometri a sud della città. L'avvocato lo aveva avvertito che probabilmente non sarebbe stato un incontro produttivo, ma aveva accettato di preavvisare con una telefonata, in modo che Falcón fosse atteso. Jiménez aveva ragione, ma per un diverso motivo: Marta era caduta.
Falcón l'aveva vista in infermeria, con un paio di punti su un sopracciglio e con il viso cereo, ma, probabilmente, quello era il suo colorito abituale. Aveva i capelli brizzolati raccolti in una crocchia. Gli occhi infossati erano cerchiati di scuro, e grosse borse violacee le scendevano fin quasi agli zigomi. Avrebbero potuto essere il risultato della caduta, ma sembravano un fenomeno permanente.
Un infermiere marocchino era seduto accanto a lei e le teneva una mano, mormorandole qualcosa in un miscuglio di spagnolo e di arabo, mentre una giovane dottoressa le ricuciva il taglio sul sopracciglio che aveva sanguinato abbondantemente, sporcando la camicia dell'ospedale. Durante tutta l'operazione Marta aveva tenuto stretto in mano un piccolo oggetto attaccato a una catenina d'oro appesa al collo. Falcón aveva immaginato che fosse una croce, ma quando la donna aveva allentato la stretta, aveva notato che si trattava di un piccolo medaglione d'oro e di una chiavetta.
Marta era su una sedia a rotelle. Falcón aveva accompagnato l'infermiere che la riportava nella corsia, dove si trovavano altre cinque degenti. Quattro tacevano, ma la quinta ripeteva continuamente una litania che in apparenza poteva essere scambiata per una preghiera a fior di labbra ma che invece era una sfilza di oscenità. Il marocchino aveva sistemato Marta, poi si era avvicinato alla donna, le aveva preso la mano, le aveva massaggiato la schiena, e lei si era tranquillizzata.
«Si agita sempre alla vista del sangue», aveva spiegato l'infermiere.
La cordialità del marocchino, che si chiamava Ahmed ed era laureato in psicologia all'università di Casablanca, si era raffreddata visibilmente quando Falcón gli aveva mostrato il suo tesserino di riconoscimento.
«Ma che cosa può mai cercare
Falcón aveva abbassato lo sguardo sulla testa sale e pepe, sulla benda bianca sul sopracciglio, e una tristezza immensa gli aveva stretto il cuore. Aveva davanti a sé la vera vittima della storia di Jiménez.
«Capisce qualcosa di ciò che diciamo?»
«Dipende. Se parla di G-A-T-T-I potrebbe avere una reazione.»
«E se parlassi di A-R-T-U-R-O?»
La faccia di Ahmed aveva assunto l'espressione di blanda diffidenza che Falcón aveva già notato tra gli immigrati interrogati dalla polizia: blanda, per ridurre al minimo l'irritazione del funzionario, diffidenza per essere pronti a difendersi da domande troppo invadenti, un atteggiamento che forse poteva funzionare con la polizia del Marocco, ma che aveva infastidito Falcón.
«Suo padre è stato assassinato», aveva annunciato a mezza voce.
Marta aveva tossito una, due volte e la terza era stata seguita da un conato di vomito. La bile le era finita in grembo, colando sul pavimento.
«È traumatizzata per la caduta», aveva spiegato Ahmed, allontanandosi.
Falcón si era seduto sul letto, la faccia al livello di quella di Marta: il vomito le era rimasto appiccicato a qualche pelo sul mento, ansimava e sembrava non vedere Falcón, la mano ancora stretta sul medaglione. Ahmed era tornato con gli indumenti puliti e un carrello con l'attrezzatura per lavarla. Aveva riparato Marta con il paravento e Falcón aveva aspettato, seduto in fondo alla stanza. Sotto il letto della donna aveva visto un bauletto di metallo chiuso a chiave.
Falcón aveva seguito Ahmed che riportava via il carrello.
«Ha mai parlato di Arturo con Marta?»
«Non spetta a me. Sarei qualificato a farlo, ma solo nel mio paese; qui sono un infermiere. Soltanto il medico le parla di Arturo.»
«Lei è mai stato presente?»
«Non ero in servizio, ma sono stato presente.»
«Qual è la sua reazione a quel nome?»
«Si agita molto, si preme le mani sulla bocca, emette un lamento, una specie di gridolino disperato e supplichevole.»
«Articola qualche parola?»
«Non riesce a parlare.»
«Ma lei trascorre più tempo dei medici con la paziente, forse riesce a comprenderla meglio del dottore.»
«Dice: non sono stata io, non è colpa mia.»
«Lei sa chi è Arturo?»
«Non ho visto la sua cartella e nessuno ha ritenuto di dovermi informare.»
«Chi è il suo medico?»
«La dottoressa Azucena Cuevas. È in ferie fino alla settimana prossima.»
«E che mi dice del gattino? Non è stato lei a portare il gattino che le ha fatto cominciare…»
«I gatti non sono ammessi nei reparti.»
«La chiave che porta appesa alla catenina con il medaglione… è la chiave del baule sotto il suo letto? Sa che cosa contiene?»
«Questa gente non possiede molte cose, Inspector Jefe. Se vedo qualcosa di personale, glielo lascio. Non hanno altro, a parte… la vita. E c'è da sorprendersi quanto a lungo si riesca a sopravvivere quando questa è l'unica cosa che ci rimane.»
Ahmed era così. Un individuo intelligente, ragionevole e attento agli altri, ma non espansivo, non con le autorità. Era riuscito a infastidire Falcón, il quale, mentre il buio sfrecciava fuori dal finestrino dell'AVE, cercava di rivederne i tratti del viso, così come aveva fatto con quelli di José Manuel Jiménez, stampati a fuoco nella sua mente. Non ci riuscì, perché Ahmed aveva fatto ciò che tutti gli immigrati cercavano di fare, si era fuso, mescolato con lo squallido, grigio ambiente in cui viveva, lasciandosi inghiottire nella moderna società spagnola.
Il rivolo dei pensieri si arrestò nel momento in cui Falcón si accorse che il riflesso trasparente della donna di fronte a lui stava ricambiando il suo sguardo. Provò piacere in quell'atto, nel fissarla come se non stesse facendo altro che contemplare la notte scorrere precipitosamente là fuori. La fiammella del sesso gli si accese dentro. Non aveva più avuto una donna da quando Inés se n'era andata. Tra loro il sesso era stato quasi selvaggio nei primi tempi, solo a pensarci doveva allentarsi il colletto della camicia. Mangiavano fuori, nel patio, e Inés all'improvviso veniva dalla sua parte del tavolo e, seduta a cavalcioni sulle sue ginocchia, gli infilava le mani nei pantaloni, attirava quelle di lui sotto la sua gonna. Dove era finito tutto ciò? Come era stato possibile che il matrimonio spegnesse tutto così presto? Alla fine Inés non gli permetteva nemmeno di guardarla mentre si vestiva. «Tu non hai cuore, Javier.» Ma di cosa parlava? Aveva guardato filmetti porno? Si era forse scopato una prostituta mentre li guardava? Aveva forse volutamente cancellato dalla sua vita un suo bambino? Eppure… Raúl Jiménez aveva avuto, sì, fino alla fine, il conforto di una bella donna. Consuelo, consolazione.
La donna seduta di fronte a lui non lo guardava più nel vetro. Falcón si girò verso il suo viso reale e vi scorse un'infinitesimale espressione di orrore mescolata a una minuscola pietà, come se la donna avesse percepito le sue complicazioni di ultraquarantenne e non volesse averne parte: stava cercando di tuffarsi nella borsetta quasi volesse farsene inghiottire, ma si trattava di un piccolo modello di Balenciaga dove potevano trovare posto solo un rossetto, un paio di preservativi e qualche banconota. La donna si voltò verso il finestrino. Nel buio, remoto, tremolava un lume, niente altro in vista.
Si lasciò andare contro lo schienale, esaurito da quei pensieri che lo ossessionavano a ciclo continuo, ragionamenti che non riguardavano l'indagine, ma il suo matrimonio fallito. In lui si produceva sempre una specie di crollo interiore ogni volta che sbatteva contro il muro delle parole di Inés: «
In seguito avrebbe concluso che era stato un mutamento nella sua chimica cerebrale a dargli quella prima nuova idea a proposito di Inés, o piuttosto una vecchia idea di colpo afferrata: non sarebbe stato in grado di andare avanti, non sarebbe stato in grado di corteggiare una donna nello scompartimento di un treno finché non avesse provato a se stesso che le parole di Inés non erano vere, che non si adattavano a lui. Il pensiero lo colpì con una violenza maggiore di quanto avrebbe immaginato, avvertì perfino un improvviso flusso di adrenalina e questo forse avrebbe potuto significare paura, non fosse stato per il fatto che in quel momento egli era semplicemente seduto nello scompartimento di un treno, a vagare all'interno della sua testa che conteneva un solo pensiero: il pensiero scomodo che, forse, sua moglie aveva ragione.
Scivolò nel sonno, un uomo in un treno simile a un proiettile d'argento che correva nel buio verso una destinazione ignota. Sognò di nuovo di essere un pesce, di guizzare nell'acqua inseguito dalla paura mentre il morso nelle viscere lo lacerava dentro lentamente. Si svegliò battendo la testa contro il sedile. Il vagone era vuoto, il treno già in stazione, una folla di passeggeri si riversava sul marciapiede sotto il finestrino.
Andò a casa e guardò un film senza seguirlo affatto, spense il televisore e crollò sul letto senza aver mangiato nulla, pieno d'inquietudine. Entrò e uscì dal sonno, non volendo ritrovare di nuovo quel sogno, ma timoroso al tempo stesso di svegliarsi per trovare un mondo fatto d'angoscia fuori dalle sue mura. Le quattro del mattino lo sorpresero in una veglia buia e Falcón, mentre ascoltava gemere le travi della sua grande casa, come ricoverati più sfortunati in un'ala distante del manicomio, cominciò a preoccuparsi dei cambiamenti che stavano avvenendo in lui, temendo che potessero alterare il suo equilibrio mentale.
Si alzò alle sei già stanco, i nervi che tintinnavano come il mazzo di chiavi di un carceriere, tanto che cominciò a pensare sul serio alle chiavi della casa e a dove fossero quelle che avrebbero aperto lo studio di suo padre. Nella scrivania ne trovò un cassetto pieno. Possibile che vi fossero tante porte? Portò il cassetto fino al cancello di ferro battuto che chiudeva la parte della galleria di fronte allo studio di suo padre e le provò tutte, ma nessuna era quella giusta; se ne andò lasciando il cassetto lì sul pavimento, le chiavi sparse.
Fece la doccia, si vestì, uscì di casa, comprò un giornale —
I sei funzionari del Grupo de Homicidios erano presenti alla riunione, non uno escluso, cosa piuttosto insolita per un sabato di Pasqua. Falcón li mise al corrente dell'esito della conversazione con Calderón, quindi mandò Pérez e Fernández nell'area della Feria di fronte all'Edificio Presidente, Baena nelle strade intorno al condominio e Serrano a compilare un elenco di laboratori e di negozi di forniture mediche che avrebbero potuto segnalare una vendita insolita di cloroformio o la mancanza di strumenti. I quattro uomini lasciarono la stanza. Ramírez, a braccia conserte, era appoggiato al davanzale della finestra.
«Qualche altra idea, Inspector Jefe?»
«Abbiamo la deposizione di Marciano Ruiz?»
Ramírez fece cenno di sì indicando la scrivania, e disse che la deposizione non aveva apportato niente di nuovo. Falcón la lesse fino in fondo solo per evitare di dover parlare a Ramírez del suo viaggio a Madrid e degli orrori della famiglia Jiménez. La cosa non aveva abbastanza attinenza con l'omicidio; Ramírez avrebbe cominciato a indebolire la sua posizione e altri funzionari avrebbero preso a guardarlo con aria compassionevole, come il primo poliziotto che aveva affrontato un'indagine per omicidio partendo da un episodio di trentasei anni prima.
«Ieri pomeriggio sono stato a trovare Eloisa Gómez», disse Ramírez.
«È riuscito a tirarle fuori qualcosa?»
«Non mi ha fatto un pompino gratis, se è questo che intende.»
«Non dopo quello che le ha fatto ieri», commentò Falcón. «È crollata?»
«Non parlerebbe con me nemmeno se lo fosse, e adesso è spaventata.»
«Sembravate andare così d'accordo», ribatté Falcón, «credevo quasi che volesse invitarla a casa.»
«Forse avrei dovuto essere più paziente», disse Ramírez, «ma credevo davvero, sa, che l'avesse lasciato entrare lei e che un attacco verbale duro avrebbe potuto funzionare.»
«Inizieremo la giornata con le Mudanzas Triana», annunciò Falcón, passando ad altro, «poi andremo al funerale di Raúl Jiménez con una videocamera, per filmare i presenti. Li controlleremo spuntando l'elenco degli indirizzi e continueremo i colloqui. Dobbiamo ricostruire il quadro della sua vita.»
«Ed Eloisa Gómez?»
«Pérez può interrogarla di nuovo questo pomeriggio. Saranno passate quasi quarantotto ore da quando è stata con Raúl Jiménez. Se è una complice, a quest'ora l'assassino si sarà già messo in contatto con lei e questo potrebbe aver cambiato il suo modo di pensare.»
«O aver cambiato ben altro», osservò Ramírez. «In peggio.»
Presa la videocamera, Ramírez si diresse alla macchina per andare con Falcón alle Mudanzas Triana, in avenida Santa Cecilia. Parlarono con il proprietario, Ignacio Bravo, il quale li ascoltò mentre esponevano lo scenario da loro immaginato, gli occhi immobili sotto le palpebre gonfie, fumando una Ducados dietro l'altra.
«Prima di tutto è impossibile», disse alla fine. «I miei uomini sono…»
«Hanno firmato una dichiarazione», lo interruppe Ramírez, annoiato a morte, porgendogli il foglio.
Bravo lesse il documento, scuotendo la sigaretta in direzione di uno pneumatico in miniatura che conteneva il posacenere.
«Saranno licenziati.»
«Ci parli del suo accordo con il signore e la signora Jiménez», disse Falcón. «Può cominciare col dirci perché avevano voluto traslocare durante la settimana santa, che deve essere il periodo di maggior lavoro per i ristoranti.»
«E non a buon mercato per i traslochi. Le nostre tariffe raddoppiano. Io l'ho spiegato chiaramente alla signora, Inspector Jefe. Ma non potevano farlo la settimana prossima quando i ristoranti erano chiusi, perché eravamo già impegnati… noi come tutti gli altri. Perciò lei ha pagato senza discutere. Non le importava.»
«Quando è andato a dare un'occhiata al lavoro da svolgere?»
«La settimana scorsa sono andato a vedere il posto, la quantità di mobili di grosse dimensioni, il numero di scatoloni necessario, quel genere di cose. Poi l'ho chiamata il giorno dopo per dirle che si sarebbe trattato di un lavoro di due giorni e le ho comunicato la cifra.»
«Un lavoro di due giorni?» intervenne Ramírez. «Quando avete cominciato?»
«Martedì.»
«Allora i giorni sarebbero stati tre.»
«Il signor Jiménez ci ha chiamato per dire che non voleva far portare via i mobili dello studio prima di giovedì. Io gli ho detto che gli sarebbe costato più del doppio e che saremmo riusciti a finire il lavoro come previsto, ma lui ha insistito e io non discuto con i ricchi, mi accerto solo che paghino. Sono i peggiori…»
Quando vide l'espressione dei due poliziotti non finì la frase.
«In quanti sapevano del cambiamento di programma?» domandò Falcón.
«Capisco dove volete arrivare», disse l'uomo, evidentemente a disagio. «Certo, dovevano saperlo tutti qui, voleva dire programmare spostamenti di personale. Non penserà che uno dei miei uomini sia l'assassino?»
«Quello che ci dà da pensare», soggiunse Falcón lasciando il sospetto di Bravo ad aleggiare nella stanza, «è che, se il nostro quadro è corretto, l'assassino deve aver saputo del cambiamento di programma. Deve essere stato al corrente del fatto che il signor Jiménez sarebbe rimasto una notte in più nell'appartamento, e da solo. Può averlo saputo soltanto dallo stesso signor Jiménez o da qualcuno di qui. Quando ha confermato il lavoro, la signora Jiménez?»
«Mercoledì 4 aprile», rispose l'uomo, dopo aver consultato l'agenda.
«E quando ha cambiato programma il signor Jiménez?»
«Venerdì 6 aprile.»
«Aveva già assegnato una squadra a questo lavoro?»
«L'ho fatto mercoledì.»
«In che modo procede?»
«Chiamo la mia segretaria che informa il capodeposito e il capodeposito lo scrive su una lavagna al pianterreno.»
Falcón chiese di parlare con la segretaria e Bravo la convocò: una donna minuta e bruna sui cinquant'anni, piuttosto nervosa. Le domandarono che cosa avesse detto al capodeposito.
«Gli ho riferito che c'era stato un cambiamento, che il signor Jiménez non voleva che si toccasse lo studio prima di giovedì e che bisognava lasciare un letto nella stanza dei ragazzi.»
«E il capodeposito che cosa ha risposto?»
«Una battuta volgare sull'uso del letto.»
«Che cosa fa il capodeposito di queste informazioni?»
«Le scrive in rosso sulla lavagna, per indicare con chiarezza che si tratta di un cambiamento di programma», rispose la donna. «E in questo caso ha annotato su una colonna separata le informazioni sullo studio e sul letto.»
«In genere le batte anche a macchina sui fogli di lavoro degli uomini», intervenne Bravo, «in modo che non si dimentichino. Non sono dei gran cervelli quelli che lavorano nei traslochi.»
I tre uomini scesero nel deposito per vedere la lavagna che conteneva tutte le informazioni per i lavori di aprile e di maggio: il trasloco dei Jiménez risultava ancora aperto. Il capodeposito venne loro incontro. La segretaria aveva ragione, l'uomo sembrava il tipo che comincia la giornata con un paio di bicchierini di incoraggiamento.
«Così nel deposito tutti avrebbero saputo del cambiamento di programma nel trasloco dei Jiménez?» chiese Falcón.
«Senza dubbio», rispose l'uomo.
«Com'è la sicurezza da voi?» domandò Ramírez.
«Non immagazziniamo niente qui, perciò è minima», rispose Bravo. «Ci sono un addetto e un cane.»
«Durante il giorno?»
Bravo scosse il capo.
«Nemmeno una telecamera?»
«Non serve.»
«Perciò uno potrebbe entrare dal retro, sulla calle Maestro Arrieta?»
«Volendo…»
«Nessuna tuta mancante?» domandò Ramírez.
Non mancava niente, nessuno aveva riferito nulla. Le tute erano del tipo consueto, con la scritta MUDANZAS TRIANA stampata sul dorso. Non sarebbero state difficili da imitare.
«Non è venuto nessun estraneo qui?» si informò Ramírez.
«Solo qualcuno che cercava lavoro.»
«Qualcuno?»
«Ogni settimana si presentano due o tre tizi e io rispondo loro sempre la stessa cosa, che non assumiamo gente presa dalla strada.»
«E nelle ultime due settimane?»
«Qualcuno in più, gente che vuole guadagnare qualcosa per Pasqua e la Feria.»
«Diciamo venti persone?»
«Diciamo dieci.»
«Che genere di persone?»
«Be', per fortuna erano tutti grassi e bassi, altrimenti sarebbe un problema ricordarsi com'erano fatti, per poterlo dire a voi.»
«Senta, signor bello spirito», disse Ramírez, puntandogli contro il dito, «un tizio è venuto qui, ha avuto le informazioni sul lavoro che avreste fatto nell'Edificio Presidente e le ha usate per introdursi nell'appartamento e torturare a morte un vecchio. Perciò cerchi di sforzarsi un po' di più.»
«Non mi avevate detto che era stato torturato a morte», protestò Bravo.
«Non mi ricordo niente comunque», affermò il capodeposito.
«Forse erano immigrati», suggerì Ramírez.
«Forse, qualcuno di loro.»
«Marocchini, per esempio, che lavorano gratis.»
«Noi non impieghiamo…» cominciò Bravo.
«L'abbiamo già sentita e non ci ho creduto nemmeno la prima volta», lo interruppe Ramírez. «Perciò, se apprezza il quieto vivere e non vuole visite dell'ufficio Immigrazione, provi a far funzionare le meningi per ricordare chi è stato qui da venerdì scorso in poi e se ha notato che qualcuno guardasse con un certo interesse quella lavagna.»
«Perché», intervenne Falcón, accennando al capodeposito, «tra le persone che abbiamo interrogato, probabilmente lei è il solo che ha visto l'assassino e gli ha parlato.»
«E sa com'è», disse Ramírez, «è una cosa che potrebbe venire in mente anche a lui.
XI
«Aveva ragione, il signor Bravo», osservò Ramírez, «il collegamento è troppo ovvio, ma l'assassino potrebbe essere effettivamente uno dei suoi uomini.»
«Ma solo se è corretta la seconda ipotesi, quella in cui Eloisa Gómez fa entrare l'assassino», obiettò Falcón. «Se avesse usato l'autoscala, sarebbe risultato assente dal lavoro nel pomeriggio. Dobbiamo interrogare tutti i dipendenti e aumentare la pressione sulla ragazza.»
«Sa che cosa non mi va giù di questo tizio?» osservò Ramírez. «Del nostro assassino?»
Falcón non rispose, guardando dal finestrino i vari bar e caffè che sfrecciavano lungo la calle San Jacinto mentre l'auto attraversava Triana, dirigendosi verso il fiume. All'improvviso si sentì scoraggiato; l'indagine si stava abbassando al livello di minuzie del quotidiano di una ditta di traslochi.
«Non mi va giù che sia fortunato», terminò Ramírez. «Perché è davvero molto fortunato, Inspector Jefe.»
«Speriamo che conti su questo», disse Falcón, irritato e di pessimo umore. Era infastidito dal caffè bevuto a stomaco vuoto e privo di energie per mancanza di sonno; e il caso era ancora in alto mare. I suoi uomini non avevano trovato nessuno a Los Remedios, non una sola persona che avesse notato almeno il furgone delle Mudanzas Triana e l'autoscala.
«Che cosa intende dire, Inspector Jefe?»
«La gente che conta sulla propria fortuna in genere continua a farlo anche quando la fortuna si è esaurita da un pezzo. Come i giocatori. In ultima analisi sono poco intelligenti.»
«Lei ha in mente qualcosa, Inspector Jefe.»
«Davvero? Non mi pare.»
«Non crede che abbia finito, vero? L'assassino, intendo.»
«Non lo so.»
«Pensa che voglia mettere alla prova la sua fortuna ancora un po'… per vedere fin dove può arrivare.»
A Falcón non piaceva, di Ramírez, proprio quel suo fare sempre il bravo poliziotto che osservava, coglieva e definiva parole e frasi. E ora si stava comportando così con lui.
«Lei parla dell'assassino al maschile», disse, usando una tattica diversiva, «ma non possiamo essere sicuri nemmeno di questo.»
Ramírez sorrise divertito mentre attraversavano il puente de Isabel II e seguivano la sponda orientale del fiume verso nord, San Jerónimo e il cimitero.
«Lei sa che venendo qui stiamo perdendo tempo, non è vero, Inspector Jefe?»
«No, non lo so. Dove pensa che possiamo scoprire il punto in cui fare breccia? Non l'abbiamo trovato in nessuno dei posti ovvi, sul corpo, nell'appartamento, nell'Edificio Presidente, all'esterno dell'Edificio, nella ditta di traslochi: in nessuno di questi luoghi.»
«Sa che ieri l'ho cercata?» disse Ramírez, cambiando argomento.
«Non ho trovato nessun messaggio fino a stamani.»
«Era solo per dirle che lei aveva ragione, Inspector Jefe.»
Falcón si girò verso di lui lentamente, non in modo furtivo, ma come se stesse osservando gli edifici dell'Expo '92, La Isla Mágica con la sua aria assolutamente banale al di là del fiume pigro, grigio. In genere secondo Ramírez nessuno aveva mai ragione, meno di tutti il suo Inspector Jefe.
«Come ha detto lei, è troppo elaborato. Il modo», spiegò Ramírez.
«Per un movente comune come una questione di affari, vuol dire?»
«Sì.»
Occorse una frazione di secondo perché una quantità di osservazioni subliminali si fondesse nella mente di Falcón. Ramírez non era mai stato così gradevole: non lo aveva ostacolato alle Mudanzas Triana; aveva saputo trattare con il capodeposito, un tipo d'uomo più adatto a lui; gli aveva telefonato quattro volte in un giorno festivo; aveva ammesso di essere stato da Eloisa Gómez per interrogarla di nuovo, riconoscendo che la sua impazienza aveva probabilmente impedito che si ottenessero da lei informazioni preziose. E credeva che lui, Javier Falcón, avesse avuto ragione.
«Conosce la procedura», disse Falcón. «Non ci è permesso non fare nulla. Abbiamo offerto molto poco al Juez Calderón, a parte Consuelo Jiménez ed Eloisa Gómez. La prima è una persona complessa e raffinata che aveva l'occasione e i mezzi, la seconda aveva l'occasione ma non vuole dirci nulla. Il nostro compito è di trovare piste e quando le piste non si presentano con prove materiali, dobbiamo, poco alla volta e in modo umano, tirarle fuori dalle persone… o talvolta da luoghi privi di vita come i cimiteri o le rubriche telefoniche.»
«Ma lei dubita che ora, qui, troviamo qualcosa che abbia a che vedere con il caso, non è vero?»
«Esiste il dubbio, certo, ma proverò lo stesso, perché potrebbe saltarne fuori qualcosa che indirettamente porti a una traccia.»
«Per esempio?»
«Quello di cui parlava lei l'altra sera. Come si chiamava quel tipo? Cinco Bellotas?»
«Joaquín López.»
«I ragazzi licenziati dalla signora Jiménez… hanno visto i due parlare tra loro. Non sappiamo di che cosa si sia trattato, potrebbe avere un collegamento oppure no, ma dobbiamo accertarlo.»
«Però lei continua a pensare che si tratti dell'opera di una mente disturbata?»
«Le menti non disturbate possono diventarlo, se viene minacciata la loro intera esistenza.»
«Ma quei filmati, quell'introdursi nell'appartamento, quel restarvi nascosto per dodici ore…»
«Ancora non sappiamo se le cose siano andate davvero così. Sono più incline a pensare che l'assassino abbia stretto un rapporto con la ragazza, che abbia ottenuto le informazioni necessarie alle Mudanzas Triana e abbia messo le due cose insieme per entrare nell'appartamento.»
«Ma lo spettacolo dell'orrore che ha inscenato con Jiménez?»
«Non è che non si possa immaginare», ribatté Falcón, dubitando di se stesso mentre lo diceva. «Non è inimmaginabile, vero?»
«Per me sì.»
Era vero, pensò Falcón, e la visione di Marta Jiménez gli attraversò la mente, con il suo mento sporco di vomito e la benda sulle sopracciglia. Ramírez era un individuo troppo poco complicato. Sarebbe sempre rimasto ispettore, perché la sua immaginazione non gli permetteva di aspirare a qualcosa di più, i suoi orizzonti erano troppo limitati.
«Che cosa crede che gli abbia fatto vedere, Inspector?»
Ramírez frenò a un semaforo, le mani strette sul volante, lo sguardo fisso sull'auto che lo precedeva, aspettando la mossa di Falcón. Lui cercò di far correre la mente in solchi laterali e inesplorati.
«La sostanza dell'orrore», disse Falcón, «non consiste necessariamente in ciò che è realmente terribile.»
«Continui», lo incoraggiò Ramírez, giudicandolo un animale strano, ma contento di aver evitato uno sforzo creativo.
«Pensiamo a noi, al livello raggiunto dalla nostra civiltà… voglio dire, ormai possiamo anche ridere del cannibalismo, certo, non c'è più niente che ci spaventi, abbiamo visto tutto… tranne…»
Il semaforo cambiò, a Ramírez si spense il motore, suoni di clacson.
«Tranne che cosa?»
«Tranne ciò che abbiamo scelto di non sapere.»
«E questo non è inimmaginabile?»
«Intendo dire qualcosa che sappiamo di noi stessi, qualcosa di assolutamente privato, nascosto profondamente, che non mostriamo a nessuno e che neghiamo fermamente, perché non saremmo in grado di vivere se ne ammettessimo l'esistenza.»
«Non ho capito niente», affermò Ramírez. «Come è possibile sapere e non sapere allo stesso tempo? È un'assurdità.»
«Quando mio padre si trasferì a Siviglia negli anni '60, fece amicizia con il prete della parrocchia che passava sempre davanti alla sua porta per andare alla chiesa in fondo a calle Bailén. Mio padre non andava in chiesa e non credeva in Dio, ma si trovavano allo stesso caffè e in tanti anni di discussioni erano diventati amici. Una volta, alle tre del mattino, mentre lavorava nel suo studio, mio padre sentì gridare in strada: 'Ehi!
«Aveva perso la fede», disse Ramírez. «Capita sempre. Poi la ritrovano.»
«Peggio di così. Disse a mio padre di non aver mai avuto la fede, tutta la sua vita nella chiesa era cominciata con una bugia. Una ragazza non aveva ricambiato il suo amore. Sembra che si fosse fatto prete per farle dispetto e avesse finito per fare torto a se stesso. Da più di quarant'anni lo sapeva… ma senza esserne realmente consapevole. Era stato un buon prete, ma non aveva importanza, perché nell'edificio della sua vita c'era quella falla, quella minuscola bugia sulla quale era stato costruito tutto.»
«Che cosa gli successe dopo?» domandò Ramírez.
«Il giorno seguente si impiccò», rispose Falcón. «Che cosa si fa quando si è un prete e si è passata tutta la vita a insegnare la ricerca della verità nella parola di Dio?»
«Mio Dio!» esclamò Ramírez. «Ma non è necessario uccidersi, non bisogna prendere la vita così seriamente!»
«Per questo mio padre me lo raccontò», spiegò Falcón. «Gli avevo detto che avrei voluto essere un artista… come lui. Mi disse di stare attento, perché anche l'arte ha a che fare con la ricerca della verità, personale o universale che sia.»
«Ci sono!» esclamò Ramírez, scoppiando a ridere e battendo il palmo della mano sul volante.
«Bene, allora ha capito che cosa vuol dire sapere senza sapere.»
«Macché! Ho capito perché ha fatto il poliziotto!»
«Ah, sì?»
«La ricerca della verità! Cazzo, è geniale! E noi siamo tutti artisti, cazzo!»
Era stata quella la ragione? No. Perché dopo aver rinunciato all'idea di diventare artista, una volta venuto a patti con i dubbi di suo padre sul suo talento, gli aveva detto di voler fare invece lo storico dell'arte e suo padre gli aveva riso in faccia. «Gli storici dell'arte, i critici d'arte sono solo poliziotti che indagano sui quadri, vanno a caccia di indizi, si riempiono la vita di speculazioni e di congetture e nove volte su dieci fanno fiasco. La critica d'arte è per i falliti», aveva detto, «non solo artisti falliti, ma esseri umani falliti.» Quali riserve di derisione aveva suo padre per quella gente! E così era entrato nella polizia. No, non era del tutto vero nemmeno questo. Era andato a Madrid all'università e aveva studiato inglese (il solo popolo, a parte lo spagnolo, che suo padre tollerasse in certa misura) e aveva cominciato ad appassionarsi ai film
Provò un senso di precipitazione, come avesse dormito e stesse affiorando rapidamente dal sonno, ma era sveglio e i pensieri gli guizzavano intorno, lucenti e veloci come sardine. Scosse il capo, tornò con un brivido alla vita reale, ai sedili dell'auto, alla plastica, al vetro e alle altre cose solide, fatte dall'uomo.
«Serrano ha trovato qualcosa sul cloroformio e gli strumenti chirurgici?» domandò, ritrovando l'equilibrio grazie alle parole.
«Fino a questo momento niente.»
Fermarono l'auto davanti al cimitero. Ramírez prese la videocamera sul sedile posteriore, Falcón esitò sul marciapiede osservando la folla numerosa, il muro di fiori all'esterno della cappella, il cielo azzurro che quasi rendeva allegra la scena. Consuelo Jiménez era al centro del gregge, i suoi tre figli un po' stralunati nella foresta di gambe degli adulti. Falcón era alto come loro, a un altro funerale.
La funzione doveva essere già finita, stavano caricando la bara sul carro funebre fuori dalla cappella. Il conducente si diresse al cancello e i partecipanti si avviarono in lenta processione verso il centro del cimitero, lungo il vialetto fiancheggiato da siepi di bosso al di là delle quali si allineavano le cappelle e le tombe; superarono un enorme monumento in bronzo del torero Francisco Rivera nel suo costume, un toro immaginario galoppante in sempiterno alle sue spalle, una mano del torero sull'elsa della spada spezzata, nell'altra una cappa altrettanto immaginaria.
Il carro funebre arrivò a Jesús de la Pasión. La bara venne scaricata e trasportata al mausoleo di granito dove venne deposta di fronte all'unico altro occupante: la prima moglie. Consuelo Jiménez ricevette le condoglianze di quelli che non aveva ancora potuto salutare. Falcón controllò l'interno della cappella. Il ripiano di marmo sotto a quello della prima moglie di Jiménez non era completamente vuoto: in un angolo si vedeva una piccola urna, troppo piccola per contenere ceneri. La illuminò con la pila inserita nella penna e lesse la placchetta d'argento: ARTURO MANOLO JIMÉNEZ BAUTISTA. Forse era quella la conclusione di cui aveva parlato José Manuel.
Falcón raggiunse gli altri, porse le sue condoglianze e si avviò lentamente all'uscita mentre Ramírez si aggirava tra le tombe con la videocamera.
«Naturalmente lo conoscevi, non è vero?» disse una voce vicino all'orecchio di Falcón mentre una mano gli stringeva il gomito.
La faccia da cane triste di Ramón Salgado si insinuò nella visione periferica di Falcón. Ecco un individuo della specie che suo padre disprezzava cordialmente. Non lo derideva apertamente, certo, perché, pur essendo un critico d'arte, Salgado era più conosciuto come il gallerista che aveva reso suo padre famoso. Aveva un elenco di clienti ricchissimi e, fino al primo infarto di suo padre, li aveva indirizzati regolarmente a calle Bailén, perché potessero liberarsi di quegli inutili pacchi di denaro che intasavano il loro conto in banca.
«No, non lo conoscevo», rispose Falcón, ricorrendo alla freddezza che in genere riservava a quell'uomo. «Avrei dovuto?»
Gli tese la mano e Salgado la strinse tra le sue. Falcón la ritirò. Salgado si passò le dita tra i capelli lunghi, pretenziosi, il cui biancore argenteo si arricciava sul colletto dell'abito blu scuro. «Salgado… gli brilla perfino la forfora», soleva dire suo padre.
«No, è possibile che tu non l'abbia conosciuto, a ben pensarci», disse Salgado. «Non veniva mai a casa vostra, proprio così, ora ricordo. Mandava sempre Consuelo da sola.»
«Mandava?»
«Ogni volta che apriva un nuovo ristorante voleva sempre che vi fosse un Falcón. Sinonimo di Siviglia, capisci, con quel che segue.»
«Ma perché mandare
«Penso che forse sapesse del modo di fare piuttosto particolare di Falcón ed essendo un importante uomo d'affari non era disposto a sopportare il… come posso dire, il suo atteggiamento sarcastico, sì, sarcastico.»
Naturalmente intendeva parlare del disprezzo assoluto con cui suo padre faceva a pezzi gli eventuali compratori, ricavandone palesemente piacere.
Si avvicinarono al cancello del cimitero. I cerchi rossi davano l'impressione che gli occhi afflosciati di Salgado fossero stati appena asciugati dopo un pianto dirotto; secondo Javier un tempo quell'uomo era stato ben diverso dallo stecco che era diventato e il peso perduto, per forza di gravità, aveva reso cascante la pelle sotto gli occhi e gli zigomi. Suo padre diceva sempre che gli ricordava un segugio, ma che perlomeno non sbavava. Un complimento velato. Suo padre odiava gli atteggiamenti deferenti, a meno che non fossero da parte di una bella donna o di qualcuno di cui ammirava il talento.
«Come mai conosceva Jiménez?» domandò.
«Come sai, io abito a El Porvenir. Quando ha aperto quel suo ristorante, sono stato uno dei primi clienti.»
«Non lo conosceva già?»
Camminavano a passo svelto e le lunghe gambe di Salgado avevano una certa tendenza a muoversi disordinatamente; il piede urtò la gamba di Falcón e il gallerista sarebbe finito lungo disteso per terra, se l'ispettore capo non lo avesse trattenuto.
«Mio Dio, grazie, Javier! Non voglio cadere, alla mia età mi romperei il femore e finirei confinato in casa con la testa che mi svanisce.»
«Lei è in gamba, Ramón.»
«No, no, questa è una mia grande paura. Un unico stupido errore e pochi mesi più tardi eccomi diventato un vecchio rimbambito e solo, in un angolo buio di una casa dove non viene nessuno.»
«Non sia sciocco, Ramón.»
«È accaduto a mia sorella. La settimana prossima vado a San Sebastián per portarla a Madrid. Proprio così. È caduta, ha battuto la testa, si è rotta un ginocchio e hanno dovuto ricoverarla in un istituto. Io non posso andare là a trovarla ogni mese, preferisco che sia più vicina. Terribile. Ma non pensiamoci, senti, perché non andiamo a berci un
Falcón gli batté una mano sulla spalla. Non aveva nessuna voglia di trattenersi in sua compagnia, ma in quel momento provava una certa compassione per lui, il che probabilmente era nelle intenzioni di Salgado.
«Sono in servizio.»
«Di sabato pomeriggio?»
«Mi trovo qui per lavoro.»
«Ah, sì, dimenticavo», disse Salgado, guardando i partecipanti al funerale che gli sfilavano accanto. «Avrai il tuo da fare solo per compilare l'elenco dei suoi nemici, non parliamo poi per interrogarli tutti.»
«Davvero?» Falcón conosceva il grado di esagerazione a cui poteva arrivare Salgado.
«Un uomo d'affari potente come lui non se ne va all'altro mondo senza trascinarsi dietro qualcuno.»
«L'omicidio è un passo grave.»
«Non per la gente con cui era abituato a trattare.»
«E chi è questa gente?»
«Non possiamo parlarne qui davanti al cimitero, Javier.»
Falcón scambiò qualche breve parola con Ramírez e salì sulla grossa Mercedes di Salgado che si diresse verso la calle Betis, sul lungofiume, tra i ponti, dove Salgado parcheggiò spingendo una vecchia Seat in avanti di mezzo metro per inserirsi. Camminarono per un po' sul marciapiede alto sull'acqua finché Salgado si fermò per inspirare con espressione drammatica l'aria di Siviglia, non proprio pura in quel punto.
«
«Sì, lo ricordo, Ramón», rispose Falcón, depresso all'idea di aver offerto volontariamente a Salgado l'opportunità di circuirlo, come cercava sempre di fare.
«Sento la sua mancanza, Javier, la sento molto. Aveva uno sguardo così penetrante, sai. Una volta mi disse: 'Siviglia è fatta di due odori, Ramón, e il mio trucco… no, il mio grande segreto svelato, è che ora, alla fine della mia vita, ne dipingo soltanto uno e per questo vendo sempre tutto'. Stava scherzando, naturalmente, lo so bene, quei paesaggi di Siviglia che dipingeva non significavano niente per lui, erano un divertimento, ora che la sua fama era assicurata. Io gli dissi: 'E così il grande Francisco Falcón sa dipingere gli odori. In che cosa intingi il pennello?' E lui mi rispose: 'Solo nei fiori d'arancio, Ramón, mai nello sterco di cavallo'. Io risi, Javier, pensando che fosse finita lì, ma dopo una lunga pausa tuo padre soggiunse: 'Ho passato la maggior parte della vita a dipingere quello'. Che ne pensi, Javier?»
«Andiamo a prenderci una
Attraversarono la strada per entrare nella Bodega de Alabriza e, in piedi davanti a una delle grandi botti nere, ordinarono
«Mi parli dei nemici di Raúl Jiménez», lo invitò Falcón prima che Salgado si rituffasse in un altro stagno di ricordi.
«Sta succedendo tutto di nuovo mentre parliamo, mentre ci beviamo la nostra
«Gli affari vanno bene», disse Javier, sull'orlo della noia.
«Stiamo parlando in via non ufficiale, vero?» domandò Salgado. «Capisci, non dovrei…»
«Assolutamente», lo rassicurò Falcón, alzando le mani.
«È illegale, naturalmente…»
«Purché non sia criminale.»
«Ah, sì, una distinzione sottile, Javier. Tuo padre diceva sempre che sei il più intelligente. 'Pensano tutti a Manuela', diceva, 'ma è Javier quello che vede le cose più chiaramente.'»
«L'ansia mi sta uccidendo, Ramón.»
«
«Che cosa stanno pulendo?»
«Denaro, naturalmente. Che cos'altro può insudiciarsi tanto? Non per nulla lo chiamano 'denaro sporco'.»
«Da dove viene?»
«Non lo chiedo mai.»
«Droga?»
«Diciamo soltanto che 'non è dichiarato'.»
«Okay. E così lo ripuliscono. Perché lo fanno?»
«Perché lo fanno
«Va bene. Questa è la domanda.»
«L'anno prossimo l'euro sostituirà definitivamente la peseta. Occorre dichiarare le pesetas per avere gli euro. Se fossero 'sporche', si potrebbero avere problemi.»
«Che cosa ne fanno?»
«Comprano arte, fra le altre cose, e immobili», rispose Salgado. «Prova a comprare un appartamento a Siviglia in questo momento.»
«Non conosco il mercato.»
«E quello dell'arte?»
«
«Hai cominciato a fare ordine nello studio di tuo padre?»
Eccola. Ecco la domanda. Falcón non riusciva a credere di essersi fatto incantare dalla patetica commedia di Salgado al cimitero. Era questo che il gallerista faceva scivolare in ogni conversazione tra loro due e per questo Falcón non desiderava trovarsi con lui. Ora sarebbe cominciato il tentativo di persuasione occulta, a meno che lui non diventasse scortese o quanto meno cambiasse subito argomento.
«Nel campo della ristorazione girano molti fondi neri, non è così, Ramón?»
«Perché credi che stesse traslocando?»
«È quasi interessante.»
«Nessuno ha mai comprato un quadro di tuo padre con un assegno», riprese Salgado, «e hai ragione sul settore della ristorazione, specialmente per quanto riguarda i ristoranti per turisti che servono pasti a prezzi ragionevoli, i conti pagati sempre in contanti e senza fattura. È ben difficile che quel denaro arrivi mai sui libri contabili da mostrare al fisco.»
«E ora starebbe accadendo questo? E che mi dice del 1992?»
«Cose vecchie e superate. Io cercavo solo di farti capire.»
«A quel tempo non ero qui, ma sembra che vi sia stata molta corruzione.»
«Sì, sì, sì, ma sono passati dieci anni.»
«Dal modo in cui parla, sembra che abbia qualcosa da nascondere, Ramón. Non era per caso…?»
«Io?» saltò su Salgado, offeso. «Un mercante d'arte? Se credi che io abbia avuto la possibilità di incassare qualcosa con l'Expo '92 vuol dire che sei matto.»
«Ma
«'Stronzate sulla pittura'? Mi meraviglio, Javier, da te proprio non me l'aspettavo.»
Ci stiamo arrivando, pensò Falcón. È una trattativa d'affari, informazioni in cambio di ciò che Salgado desidera più di qualsiasi altra cosa: frugare nello studio di mio padre. E non era nemmeno una questione di denaro, si trattava di prestigio, sarebbe stato il coronamento della vita ingloriosa di quell'uomo organizzare la mostra definitiva delle opere mai viste prima del grande Francisco Falcón. Collezionisti a frotte. Americani. Conservatori di musei. Di colpo nuovamente al centro dell'attenzione, come quarant'anni prima.
Falcón addentò una grossa oliva carnosa. Salgado staccò un cappero dal picciolo che rigirò tra le dita.
«Quest'informazione è sicura al cento per cento, Ramón?»
«Ho avuto modo di ascoltare cose alle quali altri avevano aggiunto altre cose senza sapere che io sapevo. Nel corso degli anni mi sono fatto un quadro. Un
«E questo quadro ha un titolo?»
«
«E lei mi darebbe una copia di quest'opera importante, se io la lasciassi entrare nello studio di mio padre e… che altro? Se le lasciassi organizzare una mostra…»
«
«Sono sconcertato, Ramón.»
«Voglio soltanto passare una giornata da solo nel suo studio», disse Salgado, mordicchiando un altro cappero. «Puoi chiudermi dentro. Puoi perquisirmi quando esco. Tutto ciò che chiedo è un giorno tra i suoi pennelli, i suoi rotoli di tela, i suoi telai e i suoi colori.»
Il bicchiere di
«Devo pensarci, Ramón», disse Falcón. «Non è esattamente una normale trattativa d'affari.»
XII
Falcón e Ramírez erano seduti nella stanza degli interrogatori della Jefatura, la videocamera collegata al televisore mentre un poliziotto più giovane, che si intendeva di queste cose, provvedeva al funzionamento dell'intera apparecchiatura. Ramírez si informò sul vecchio signore incontrato al cimitero.
«Ramón Salgado. Era il gallerista di mio padre.»
«Non aveva l'aria di poter sollevare Jiménez dalla sedia», osservò Ramírez, «e nemmeno di riuscire ad arrampicarsi su un'autoscala.»
«È anche un critico d'arte che occasionalmente tiene all'università conferenze a cui non assiste nessuno. Ha una galleria in calle Zaragoza, vicino a plaza Nueva. È tuttora frequentata da gente importante, compresi la signora Jiménez e suo marito.»
«Ha l'aria di uno che sa tirar fuori i soldi dalle tasche altrui.»
«Abbiamo parlato di denaro sporco nel settore della ristorazione e ha perfino toccato l'argomento dell'Expo '92, cosa che credo abbia fatto poco volentieri, e c'è stata un'offerta di informazioni.»
«Ma non le ha detto niente?»
Falcón avvertì di nuovo la sonda in azione.
«Conosco Ramón Salgado», rispose. «Apparentemente è un uomo d'affari di successo, quattrini, macchina di lusso, casa a El Porvenir, clienti importanti, ma ai suoi occhi è un fallito. Non si è mai impegnato in prima persona come gli artisti che rappresenta, tiene conferenze alle quali non partecipa nessuno, ha scritto due libri di nessuna rilevanza, sia dal punto di vista accademico, sia dal punto di vista commerciale.»
«E che cosa voleva?» domandò Ramírez.
«In cambio di informazioni vuole qualcosa di personale… qualcosa che ha a che vedere con mio padre. Io non voglio concedergliela in cambio di semplici pettegolezzi.»
«Il mercato dei pettegolezzi è fiorente», osservò Ramírez.
«Lei non è mai stato all'inaugurazione di una mostra, Inspector? C'è sempre moltissima gente, persone che fingono di sapere più di quello che sanno, che credono di essere le uniche a capire le opere e che poi… cercano di tradurle in parole.»
«Quelle sono stronzate, non pettegolezzi.»
«Quel genere di persone vuole essere là dove si manifesta, vuole toccarlo, vuole parlarne.»
«Parlare di che?»
«Del genio», rispose Falcón.
«I ricchi non si accontentano mai di quello che hanno, no? Nemmeno quelli del barrio che hanno sfondato si accontentano. Vogliono tornare e ficcarti in gola il loro successo e per giunta rimanere amici.»
«Neanche mio padre lo ha mai capito, eppure era ricco anche lui», disse Falcón. «Lo disprezzava.»
«Che cosa?» domandò Ramírez, pensando che stessero ancora parlando di genio.
«Il desiderio di accaparrare, l'avidità.»
«Oh, certo», convenne Ramírez sarcastico, cercando le sigarette: sapeva bene che il vecchio Falcón aveva lasciato una fortuna in proprietà che si era «accaparrato». Se aveva disprezzato l'avidità, allora il vecchio
L'attrezzatura era finalmente pronta; si girarono verso lo schermo. Dal ronzio del nastro si passò bruscamente alla prima immagine: il silenzio del cimitero, le ombre dei cipressi lungo il sentiero, i convenuti adunati intorno alla cappella.
La mente di Falcón indugiò su Salgado, su suo padre, sullo studio mai aperto e sulla strana richiesta. Era stato Salgado a creare per suo padre la possibilità di farsi conoscere e per questa ragione in privato Francisco Falcón riservava a lui un disprezzo speciale. Salgado aveva organizzato a Madrid la mostra in cui era stato venduto il suo primo nudo, all'inizio degli anni '60. Il mondo dell'arte europeo era impazzito, la casa di calle Bailén era stata comprata sull'onda di quel successo.
E sull'onda di quel successo, grande, ma domestico, Salgado aveva organizzato una mostra a New York. Erano corse voci di una montatura, che il quadro fosse già stato promesso all'ereditiera Woolworth e «regina» di Tangeri, Barbara Hutton, e che la mostra fosse solo un mezzo per creare eccitazione intorno al nome di Francisco Falcón. In ogni caso aveva funzionato. Barbara Hutton aveva effettivamente comprato il quadro e, alla mostra, era accorsa tutta la folla scintillante e mondana di New York. Il nome di Falcón era sulle labbra di tutti. Le due successive esposizioni nella stessa città avevano ottenuto un grande successo e, per un periodo di qualche settimana, alla metà degli anni '60, Francisco Falcón era stato famoso quasi quanto Picasso.
Parte di quel successo era dovuto al talento di Ramón Salgado, il quale conosceva fin dal principio i limiti del suo artista. Il fatto era, e in suo padre questo aveva causato grande amarezza, rabbia e frustrazione, che esistevano solo quattro nudi Falcón, tutti dipinti nello spazio di un anno, a Tangeri, all'inizio degli anni '60. Dopo il suo arrivo in Spagna quella particolare vena del suo genio si era esaurita. Il pittore non era mai riuscito a ricatturare quella qualità unica, misteriosamente proibita, presente in quei quattro quadri astratti. Suo padre gli parlava spesso di Gauguin, gli spiegava che Gauguin era già un pittore eccezionale prima di aver visto le donne delle isole dei mari del Sud, ma che, a quel tempo, nessuno lo sapeva. Quelle figure femminili avevano fatto riemergere il suo genio. Se non fosse stato per loro, sarebbe probabilmente finito a dipingere porte in Francia. La stessa cosa era accaduta a Francisco Falcón. La sua prima moglie era morta, la seconda anche e il pittore aveva lasciato Tangeri. I critici avevano scritto che il carattere particolare di quei nudi era una sorta di consapevole innocenza, una presenza intangibile e che forse era stato il trauma di quegli ultimi anni a Tangeri a interrompere il flusso ispiratore: le perdite che aveva subito gli avevano impedito di accedere nuovamente a quella purezza innocente. Non aveva mai nemmeno tentato di dipingere un nuovo nudo astratto.
Qualcosa attirò l'attenzione di Falcón. Una macchiolina nera comparsa brevemente sullo schermo bianco.
«Che cos'era?»
Ramírez sobbalzò sulla sedia. Quasi non lo stava guardando, quello stramaledetto filmato, solo una gran perdita di tempo, secondo lui.
«Ho intravisto qualcosa», disse Falcón. «Qualcosa sullo sfondo. In alto a destra. Possiamo tornare indietro?»
Ramírez si aggirò intorno allo schermo come un moscone intorno a un mucchio di letame. Il dito tozzo premette maldestramente il pulsante di riavvolgimento e le figure cominciarono a rincorrersi all'indietro. Un altro colpo e presero a muoversi a un passo più dignitoso.
Era dopo la cerimonia davanti al mausoleo, la gente si stava allontanando. Falcón osservò attentamente lo sfondo: il profilo frastagliato dei tetti delle cappelle di famiglia, la linea piatta delle strutture che ospitavano i loculi dove riposavano le ossa dei poveri. La videocamera cominciò una lenta panoramica da sinistra a destra.
«L'ha visto?» domandò Falcón, meno sicuro ora che si stava concentrando.
«Io non ho visto nulla», disse Ramírez, soffocando uno sbadiglio.
«Richiami quel giovanotto per fermare l'immagine.»
Ramírez andò a recuperare il giovane poliziotto, che fece scorrere le sequenze un'inquadratura dopo l'altra.
«Ecco», disse Falcón, «a destra in alto, contro la cappella bianca.»
«
«Lo ha colto proprio alla fine della panoramica.»
«Otto fotogrammi», annunciò il giovane poliziotto. «Vuol dire un terzo di secondo. Non so come abbia fatto a vederlo.»
«Non l'ho visto», spiegò Falcón, «ha solo colto il mio sguardo.»
«Sta filmando i presenti!» Ramírez era sbalordito.
«Deve aver visto lei e la sua videocamera, Inspector, e si è ritirato dietro il mausoleo bianco», disse Falcón. «Ma quello, ne sono quasi certo, è un terzo di secondo del nostro assassino.»
Guardarono il filmato tre volte, ma non notarono null'altro. Alla sezione informatica un operatore ancora al lavoro digitalizzò le immagini della cassetta e inserì nel computer gli otto fotogrammi, selezionò l'elemento vitale e lo ingrandì. A dispetto di una certa distorsione della figura, apparve chiara la cura che quella persona aveva riservato al suo aspetto. Portava un berretto da baseball nero senza segni distintivi della marca, la visiera girata nella posizione ore dieci in modo da poter tenere la videocamera ben ferma sull'occhio. Aveva i guanti e il collo di un maglione dolcevita che gli copriva la bocca e il naso. Era inginocchiato e il soprabito scuro arrivava fino a terra.
«Non possiamo nemmeno capire di che sesso è», si rammaricò Falcón.
«Posso ripulire l'immagine» disse l'operatore. «Dovrò lavorare nel weekend, ma posso farlo.»
Si fecero stampare il fotogramma e tornarono nell'ufficio di Falcón.
«Dunque, che cosa stava facendo al funerale?» si domandò Falcón, sedendosi alla scrivania. «Stava filmando qualcuno in particolare o solo la scena nel suo complesso?»
«Fumava la conclusione della sua opera», suggerì Ramírez, «il bastardo morto e sepolto. Questa è la mia ipotesi.»
«Avrebbe corso un tale rischio solo per una soddisfazione personale?»
«Non era un rischio poi così grande, in genere non filmiamo i funerali delle vittime», obiettò Ramírez.
«Potrebbe essere la fine di
«Non era questo che stava insinuando prima che arrivassimo al cimitero?»
«Non ricordo di aver insinuato niente.»
«Ha detto che una mente non disturbata avrebbe potuto diventarlo. Non è la stessa cosa?»
«Un pazzo con un movente perverso. O un pazzo perverso senza movente.»
Ramírez si guardò alle spalle, per vedere se fosse appena entrato qualcuno più intelligente di lui.
«Ma è questo il punto, no?» riprese Falcón. «Ancora non abbiamo niente su cui costruire un'indagine.»
Attaccò il fotogramma stampato alla parete.
«È come quel gioco nei giornaletti», affermò Ramírez, distendendosi sulla sedia. «Si deve indovinare l'identità di una pop star da un occhio, un naso o una bocca. I miei ragazzi pensano che io dovrei riuscirci perché sono un poliziotto, ma a quanto pare non capiscono che io non so chi siano quei tizi. Chi cazzo è Ricky Martin?»
«Il figlio di Dean Martin?»
«E chi cazzo è
La domanda fece perdere il controllo a Falcón, che fu preso da un attacco isterico. Forse era per via delle notti inquiete, degli strani sogni. Un
L'Inspector telefonò agli uomini sul campo, ascoltò i rapporti. Niente. Uscì per la pausa del pranzo e Falcón finalmente si riprese e andò a casa, ancora stordito da quell'esplosione d'ilarità, dal fatto che fosse capitato a lui di perdere il controllo. Mangiò qualcosa che Encarnación aveva lasciato sul fornello, senza rendersi conto di che cosa fosse, poi si coricò sul letto, sperando in un'ora di sonno. Si svegliò alle nove di sera nel buio pesto della sua camera, di colpo desto come se qualcuno avesse tirato qualcosa che gli annodava lo stomaco. Aveva visto gli ubriachi fare la stessa cosa, risvegliarsi all'improvviso in cella come se fossero stati scaraventati d'un tratto nella corrente della vita. Si sentiva incerto sulle gambe, aveva la lingua impastata e un brutto sapore in bocca, le membra irrigidite e le giunture bloccate.
In piedi sotto la doccia lasciò che l'acqua corrente si portasse via tutto quanto, con l'impressione che la testa e le viscere fossero frullatori muniti di lame che trituravano, schiacciavano, maciullavano.
Nello spogliatoio indossò un paio di calzoni grigi e una camicia bianca che emise una sorta di crepitio mentre la infilava. Nel guardarsi allo specchio non riuscì a sopportare la vista di se stesso. La camicia. Odiava quel bianco, non sopportava il… non colore. Se la strappò di dosso e, con un brivido provocato da quell'odio così violento, la fece volare in fondo alla stanza. Avvicinatosi allo specchio si esaminò il viso, premette la pelle più delicata sotto gli occhi, la vide raggrinzirsi ma non tornare elastica come prima. L'età. Forse il suo interno stava riempiendosi di rughe come l'esterno? Forse nel cervello si stavano formando tante grinze, così che lui andava a letto amando le camicie bianche e si svegliava detestandole?
Scelse una camicia verde.
Di ritorno in camera, mentre guardava il letto disfatto e le lenzuola blu scuro, lo assalì un ricordo improvviso. Inés aveva sempre voluto lenzuola bianche, ma lui non riusciva a dormirci. Un altro esempio della sua avversione per il bianco. Si erano accordati sul celeste. Falcón ebbe una curiosa percezione di se stesso come di un tipo eccentrico, simile a certi collezionisti inglesi che suo padre aveva conosciuto. No, quella era chiaramente una bugia suggerita subdolamente dal suo ego. Vide se stesso come Inés doveva averlo visto: un vecchio, con le sue manie e le sue abitudini; se non che un quarantacinquenne non poteva dirsi vecchio. Però a quindici anni un uomo di quaranta gli pareva decrepito, i quarantenni indossavano completi, portavano il cappello e avevano i baffi… A ben pensarci, lui vestiva sempre così, perfino il sabato e la domenica era in giacca e cravatta. Inés aveva cercato di convertirlo alle felpe e ai jeans, alle polo con le maniche lunghe e perfino ai dolcevita, un genere che lui non riusciva assolutamente a portare. Mancanza di sostegno. A lui piacevano camicia e cravatta perché lo tenevano insieme, lo facevano sentire contenuto. Non sopportava gli indumenti larghi e sformati, gli piacevano gli abiti su misura, amava la sensazione di guscio che gli suggeriva un completo di buon taglio. Lo faceva sentire piacevolmente protetto.
Protetto da che cosa?
Di nuovo quel senso di precipitazione interiore. Questa volta, invece di liberarsene con uno scossone, cercò di esaminarlo. Era come una proiezione accelerata di un film… ma non era proprio così, perché non c'era un avanzamento. Anzi. Ma non era nemmeno una regressione. Una stasi. Sì, era così. Rimase immobile mentre il passato lo raggiungeva. Il pensiero lì e subito dopo svanito, simile a un frammento che precipitasse in un lampo al di là del finestrino… E da dove veniva? Frammenti che precipitavano… Il sogno riaffiorò da un sonno che aveva creduto senza sogni; perciò si era svegliato di soprassalto. Conosceva l'origine di quell'incubo. Aveva letto il resoconto del disastro aereo del volo 103 Pan Am, a Lockerbie, in Scozia. Un uomo si era svegliato all'improvviso in casa sua e aveva trovato in giardino una fila di passeggeri ancora sui loro sedili che… tenevano tutti le dita incrociate. Quel particolare pietoso aveva trascinato nella mente di Falcón l'orrore dell'aereo esploso in aria, un orrore che gli era rimasto dentro e che ora la memoria aveva riportato alla superficie. Lo schianto; i componenti, i meccanismi fondamentali del velivolo che volavano via al di là del finestrino, pezzi di turbina, finiture di ali… e poi scagliati fuori nelle fauci sbadiglianti della notte, a precipizio attraverso il buio sottile, la mente annichilita, solo l'istinto a lottare per ritrovare momenti meno pericolosi, le montagne russe, la montagna magica. Oh, andrà tutto bene, dita incrociate. Il suolo invisibile che ti viene incontro a precipizio, il nero sempre più nero, del genere senza stelle. Oh, Dio, il mondo capovolto, non eravamo certo fatti per questo, a che serve ora ripetersi: «Tenersi forte! Tenersi forte»? Siamo proprio in classe economica. E avremo un
Che non c'era stato. Si era svegliato. Nessun impatto. Sua madre gli aveva detto… la sua prima o la sua seconda madre? Una delle due gli aveva confidato che in un incubo, finché non si urtava il suolo tutto andava bene. Ridicolo. Si era nel proprio letto. Le cose che ti fanno credere!
Si inginocchiò e si allacciò le scarpe, strette, in modo che i piedi fossero al sicuro e stabili, affidabili. Non era quello il momento di ciabattare in giro nelle pantofole gialle di pelle che si era comprato perché gli ricordavano suo padre. Francisco Falcón le portava sempre quando lavorava: a piedi nudi o in pantofole, mai niente altro.
Quel riaffiorare continuo di ricordi era esasperante.
Uscì dalla stanza nella galleria che si affacciava sul patio. Faceva caldo, l'aria che spirava intorno alle colonne era morbida come una ragazza che fosse venuta a dargli un bacio. Inspirò profondamente e l'aria inebriante gli riempì all'improvviso la testa del profumo delle cose ancora possibili. La pupilla nera dell'acqua ferma nella fontana del patio fissava la notte. Falcón rabbrividì. Tutte queste case guardano solo se stesse, pensò. I muri le erodono. Devo uscire. Devo uscire da me stesso.
Si avviò giù per le scale, ma si voltò verso la galleria, in direzione dello studio di suo padre. Il cassetto delle chiavi non c'era più. Encarnación. Strano, pensò, un nome come quello, eppure la vedo così raramente. Sempre intenta ad assumere forma umana, immaginava, ma senza mai comparire. Io vedo soltanto le prove della sua attività. Risalì fino al cancello, perché aveva visto che nel lucchetto era rimasta una chiave e, appesa a un frammento di spago, un'altra. Si accarezzò il palmo della mano con i polpastrelli. Sudate. Aveva sempre avuto le mani asciutte e fresche, Inés glielo faceva notare. Quando erano amanti, gli bastava far scorrere le mani sulla sua schiena calda perché lei s'inarcasse premendo il ventre sul lenzuolo, offrendosi a lui. Quelle mani fresche e asciutte sulla sua pelle. Alla fine del matrimonio, sua moglie lo chiamava pescivendolo. «Non toccarmi con quei blocchi di ghiaccio!» lo ammoniva con disprezzo.
Girò la chiave. Un giro, due giri e mezzo. La serratura scattò, il cancello si aprì senza cigolare. Chi aveva oliato i cardini? La fantastica Encarnación? Sentiva il cuore battergli forte, come se intuisse che stava per accadere qualcosa. Sfilò la chiave dalla toppa, richiuse il cancello di ferro battuto.
Suo padre aveva fatto mettere le sbarre alle arcate di quel lato della galleria, ossessionato com'era dal problema della sicurezza. Falcón lo percorse tutto, l'acqua nera e piatta della fontana che si increspava nella sua mente. Poi tornò indietro fino alla porta al centro, la pesante porta di mogano con i pannelli sporgenti che diceva: «Vietato entrare» o forse, con ancora maggior esigenza: «Vietato entrare impreparati».
La seconda chiave scivolò nella serratura, girò facilmente. Incoraggiante. Gli occorse una certa forza per spingere il battente: la prima resistenza. La porta si aprì con un cigolio assurdo, il coperchio della bara di un vampiro. Falcón ridacchiò, nervoso come Leda quando aveva visto il famoso cigno dispiegare le ali. Una delle battute ironiche di suo padre sulle donne che tremavano al cospetto del suo carisma. Annaspò alla ricerca dell'interruttore.
Alla luce delle lampade alogene apparve un vasto muro vuoto, spruzzato di colore: la parete sul lato dove suo padre dipingeva, cinque metri per quattro di tracce di lavoro, le vestigia di quattro tele che sembravano galleggiare sotto le macchie di vernice sgocciolata e le pennellate. L'estremità del muro più vicina alla finestra era quasi completamente nera, la pittura spessa, come se suo padre avesse lavorato su idee gravate da un senso di imminente rovina. Sul resto della parete predominava il rosso, un colore che non aveva usato molto in nessuna delle sue opere dal tempo dei nudi di Tangeri, linee voluttuose distese su blocchi di colore del Marocco: blu tuareg, ocra deserto, terra di Siena pura, terracotta e poi i rossi, l'intera gamma dei rossi sangue, dal cremisi dei capillari al vermiglio delle vene, all'amaranto scuro delle arterie. Si diceva comunemente che stava tutto in quel rosso, il flusso della vita. Ma dopo Tangeri Francisco Falcón non aveva più usato il rosso. Nei quadri degli scorci di Siviglia non lo impiegava quasi mai, in quei paesaggi astratti verdi e grigi, marroni e neri e sempre soffusi da una luce misteriosa proveniente da una fonte invisibile. Luce che il critico di
Ricordando quelle parole Falcón si era arrestato di colpo, la gamba alzata, ridicolo come uno di quei mimi sulla calle Sierpes. I pensieri ruotavano vorticosamente intorno a quel punto cruciale, a una verità che gli permettesse di leggere nella mente dell'assassino di Raúl Jiménez. Quella che avrebbe costretto la vittima, evitando le interferenze della mente, a vedere l'inaccettabile realtà. Ma non riuscì a raggiungerla e si risvegliò sorpreso come un paziente anestetizzato, ridestatosi dopo quella breve vacanza dal mondo.
Girò intorno ai tavoli coperti da vasetti e barattoli pieni di pennelli induriti, incrostati di colore secco. Sotto i tavoli scatole di cartone e pile di libri, di cataloghi e riviste, oscuri periodici d'arte e risme di carta, rotoli di tela, fogli di cartoncino. Avrebbe impiegato un giorno intero solo per trasportare tutta quella roba al pianterreno, figuriamoci poi per esaminarla. Ma la questione era: non avrebbe dovuto nemmeno guardarla, avrebbe dovuto portarla via e bruciarla. Non buttarla via, ma distruggerla in modo radicale.
Falcón si passò le dita tra i capelli, più e più volte, impazzendo al pensiero dell'impresa in cui stava per imbarcarsi, consapevole di trovarsi li precisamente per disubbidire alle disposizioni di suo padre e di aver sempre rimandato quel momento dal giorno della sua morte, perché aveva avuto bisogno di prendere le distanze dalla fine di quell'epoca, per poter cominciare la propria. La propria? Si poteva parlare di un'epoca per le persone comuni come lui?
Si chinò e sfilò una rivista da un mucchio, il
I ricordi si affollavano, urtavano violentemente l'uno contro l'altro.
Una discussione su Hemingway, sulla ragione per cui Hemingway si fosse sparato. Era stato nel 1961, l'anno in cui la madre di Javier era morta. Un uomo che aveva raggiunto un tale successo e che si era ucciso perché non sopportava l'idea di non riuscire più a ritornare a quel livello. Javier aveva sedici anni quando ne avevano parlato.
Javier: «Perché non si è ritirato e basta? Aveva più di sessant'anni, perché non ha appeso la penna al chiodo e non si è sistemato in una veranda al sole di Cuba a bere mojito?»
Padre: «Perché era sicuro di poter ritrovare ciò che aveva perduto, di doverlo ritrovare».
Javier: «Be', avrebbe potuto occuparsi di questo, la caccia al tesoro… un gioco che piace a tutti».
Padre: «Non è un
Javier: «Il suo posto nella letteratura era già assicurato, aveva vinto il premio Nobel. Dopo
Padre: «Perché aveva avuto quella cosa e l'aveva perduta. È come perdere un figlio… non si riesce mai a superarlo».
Javier: «Ma guarda te, papà. Anche a te è successo, eppure…»
Padre: «Non parliamo di me».
Falcón gettò via la rivista al pensiero della sua stupidità. Trascinò uno scatolone in mezzo alla stanza e lo aprì. Tutta quella roba accumulata in una vita, la vita di un artista che si attaccava a ogni oggetto capace di far scaturire una nuova idea! Compì qualche passo lungo gli scaffali di libri ai lati e in fondo alla stanza. «Devo bruciare anche questi?» si domandò. «È questo che vuoi? Vuoi che dia fuoco ai libri? Che li butti giù dalla galleria nel patio e accenda un falò di parole e di figure? Non è possibile che tu lo abbia voluto.» Ah, la capacità di persuasione dell'animo colpevole che sta per trasgredire!
Nella parete che dava sulla strada c'erano quattro finestroni; li aveva fatti aprire suo padre per ottenere il massimo di luce naturale, ogni finestra munita di un cancello retrattile di metallo. Lo studio era praticamente una fortezza.
Arrivò davanti alla parete di lavoro del padre e, attraverso una porta in un angolo, entrò in un locale senza finestre e illuminato da una lampadina appesa al soffitto. Lungo una parete quattro rastrelliere verticali, dove erano riposte tele e altro materiale, mentre il lato opposto era occupato quasi interamente da una cassapanca sulla quale le scatole si ammonticchiavano in pile alte quasi fino al soffitto. Un odore di muffa, di chiuso e, dopo il lungo inverno, di umido. Si avvicinò alle rastrelliere ed estrasse un foglio a caso. Era uno schizzo a carboncino di uno dei nudi di Tangeri. Ne prese un altro, un disegno a matita dello stesso nudo. Un altro e un altro ancora, ognuno una rielaborazione dello stesso soggetto, lo sviluppo di un particolare, lo studio di un angolo. Passò alle tele. Lo stesso nudo di Tangeri dipinto più e più volte, in grande, in piccolo, sempre lo stesso soggetto. Guardò nelle altre rastrelliere e scoprì che ognuna delle quattro corrispondeva a uno dei quattro famosi nudi Falcón. Centinaia di disegni e di carboncini, di oli e di acrilici.
Fu sopraffatto da una tremenda tristezza. Quei lavori, la parete di rastrelliere in quella stanza dalla luce fioca, ecco tutto ciò che restava del tentativo di suo padre di ritrovare il suo genio, di riappropriarsene, di farlo rivivere non fosse che una sola volta, non fosse che in un solo minuscolo dettaglio. Un'ondata di tristezza che faceva male, perché Falcón aveva visto, nonostante la luce patetica di quella misera lampadina, che nessuno di quei lavori conteneva qualcosa dell'eccezionale qualità degli originali. Era tutto perfetto, ma non vi era vita, né slancio, né fiamma, né vibrazione. Quelle cose erano mediocri. Erano migliori i suoi paesaggi astratti, erano migliori perfino le sue cupole e le sue finestre, le sue porte e le sue arcate. Quelle cose poteva bruciarle, poteva darle alle fiamme senza pensarci due volte.
Salito su uno sgabello, tirò giù una scatola. Pesante. Altri libri. L'aprì e frugò all'interno, tra i volumi rilegati in pelle, in tela, qualcuno di scrittori degli anni '60 e '70, altri di autori classici. Ne sfogliò uno e vide la dedica. Erano regali di ammiratori: aristocratici, ministri, registi teatrali, poeti. Aprì un'altra cassa e vi trovò porcellane accuratamente incartate. Una terza conteneva oggetti d'argento. Sigari… intatti. Portasigarette. Piccole sculture in legno. Statuette. Suo padre odiava le statuette di porcellana: ne trovò tre scatoloni pieni, le più vecchie avvolte in giornali dell'epoca, le più recenti in fogli di plastica a bolle. Si rese conto di che cosa stesse guardando. Omaggi a suo padre, piccoli doni che gli venivano offerti in qualche occasione mondana, piccole espressioni di gratitudine per il suo genio.
Altri ricordi. Viaggi con suo padre. Raramente aveva pagato un pasto o una camera d'albergo, dove trovava sempre mazzi di fiori. Se si fermavano in qualche casa privata, i proprietari lasciavano silenziose offerte di frutta per dimostrare quanto fossero stati onorati dalla visita del grand'uomo.
«Così va il mondo», diceva suo padre. «La grandezza è sempre premiata. Se io fossi un calciatore o un torero non sarebbe diverso. Si tratta sempre di genio, non importa con che cosa, con il piede, con la cappa, la penna o il pennello. Eppure… che cos'è mai? Grandi pittori possono dipingere quadri senza vita, brillanti toreri fanno disastri con magnifici tori, superbi scrittori scrivono pessimi libri, calciatori sublimi riescono a giocare da fare schifo. E allora che cos'è questo… questo
Sì, l'idea lo aveva irritato moltissimo. Javier lo ricordava con la mano alzata, il pollice premuto contro l'indice con tale forza che la punta delle dita si era sbiancata. Aveva pensato stesse per dire che il genio non era nulla.
«Il genio è un interstizio.»
«Un che cosa?»
«Una breccia. Una minuscola fessura alla quale, se si è fortunati, si può mettere l'occhio per vedere l'essenza.»
«Non capisco.»
«Non puoi capire, Javier, perché tu hai la benedizione della normalità. Per il calciatore l'interstizio è il momento in cui sa esattamente, senza esserne conscio, dove si troverà la palla, come dovrà correre per raggiungerla, dove dovrà mettere i piedi, dove sarà il portiere, l'istante preciso in cui dovrà colpire il pallone. Calcoli evidentemente impossibili divengono magicamente semplici, il movimento è fluido, il tempismo sublime, l'azione così… rallentata. Lo hai notato? Hai mai notato il silenzio di quei momenti? O ricordi soltanto il ruggito mentre il pallone accarezza la rete?»
Un'altra conversazione interminabile con suo padre. Falcón scosse la testa per liberarsene. Guardò in tutte le scatole, vagamente a disagio nel constatare l'ordine metodico del padre. Francisco Falcón in genere lavorava in una grande confusione di colori, di hashish, di musica e, a Siviglia, quasi sempre di notte, eppure in quel ripostiglio regnava la pignoleria. Quasi a conferma di ciò, aprì una scatola piena fino all'orlo di banconote. Non dovette nemmeno contarle, perché un biglietto lo informò che si trattava di ottantacinque milioni di pesetas. Una grossa somma di denaro, sufficiente a comprare una piccola villa o un appartamento di lusso. Gli torno alla mente il discorso di Salgado a proposito di fondi neri. Avrebbe dovuto distruggere anche le banconote?
L'ultimo scatolone conteneva altri libri, rilegati in pelle, ma senza titolo. Anche il dorso era liscio. Ne aprì uno a caso. Le pagine erano coperte dalla scrittura nitida di suo padre. Una riga gli saltò all'occhio:
Richiuse di scatto il volume per riaprirlo alla prima pagina:
Infilata nella cassa trovò una busta indirizzata «A Javier». Gli si rizzarono i capelli sulla nuca. L'aprì con dita tremanti. La data sulla lettera era: 28 ottobre 1999. Il giorno prima che suo padre morisse, tre giorni dopo il suo ultimo testamento.
XIII
Falcón rimise la lettera nella busta, la infilò nella scatola e spense le luci nelle due stanze, avvertendo che il buio inghiottiva con ingordigia il lavoro di suo padre.
I giardini di fronte al Museo de Bellas Artes stavano cominciando a riempirsi di giovani che fumavano marijuana e bevevano a collo dalle bottiglie da un litro di Cruzcampo. Alle undici di sera era ancora presto, ma, entro qualche ora, gli alberi oscuri sarebbero stati scossi dal frastuono di una festa di massa all'aperto. Si diresse verso il centro, lontano da luoghi dove poteva essere conosciuto.
Un certo ritmo si stabilì dentro di lui, un ritmo che non richiedeva il pensiero, solo la sensazione del selciato sotto la suola delle scarpe. Le parole della lettera di suo padre gli risuonavano fragorose nella mente come un interminabile treno merci che sussultasse a intervalli regolari sui binari. Sapeva che lo avrebbe fatto, sapeva che non avrebbe resistito e avrebbe letto i diari.
Mezz'ora dopo era in calle Jesús del Gran Poder, un nome altisonante per una strada di poche pretese. Tagliò per l'Alameda, dove le ragazze erano appostate tra gli alberi e le macchine parcheggiate nello spazio libero che la domenica mattina ospitava il mercato delle pulci. Dai bar e dai club in fondo alla strada giungeva una musica ritmata. Una ragazza si stirò la minigonna elasticizzata sul sedere e si avvicinò per domandargli che cosa cercasse. Aveva la faccia nera e bianca nelle luci gialle della via, i seni spinti in su nella scollatura geometrica di un top a rete, lo stomaco nudo arrotondato, le labbra nere e lucide: la lingua sembrava una creatura marina che si affacciasse tra gli scogli. Falcón era ipnotizzato. La ragazza suggerì qualcosa che funzionò, con sorpresa dell'uomo.
«Sono della polizia», disse irrigidendosi, «cerco Eloisa Gómez.»
La ragazza, immusonita, indicò con un cenno del capo un gruppo in mezzo alla piazza. Falcón uscì dagli alberi, turbato nel constatare che non poteva più fidarsi di se stesso, inquieto per l'imprevedibilità che si stava insinuando nella sua natura. Fu costretto a dirsi che lui era buono, che stava dalla parte dei buoni, perché quell'istantanea gli aveva appena rivelato che il lato oscuro del suo carattere era fremente di vita. Mentre calpestava il suolo disuguale dell'Alameda ebbe la strana idea di poter avere paura di se stesso, di ciò che aveva dentro e che non conosceva. L'assassino non aveva forse fatto questo a Raúl Jiménez, cioè mostrargli la cosa che aveva terrorizzato quell'uomo ogni giorno della sua vita?
Raggiunse il gruppo di ragazze in piedi di fronte a calle Vulcano, dove altre donne erano ferme sotto i lampioni della strada, gli stivali alti fino alla coscia evidenziati in controluce. Donne della fantasia, che con ogni loro gesto dicevano agli uomini di fare tutto ciò che volevano tranne baciarle sulla bocca. Il gruppo si divise senza una parola e aspettò che fosse lui a parlare, perché tutte sapevano che non era un cliente. Chiese di Eloisa Gómez. Una ragazza bassa di statura, grassa, con i capelli neri tinti e una faccia gonfia disse che non l'aveva vista in giro, non si era più vista da quando aveva preso la chiamata di un cliente la sera prima.
«Non è strano che non sia tornata qui?» domandò Falcón e le ragazze si strinsero nelle spalle.
«Devi essere un poliziotto», osservò una, «sei con quel
«Sono della squadra omicidi», spiegò Falcón. «Eloisa è stata con un cliente mercoledì notte, giovedì mattina. Dopo che se ne è andata l'uomo è stato assassinato.»
«Che peccato.»
Recuperò il numero di Eloisa sul cellulare e lo chiamò. Nessuna risposta; lasciò un messaggio, fornendo il suo numero, pregandola di mettersi in contatto. Le donne stavano lì, in attesa di sviluppi interessanti, dandogli l'impressione di essere un animale dello zoo, finché una bionda dietro alle altre disse: «Se vuoi un pompino, ti facciamo il solito sconto per la polizia». Risate.
Risalì calle Vulcano, lasciandosi alle spalle le ragazze, fino a calle Mata, svoltando poi in calle Relator. Stava ricordando l'ultima volta in cui era stato in quella zona, probabilmente con suo padre, perché non ci veniva mai per bere qualcosa o per una
Attraversò calle Feria fino alla vecchia chiesa con un nome latino, Omnium Sanctorum, accanto al mercato coperto, un angolo buio e quieto, tanto che il trillo del telefonino lo fece sobbalzare.
«
Silenzio a parte un sibilo etereo.
«
La voce suonò calma, sommessa, maschile.
«Dove sei?»
«Chi parla?» disse Falcón, irritato dalle persone che non dicevano il proprio nome.
«Siamo vicini?» riprese la voce e quelle due parole furono sufficienti a immobilizzare Falcón, a lasciarlo piegato, come se curvandosi potesse udire meglio.
«Non so. Lo siamo?»
«Più vicini di quanto pensi», rispose la voce e la telefonata si interruppe. Falcón si girò di scatto, controllò ogni portone e ogni angolo di strada, il vicolo buio tra la chiesa e le vie laterali. Una coppia con un cagnolino attraversò la strada per evitarlo, probabilmente lo avevano preso per pazzo vedendolo saltare di qua e di là dietro alle ombre, come un pugile suonato.
Falcón si fermò e fissò il selciato, incerto tra due possibilità. Se l'assassino non conosceva già Eloisa Gómez, allora aveva trovato il suo numero sul cellulare di Jiménez che aveva rubato nell'appartamento. La sera prima l'aveva chiamata e ora doveva avere il telefonino di
Ci siamo mossi malissimo, pensò. Si mise a correre, tornando sull'Alameda sudato e senza fiato. Le donne lo circondarono.
«Dove abita Eloisa Gómez?» domandò. «Nessuna di voi sa dove sia andata dopo che ha ricevuto quella telefonata ieri sera?»
La ragazza grassa trotterellò con lui fino a una casa sulla calle Joaquín Costa, passando davanti a gruppetti raccolti nell'ombra di aree vuote e di androni, curvi su fogli di alluminio, a succhiare le cannucce di penne biro vuote e aspettare il colpo di coda del drago. Aprì il portone di un vecchio edificio malandato, con l'erba e i fiori che spuntavano dalle crepe dell'intonaco. Le scale di legno non erano illuminate e puzzavano di urina. Sul pianerottolo del primo piano la ragazza indicò una porta e quando Falcón, che aveva bussato, non ottenne risposta, andò a prendere una chiave di riserva dalla sua camera. All'interno nessuna traccia di Eloisa, solo un grosso panda di peluche nuovo di zecca sul divano mezzo sfondato.
«È per sua nipote», spiegò la ragazza. «Sua sorella vive a Cadice.»
Il panda sedeva a braccia aperte in un gesto rigido, gli occhi stupidi e tristi, e per un attimo Falcón contemplò la propria solitudine nel muso di quel giocattolo muto. Riprovò a chiamare il numero di Eloisa Gómez e gli rispose la voce della segreteria.
«Dove si trova?» lasciò come messaggio.
Fornì il suo biglietto da visita alla ragazza, le raccomandò le solite cose. Lei prese il biglietto con mano tremante: aveva capito.
Falcón provò rabbia per il suo fallimento. Si allontanò dall'Alameda risalendo la calle Amor de Dios a passo svelto, come se sapesse dove andare, ma in realtà senza una meta precisa, svoltando a sinistra e a destra nel disordine delle stradine finché non avvertì odore di urina di gatti. La via si stringeva per allargarsi poi davanti a una chiesa dedicata alla Divina Enfermera. Grossi blocchi di asfalto si accumulavano in plaza de San Martin. Era stato lì con suo padre quando erano andati dal pittore di falsi e, passando davanti alla chiesa della Divina Enfermera, suo padre aveva fatto una battuta volgare, mostrandogli le divine infermiere al lavoro: donne di sessantacinque anni sedute sulla soglia di casa a gambe aperte, nero corvino tra le cosce flaccide. Suo padre aveva iniziato con loro trattative interminabili a proposito di un pompino e Javier, sconvolto, non aveva resistito ed era scappato via, fermandosi in fondo alla strada sotto una pubblicità dell'
I nomi delle vie scivolarono dietro di lui fino a San Juan de la Palma, affollata di gente che usciva dalla Cervezería Plazoleta e beveva birra intorno alle due palme svettanti al di sopra dei lampioni. Era facile sentirsi soli a Siviglia. Passò davanti alla dimora della Duquesa de Alba. Una volta c'era stato, fermo in piedi sotto le cascate torreggianti delle buganvillee a bere nettare con il bel mondo. Così si sentono i vagabondi? Sto cominciando a vagabondare, a fuggire da me stesso.
Una folata di brezza gli raffreddò il velo di sudore sulla fronte. Non pensava di essere assorto nel flusso dei pensieri, eppure le parole gli fluttuavano nella mente, sbucando dal nulla, non invitate. Andropausa. Quarantacinque. Uomo maturo. Un'altra stronzata delle riviste di Manuela. No. Qui si tratta semplicemente di età, senza mezzi termini, l'inizio strisciante della vecchiaia notato dalla mente e dal corpo, età avanzata significa disintegrazione delle possibilità e affermazione delle probabilità, probabilità favorevoli di giorno in giorno minori: Francisco Falcón, giugno 1996.
Si mise a correre, scattò come se potesse così sfuggire a ciò che gli stava crescendo nella testa. La gente si scostava all'avanzare sonoro dei suoi passi e quanti avevano un più forte istinto gregario cominciarono a seguirlo, convinti che sapesse dove stava andando. Idioti, grandissimi idioti. Arrivato a calle Matahacas aveva già venti persone dietro di sé e fu allora che vide la folla materializzarsi uscendo dal buio e avvertì il silenzio profondo che i
In fondo alla strada, all'altezza delle Escuelas Pías, al di sopra di un mare di teste nere e illuminata dalle candele, comparve la Madonna. La figura dalla testa china, la veste bianca tempestata di gemme, la guancia bagnata dalle lacrime, ondeggiò nelle volute d'incenso e il timore sacro le lambì i piedi salendo dall'umanità ammassata sotto di lei mentre il
La gente alle spalle di Falcón lo spinse verso la stupefacente visione di bellezza che lo affascinò e lo disgustò al tempo stesso, lo riempì di rispetto reverenziale e di paura. La folla che gli veniva incontro si fece più numerosa, donnette che gli arrivavano alla vita mormorarono preghiere e baciarono rosari. Era intrappolato in quel bizzarro mondo parallelo, mentre l'Alameda con le sue prostitute e i suoi clienti, i suoi drogati in cerca di oblio armato di lancia, viveva una vita diversa, di sangue e di sudiciume, ben lontana da questa cattedrale alta di silenzio, con la sua bellezza mortificante che avanzava sull'onda della reverenza e dell'adulazione.
Possibile che apparteniamo tutti alla stessa specie?
La domanda gli si presentò inaspettata, ma lo indusse a pensare che forse il bene e il male potessero abitare nello stesso luogo, nella stessa persona. Perfino dentro di lui. Il panico lo ghermì, doveva assolutamente uscire dalla folla e l'unico modo era proseguire dritto.
La Vergine si fermò e sprofondò nel buio. La luce delle candele tremolò sul suo viso, colse le lacrime cristalline, gli occhi addolorati. Doveva superarla, lasciarsi indietro quel terribile emblema di lutto, quello sfolgorante esempio della capacità di barbarie del mondo. Si fece strada a forza tra le penitenti, lasciandosi alle spalle le madri tranquille, il bambino che dormiva in braccio al padre, la testa sul suo petto. Non resisteva più.
Lo colpirono con i pugni sulla schiena per fermarlo, ma Falcón procedette senza badare a niente, raggiunse la barriera, vi si infilò sotto e corse tra i
La folla si fece più rada e Falcón riuscì senza difficoltà a scavalcare la barriera, ma non rallentò finché non sbucò in calle Cabeza del Rey Don Pedro e soltanto allora si accorse che stava parlando da solo. Cercò di ascoltarsi, il che era ancora più folle. Continuò, riuscì a riprendere il controllo e si infilò in un vicolo che percorse fino alla calle Abades, fermandosi di botto in mezzo alla strada, perché là, girata verso l'edificio dal quale era appena uscita, stava la sua ex moglie, Inés. Rideva, rideva così forte che si era chinata, la testa e i lunghi capelli in avanti, le mani strette sulle cosce. Stava guardando la luce che usciva dalla porta del Bar Abades e Falcón sapeva che non rideva perché fosse ubriaca, a lei non piacevano le bevande alcoliche. Rideva perché era felice.
La porta del bar si aprì per far passare un gruppetto di gente che usciva. Inés prese per un braccio uno del gruppo e si allontanò insieme a lui. Portava tacchi molto alti, come sempre, e camminava sull'acciottolato con una tale sicurezza da lasciare strabiliati. Per Falcón muovere i piedi fu più problematico. Quel momento aveva spalancato dentro di lui un abisso tenebroso: su un lato dell'abisso la sua vita precedente, quando era sposato, più felice, e sull'altro quel sé attuale, solitario, oscuro. E nel mezzo? La voragine, il precipizio, il pozzo senza fondo di quei terribili sogni per i quali l'unica cura era svegliarsi di soprassalto in una realtà ancora più implacabile.
La seguì. Ascoltò la sua allegria. Si trattava di battute sui giudici e sugli avvocati difensori. Fu un sollievo per lui capire che quei suoi compagni erano colleghi di lavoro, ma ogni riconoscibile risata di Inés gli si conficcava dentro e rimaneva piantata lì con tutta la forza di un toro alle spalle. La spensieratezza di lei era quasi insopportabile accanto al tormento nuovo di zecca di lui. E quando la pietra focaia della sua immaginazione incontrò la sega circolare dei sospetti, scintille crepitanti gli turbinarono nella testa.
In avenida de la Constitución il gruppetto chiamò i taxi e Falcón, tenendosi in ombra, cercò di vedere con chi sarebbe salita in macchina. Montarono in quattro sullo stesso taxi. Osservò la sua caviglia, la punta di pelle della scarpa scomparire nell'auto, la portiera richiudersi. Rimase lì, derelitto, a seguire con lo sguardo le rosse luci posteriori allontanarsi nel traffico.
Camminò fino al fiume, rimanendo nelle vie principali, non avendo nessun desiderio delle viuzze di El Arenal, dei turisti e del loro buonumore; sul puente San Telmo si fermò a metà strada, colpito dalle pubblicità sui palazzi di appartamenti della plaza de Cuba. Tío Pepe, Airtel, Cruzcampo, Fino San Patricio: sherry, telefoni e birra, ecco la Spagna di oggi, non c'è bisogno di altro.
Il fiume s'increspava, si spandeva sotto di lui. Gli venne in mente la prima moglie di Raúl Jiménez: la tortura di non sapere era stata atroce, insopportabile per una madre. Si chiese se lo avesse fatto da lì, dal punto in cui lui si trovava, poi ricordò ciò che aveva detto Consuelo Jiménez: una notte era scesa sulla sponda e si era buttata via. Immaginò lei galleggiare sulla corrente, l'acqua aprirsi per lambirle il viso, sfiorarle gli angoli degli occhi e la bocca finché non l'aveva ricoperta tutta. Poi il buio che tanto aveva agognato si era richiuso sopra di lei.
Trillo del cellulare. La stupidità di quel suono fu la benvenuta in mezzo alle sue divagazioni morbose. Portò il telefonino all'orecchio, udì il sibilo dell'etere e capì che era lui.
«
Nessuna risposta.
Aspettò, non volendo rompere l'incantesimo con parole superflue.
«Tu stai pensando, Inspector Jefe, che questa sia la tua indagine, ma dovresti sapere che io ho una storia da raccontare e, che tu lo voglia o no, me la lascerai raccontare.
XIV
Falcón si destò con il cuore che gli martellava nel petto, ancora sotto l'effetto dell'adrenalina. Controllò il polso: novanta. Buttò le gambe giù dal letto, esausto ancor prima di aver cominciato la giornata. Gli scottava il viso e aveva i capelli bagnati di sudore come se avesse corso tutta la notte o, meglio, tutta la mattina. Si era coricato alle quattro, non aveva voluto tornare a casa prima.
Pedalò per un'ora sulla cyclette e si convinse di stare meglio. Fece la doccia e si vestì. Là dentro il mondo esterno sembrava morto. Bevve un caffè e mangiò del pane tostato insaporito con aglio e olio, la colazione di suo padre. Salì nello studio e mise i diari in ordine di data, osservando che la qualità dei volumi diminuiva con il passare degli anni: la carta più sottile, le rilegature non più cucite ma incollate e tutto quanto più malmesso, pagine staccate, perfino. Anche la scrittura era diversa. La mano dei primi diari quasi non era riconoscibile per quella di suo padre, le lettere ammassate, gli spazi disuguali, le righe sbilenche, accenti e tildi apparentemente sparpagliati a casaccio. Una scrittura insicura, instabile, quasi da squilibrato. Nei diari successivi la mano era più uniforme, ma si era trasformata nella bella grafia che Javier conosceva soltanto dopo il trasferimento in Spagna, negli anni '60.
E qui avveniva un salto: un diario terminava con l'estate del 1959 a Tangeri e il successivo cominciava con il mese di maggio del 1965 a Siviglia. Ma tutto era accaduto in quell'intervallo, sua madre e la sua matrigna erano morte, suo padre aveva dipinto i nudi Falcón, era diventato famoso e aveva lasciato il Marocco. Mancava il diario cruciale; ma in quale modo avrebbe dovuto usare le sue tecniche di poliziotto per ritrovarlo?
Era quasi l'una ed era atteso a colazione alla
Squillò il cellulare e sua sorella Manuela gli ricordò di passarla a prendere, lamentandosi subito dopo perché Paco l'avrebbe fatta lavorare prima di pranzo, e Javier le espresse la sua comprensione, ma senza ascoltare. Quante interferenze dalle inezie della vita!
Lasciarono la città con un sole splendente e si diressero a nord sulla strada di Mérida. Una volta sulla pianura ondulata e verdeggiante, la tensione di Javier si allentò; le pressioni della città, le vie strette, la folla, le orde di turisti, la difficoltà crescente delle indagini, si lasciò tutto alle spalle. Non aveva mai invidiato a Paco il suo amore per la vita semplice, gli spazi, i tori al pascolo nei prati, ma dall'assassinio di Raúl Jiménez in poi, la città, invece di affascinarlo, lo spaventava. Non era la prima volta che s'imbatteva in una processione notturna con la Vergine illuminata dalle candele, anzi, gli era capitato anche subito dopo essersi allontanato dalla scena di un delitto, ma la cosa non lo aveva turbato affatto. Non si era mai identificato con quella che giudicava la folle Mariolatria della città, eppure, due volte in due giorni, era rimasto sconvolto da ciò che in effetti era solo un manichino su una piattaforma portata a spalla; e la sera prima si era lasciato letteralmente prendere dal panico. Il bisogno di allontanarsi da tutto ciò o, meglio, di superarlo, era frutto dell'istinto, non vi era nulla di razionale nel suo comportamento. Scosse il capo e si rilassò sul sedile mentre l'auto attraversava il tranquillo paese di Pajanosas, di un bianco abbagliante.
Non appena arrivata alla
Lo trovarono da solo sotto un leccio, un toro adulto che era stato già venduto per la Feria di quell'anno. Paco mise il proiettile in canna e lo colpì all'anca. Il toro partì al trotto tra gli alberi e l'auto lo seguì, finché l'animale non si fu sdraiato sull'erba in una radura soleggiata, confuso dalla debolezza che sentiva nelle zampe posteriori. Scesero tutti dalla macchina e, mentre si avvicinavano, il toro tornò ad alzare il muso, ritrovando un resto di forza nei muscoli del collo possente. L'occhio primordiale li fissò e per un istante Javier vide dentro la testa dell'animale: non riconobbe la paura, soltanto un'immensa percezione della propria potenza, consumata a poco a poco dal tranquillante.
La testa ricadde sull'erba. Manuela disinfettò la ferita, applicò un paio di punti, praticò un'iniezione di antibiotico e prelevò un campione di sangue. Paco, parlando in continuazione, teneva strette le corna dalla punta liscia e aguzza, guardandosi intorno per vedere se vi fossero tori aggressivi in giro. Javier batté qualche colpetto affettuoso sul fianco dell'animale intontito e all'improvviso desiderò possedere quel potente senso di sé che il toro gli aveva rivelato per un attimo. Era la complessità a rendere gli uomini così fragili. Se soltanto riuscissimo a essere concentrati come quel toro, così consapevole della sua potenza, pensò, invece di avere sempre davanti agli occhi le nostre assillanti, patetiche esigenze…
Manuela iniettò uno stimolante all'animale e tutti e tre si ritirarono sulla Land Rover. Il muso si rialzò e l'animale cominciò immediatamente a recuperare le forze, avvertito dall'istinto del pericolo che correva rimanendo in quella posizione. Sulle quattro zampe ora, si concentrò, si costrinse a muoversi e, al trotto, scomparve tra gli alberi.
«Un esemplare fantastico», disse Paco. «Sarà guarito completamente per la Feria, vero, Manuela?»
«Avrà ancora la ferita, ma saprà farsi valere.» «Non devi perderlo, Javier. Lunedì 23 aprile sarà a La Maestranza e non c'è nessuno, nemmeno José Tomás che possa avere la meglio su quel toro», disse Paco. «Pepe ha saputo qualcosa?»
«Ancora niente.»
«Avrà la sua occasione, tra qui e la Feria qualcuno dovrà essere sostituito per forza, è una questione di numeri.»
Consumarono un pranzo a base di agnello, arrostito nel forno di mattoni che Paco aveva restaurato nella proprietà e dove veniva cotto il pane. Gli invitati erano una vera folla, suoceri, zii, zie, la moglie di Paco e i quattro bambini. Javier dimenticò se stesso nella riunione di famiglia e bevve una gran quantità di vino rosso, più del consueto. Dopo pranzo andarono tutti a riposare e Manuela dovette svegliare Javier che dormiva, immobile come un idolo caduto.
Stava scendendo la sera quando si avviarono all'auto, Javier ancora intontito. Paco gli teneva il braccio intorno alle spalle. Gli addii furono prolungati.
«Lo sapevate che papà era stato nella Legione?» domandò Javier.
«Quale Legione?» chiese Paco.
«
«Non lo sapevo», disse Paco.
«Ah!» esclamò Manuela. «Stai sgombrando lo studio. Mi domandavo quando ti saresti deciso, fratellino.»
«Sto solo leggendo certi diari che ha lasciato, tutto qui.»
«Non ci ha mai parlato di quello… della Guerra civile», osservò Paco. «Non ricordo di avergli mai sentito dire nulla sulla sua vita prima di Tangeri.»
«Fa anche menzione di un incidente…» disse Javier. «Qualcosa che sarebbe successo quando aveva sedici anni e che lo avrebbe costretto ad andare via di casa.»
Fratello e sorella scossero la tesa.
«Ce lo dirai,
«Ce ne sono centinaia. Scegliete pure.»
«Centinaia?»
«Centinaia di ognuno.»
«Non sto parlando di copie», obiettò Manuela.
«Nemmeno io… sono tutti 'originali', tutti dipinti da lui.»
«Spiegati meglio, fratellino.»
«Non ha fatto altro che dipingerli all'infinito, cercando di ritrovare… non so, il segreto dell'opera originaria. Sono tutti senza valore e lui lo sapeva, per questo voleva che fossero distrutti.»
«Se è stato papà a dipingerli, non possono essere senza valore», protestò Manuela.
«Non sono nemmeno firmati.»
«A questo si può rimediare», affermò Manuela. «Come si chiamava quell'orrendo individuo di cui si serviva? Un eroinomane, mi pare. Abitava dalle parti dell'Alameda.»
I due fratelli la fissarono, Javier ricordando le parole della lettera di suo padre. Manuela restituì lo sguardo, gli occhi scintillanti.
«Eh!
Javier non provò nemmeno a domandare se sapessero come mai il loro cognome fosse Falcón, cioè il cognome della loro madre da ragazza, invece di González, come sarebbe stato corretto. I diari avrebbero chiarito anche questo, Paco e Manuela non sapevano nulla.
Guidò Manuela fino a Siviglia, con Javier sprofondato in un angolo del sedile, appoggiato alla portiera. Man mano che la città invisibile si avvicinava, la tensione andava crescendo in lui, la paura si apriva una strada nelle sue viscere. La vaga luminosità arancione comparve nel cielo e Falcón si ritirò dentro la sua testa, nelle vie strette della mente, negli oscuri vicoli senza uscita dei pensieri incompiuti, nelle
Tornato a casa in calle Bailén, andò dritto in cucina e bevve a collo dalla bottiglia di acqua gelida presa dal frigo. Il campanello della porta. Erano le nove e mezzo di sera, nessuno veniva mai a trovarlo a quell'ora.
Andò ad aprire. La signora Jiménez era in piedi a due metri di distanza dal portone, come se ci avesse ripensato.
«Stavo andando a prendere il mio bagaglio all'hotel Colón», spiegò. «Mi sono ricordata che lei abitava da queste parti e ho provato a vedere se era in casa.»
Una coincidenza notevole, considerando che era rientrato in quel momento.
La fece accomodare. Gli parve pettinata in modo diverso, un'acconciatura meno strutturata. Indossava un tailleur di lino nero e ciabattine di raso rosso con i tacchetti che alleggerivano quella tenuta da vedova. La donna si diresse per prima verso il patio e Falcón si avviò dietro di lei, lo sguardo sui talloni nudi e sulle gambe dai muscoli che si contraevano a ogni passo.
«Vedo che conosce la casa», osservò.
«Conosco soltanto il patio e la stanza dove suo padre mostrava i suoi lavori», spiegò la signora Jiménez. «Non ha fatto cambiamenti, mi pare.»
«Perfino i quadri sono rimasti dov'erano», disse lui, «dove li aveva esposti l'ultima volta. Encarnación li spolvera. Dovrei staccarli… sistemare le cose.»
«Mi meraviglia che non l'abbia fatto sua moglie.»
«Ha tentato. Ma io non mi sentivo ancora pronto allora, capisce, non ero pronto a spogliare completamente la casa della sua presenza.»
«Una presenza formidabile.»
«Sì, qualcuno ne era intimidito, ma non lo avrei detto di lei, signora Jiménez.»
«Sua moglie, però, forse si sentiva in soggezione… o sopraffatta. Sa, a una donna piace sistemare la casa in modo da sentirla sua e soffre un po' se…»
«Vuole dare un'occhiata?» domandò Falcón, avanzando nel patio, poco disposto a permetterle intrusioni nella sua vita privata.
Il ticchettio sexy dei tacchi risuonò sulle vecchie lastre di marmo intorno alla fontana. Falcón aprì la porta a vetri e, accesa la luce, la invitò a entrare, notando l'immediato stupore allarmato sul suo viso.
«Che c'è?» domandò.
Consuelo Jiménez fece lentamente il giro della stanza, osservando ogni dipinto, dalle cupole e i contrafforti della Iglesia de El Salvador all'Ercole sulla colonna dell'Alameda.
«Sono tutti qui!» esclamò guardandolo, stupefatta.
«Che cosa?»
«I tre quadri che ho comprato da suo padre.»
«Ah.» Falcón non fece mostra d'imbarazzo.
«Mi aveva detto che si trattava di originali.»
«Lo erano… quando li ha venduti.»
«Non capisco», disse lei, stringendosi la giacca alla vita, seccata ora.
«Mi dica, signora Jiménez, quando mio padre le ha venduto i quadri… prima le aveva offerto qualcosa da bere, qualche
«È
«E lei ci è cascata tre volte?»
«Certo che no. Ha detto così la prima volta…»
«Ma è stato proprio quello il quadro che ha comprato, no?»
La signora Jiménez lo ignorò. «La volta dopo mi ha detto: 'Questo è troppo costoso per lei'.»
«La volta dopo ancora?»
«'La cornice è assolutamente sbagliata… non potrei mai venderglielo.'»
«E ogni volta lei ha comprato i dipinti che secondo mio padre non avrebbe dovuto o potuto comprare.»
La donna batté il piede per terra, furiosa per l'umiliazione a posteriori.
«Non si inquieti così, signora Jiménez», cercò di consolarla Falcón. «Nessun altro possiede i quadri che le appartengono, lui non era né stupido, né sbadato. Era solo un giochetto che lo divertiva.»
«Gradirei una spiegazione», disse la donna e Falcón si rallegrò di non essere un suo dipendente.
«Io posso dirle soltanto come andavano le cose, non sono mai stato certo del perché lo facesse», rispose Javier. «Non partecipavo mai ai suoi ricevimenti, rimanevo in camera mia a leggere gialli americani. Dopo che gli ospiti se n'erano andati, mio padre, che a quel punto era regolarmente ubriaco, spalancava la porta della mia stanza, che io dormissi o no, e gridava: 'Javier!', sventolandomi un fascio di banconote in faccia. Il suo incasso della sera. Se ero già addormentato borbottavo qualcosa di incoraggiante, se ero ancora sveglio gli facevo un cenno col capo al di sopra del libro. Poi lui andava dritto nello studio e dipingeva lo stesso identico quadro che aveva appena venduto. La mattina dopo era già incorniciato e appeso al muro.»
«Che individuo strano!» commentò lei, disgustata.
«Una volta sono stato a guardare mentre dipingeva quello là, il tetto della cattedrale. Sa quanto tempo ha impiegato?»
La signora Jiménez osservò il dipinto, una serie enormemente complicata di contrafforti volanti, di mura, di cupole eseguite con energia cubista.
«Diciassette minuti e mezzo», disse Javier. «Mi aveva chiesto di cronometrarlo. Era ubriaco e sotto l'effetto della droga in quel momento.»
«Ma qual era il punto?»
«Il cento per cento di utile di quella sera.»
«Ma perché un uomo come lui avrebbe dovuto…? Voglio dire, è assolutamente ridicolo. Erano cari, ma non credo di aver pagato più di un milione per nessuno dei tre. Che cosa cercava di fare? Aveva bisogno di quei soldi o qualcosa del genere?»
Silenzio mentre un vento caldo faceva il giro del patio.
«Le piacerebbe riavere i suoi soldi?» domandò Falcón.
La donna distolse lentamente lo sguardo dal quadro, girandosi verso di lui e fissandolo.
«Non li ha mai spesi», spiegò Falcón. «Nemmeno una peseta. Non li ha nemmeno depositati in banca. Sono tutti in una scatola di detersivo vuota nel suo studio.»
«E che cosa significa tutto questo, Don Javier?»
«Significa… che forse non dovrebbe prendersela tanto con Francisco Falcón, perché, in fondo, ciò che faceva danneggiava prima di tutto lui stesso.»
«Posso fumare?»
«Certamente. Usciamo sul patio, le porto qualcosa da bere.»
«Un whisky, se ce l'ha. Ho bisogno di qualcosa di forte dopo questa sorpresa.»
Si accomodarono sulle sedie di ferro battuto davanti a un tavolino di mosaico sotto l'unica lampada, sorseggiando il whisky. Falcón le chiese notizie dei bambini, lei rispose, la mente altrove.
«Sono andato a Madrid venerdì», disse Javier. «A parlare con il figlio maggiore di suo marito.»
«Lei è molto scrupoloso nelle indagini, Don Javier», osservò la donna. «Non sono abituata a tanto rigore professionale dopo tutti questi anni di vita tra gli indigeni.»
«Sono particolarmente scrupoloso, quando il caso mi affascina.»
La donna accavallò le gambe, flettendo le dita del piede sotto la fascia di raso rosso della ciabattina puntata verso di lui. Gli suggerì l'impressione di una donna che ci sapesse fare a letto e fosse molto esigente, ma che sapesse anche ricompensare. Pensieri lascivi seguirono i pensieri oziosi ed egli la vide davanti a sé, in ginocchio, con la gonna nera tirata su fino alle anche, la testa girata per guardarlo al di sopra della spalla. Scosse la testa, poco abituato a quelle fantasticherie incontrollate che gli si scatenavano nella mente. Compì uno sforzo consapevole per dominarsi, concentrandosi sul ghiaccio nel bicchiere.
«Voleva sapere perché Gumersinda si è suicidata», disse la signora Jiménez.
«Mi interessava l'infelicità abietta di suo marito, come l'ha definita lei, che deve essere stata anche l'infelicità di Gumersinda al momento della sua morte. Volevo sapere che cosa aveva potuto causare una tale devastazione.»
«I poliziotti sono tutti come lei?»
«Siamo persone… ognuno di noi è diverso dall'altro», rispose Falcón.
«Ha trovato ciò che cercava?»
Ascoltando il resoconto della sua conversazione con José Manuel, Consuelo Jiménez perse la sua baldanzosa sensualità. La ciabattina, che era stata così vicina al ginocchio di Falcón, fu ritirata e andò a raggiungere la sua compagna sul pavimento di marmo del patio. Quando Javier ebbe finito, soltanto le spalline della giacca nera avevano conservato una forma precisa. Falcón versò altro whisky.
«
«Stavo pensando la stessa cosa», disse la signora Jiménez.
«La sua ossessione per la sicurezza.»
«Avrei dovuto scoprire ciò che Raúl aveva fatto, non avrei dovuto rinunciare. Avrei dovuto sapere tutto questo per capirlo, per capire i suoi… moventi.»
«E se avesse dovuto dedicare tutta la vita a questa impresa?»
La signora Jiménez si accese un'altra sigaretta.
«Crede che abbia qualcosa a che vedere con l'omicidio?»
«Ho chiesto al figlio di Raúl se, secondo lui, Arturo potesse essere ancora vivo», disse Falcón.
«E tornato per vendicarsi? È assurdo. Sono certa che quel povero bambino è stato ammazzato.»
«Perché? Io sono altrettanto certo che potrebbero averlo utilizzato… per annodare tappeti o qualcosa del genere.»
«Come uno schiavo? E se fosse fuggito?»
«È mai stata in un posto come Fez?» le domandò Falcón. «Immagini Siviglia senza i suoi edifici più importanti, senza le piazze e il verde, e comprima tutto quanto in modo che le vie divengano più strette, le case quasi si tocchino in alto e poi metta la città a rosolare in modo che ogni cosa si sgretoli, moltiplichi questo per cento, sottragga mille anni dalla data di oggi e questa è Fez. Si può entrare nella medina da bambini e uscirne vecchi senza averne percorso tutte le strade. Se mai fosse riuscito a fuggire senza essere ripreso, dove avrebbe potuto andare? Chi è? Dove sono i suoi documenti? Non appartiene a nessun luogo e a nessuno.»
Consuelo rabbrividì di fronte a quel pensiero terribile.
«Così è questo che sta cercando?»
«I poliziotti di alto grado, intendo dire i capi che amministrano i fondi per mandare avanti la polizia, hanno una vera avversione per la fantasia. Mi occorrerebbe ben più di una registrazione del colloquio con José Manuel per convincerli a dare il via a una caccia all'uomo», rispose Falcón. «Dobbiamo essere più terra terra, con meno immaginazione, perché tutto ciò che facciamo finisce davanti al magistrato e i magistrati detestano le storie fantasiose nei loro tribunali.»
«E allora che cosa farà?»
«Indagherò sulla vita di suo marito per vedere se salta fuori qualcosa. Lei potrebbe essermi di aiuto.»
«Questo mi depennerebbe dalla lista dei sospettati?»
«No, finché non avremo trovato l'assassino. Ma potrebbe farmi risparmiare molto tempo, dato che devo orientarmi in quasi settantotto anni di vita.»
«Posso aiutarla soltanto per gli ultimi dieci.»
«Be', questo comprende un periodo in cui era un uomo in vista… l'Expo '92.»
«La commissione per gli appalti», disse la signora Jiménez.
«C'è anche il fenomeno interessante delle pesetas 'sporche' che vogliono diventare euro 'puliti'.»
«Sono sicura che saprà già tutto sul settore della ristorazione.»
«Le frodi fiscali non mi interessano, Doña Consuelo. Quello non è il mio campo, io devo occuparmi di possibilità più drammatiche. Di cose, per esempio, che abbiano richiesto una grande fiducia e dove forse questa fiducia sia stata tradita e siano state perse delle fortune, siano state rovinate delle vite umane, lasciando gravi motivazioni per desiderare una vendetta.»
«Per questo lei si occupa di omicidi?» domandò Consuelo Jiménez, alzandosi.
Senza rispondere Falcón l'accompagnò alla porta, cercando di non ascoltare i tacchetti di lei battere in Morse la parola S-E-S-S-O sul pavimento di marmo.
«Chi l'ha presentata a mio padre?» domandò. Tattica diversiva.
«Raúl aveva ricevuto un invito e ha mandato me. Io avevo lavorato in una galleria d'arte, così ha pensato che me ne intendessi.»
«È lì che ha conosciuto Ramón Salgado?»
Il ticchettio si interruppe per un istante.
«Era stata la sua galleria a mandare l'invito, era stato Ramón ad accogliere gli invitati e a fare le presentazioni.»
«Le ha parlato lui della sua straordinaria somiglianza con Gumersinda?»
La donna batté le palpebre, come se avesse dimenticato la confidenza che le era sfuggita. Falcón aprì la porta sul corto vialetto d'accesso acciottolato e fiancheggiato da aranci, che immetteva sulla calle Bailén.
«Sì, è stato lui», rispose Consuelo. «Venire qui stasera mi ha fatto ricordare ogni cosa. Avevo suonato, ma Salgado stava parlando con qualcuno che aveva appena fatto entrare, perciò non si era girato verso la porta nell'aprirla, ma quando i nostri sguardi si sono incontrati io ho capito che era assolutamente allibito. Credo perfino che mi abbia chiamato Gumersinda, ma forse questa è un'esagerazione della memoria. Comunque sia, ricordo che al momento dei drink me l'aveva già detto, con il risultato di farmi bere troppo, tanto che ho parlato e parlato come un'idiota con Falcón che desideravo conoscere da una vita.»
«E così Ramón e suo marito si conoscevano dal tempo di Tangeri?»
Un'altra cosa che lei non ricordava di aver detto.
«Non ne sono sicura.»
Si strinsero la mano. Falcón seguì con lo sguardo le sue gambe che si allontanavano verso calle Bailén. Richiuse il portone e andò dritto nello studio.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
XV
Un'altra sveglia a ventimila volt, come se avesse avuto un attacco di cuore e fosse stato riportato in vita dal defibrillatore. L'orologio gli comunicò che erano le sei, il che significava un sonno di un'ora e mezzo, o meglio, non un sonno, ma una specie di morte. Il cervello: strano organo che lo teneva sveglio con pensieri tormentosi su suo padre, sulla Guerra civile, sull'arte, sulla morte… e poi, proprio quando stava per rinunciare alla possibilità di riuscire mai più a dormire, buio totale. Nessun sogno. Nessun riposo, ma un attimo di respiro. Il cervello, incapace di sostenere più a lungo quel farfugliare incessante, aveva abbassato la saracinesca.
Con il cuore in tumulto, si trascinò alla cyclette e cominciò a pedalare finché non ebbe la sensazione di essere inseguito, tanto che si girò a guardarsi alle spalle. Si fermò e, smontando dal sellino, si domandò se non gli facesse male, psicologicamente, sprecare tanta energia per non andare da nessuna parte. Una stasi agitata. Ma ne aveva bisogno, per acquietare quei pensieri ciclici. Ciclici? Sì, stava semplicemente facendo al corpo ciò che faceva alla mente. Corse sino al fiume e proseguì fino alla Torre del Oro e ritorno. Non incontrò nessuno.
Arrivò per primo in ufficio dopo aver guidato attraverso le vie silenziose, e sedette alla scrivania, desolato in quell'arredamento spartano e nel silenzio massiccio di cemento della Jefatura. Ramírez si presentò alle otto e trenta e Falcón lo accolse con la notizia della scomparsa di Eloisa Gómez. Controllò se fossero stati segnalati incidenti, ma l'attività era stata scarsa; dopo una settimana di appassionata Mariolatria e di baccanali Siviglia era troppo sfinita per avere la forza di sollevare un ricevitore.
Ramírez tirò fuori la busta che aveva ritirato dalla sezione informatica. Tutte le otto immagini del cameraman del cimitero erano là e l'operatore aveva reso più nitidi i due fotogrammi migliori. Ma non potevano comunque servire; gli occhi non si vedevano, il naso era in ombra sotto la visiera del berretto da baseball e la linea del mento era nascosta dal collo della giacca. Il colore e la grana dalla ristretta porzione di pelle visibile non erano distinguibili. L'operatore del computer aveva mostrato le foto a un esperto di televisione a circuito chiuso, il quale aveva azzardato l'ipotesi che l'assassino fosse maschio, tra i venti e i quarant'anni.
«Non ci aiuterà», disse Ramírez, «ma almeno avremo qualcosa da servire sul piatto del Juez Calderón. Il nostro primo avvistamento dell'assassino… sempre meglio che nessun avvistamento.»
«Ma chi
«Siamo poi sicuri che per la vittima fosse uno sconosciuto?» domandò a sua volta Ramírez, assumendo il tono di Falcón.
«
«Allora credo che dovremmo far venire qui Consuelo Jiménez e metterla sotto torchio a proposito dell'avvistamento… stare a vedere se crolla», suggerì Ramírez. «È la sola persona che fosse vicina alla vittima, in possesso di tutte le informazioni e in possesso di un movente solido.»
«A questo punto preferisco lavorare
«Questo non conferisce a quella donna il controllo dell'indagine, Inspector Jefe?»
«Non proprio… perché noi svolgeremo altre indagini indipendenti. Lei ha trovato quel Joaquín López del Cinco Bellotas. Merita di essere interrogato. E Pérez può andare in Comune a cercare i nominativi delle aziende che hanno avuto contatti con la commissione per gli appalti dell'Expo '92. Fernández andrà all'ufficio Licenze e tirerà fuori dei nomi, e dopo potrà dare un'occhiata al dipartimento d'Igiene e ai vigili del fuoco e solo quando avremo controllato tutto, fino a quelli che frequentano i ristoranti per vendere fiori ai clienti che dimenticano di essere romantici, solo allora lasceremo in pace la signora Jiménez. Perciò lavoreremo con lei, ma dovrà sentire la nostra pressione sul collo.»
«E il racket locale?»
«Se si fosse trattato di questo, sarebbe stato incendiato uno dei ristoranti, non avrebbero torturato e ucciso il proprietario. Ma terremo gli occhi aperti.»
«La droga?» suggerì Ramírez. «Visto che abbiamo a che fare con un comportamento estremo, con una violenza da psicopatico…»
«Parli con la squadra narcotici, veda se Raúl Jiménez o qualcuno collegato con lui sia mai stato fermato o arrestato per spaccio.»
Gli altri uomini della squadra arrivarono nel quarto d'ora successivo e Falcón li mise al corrente, mostrò le immagini riprese dalla videocamera e li spedì a portare a termine una giornata di lavoro pesante e noioso. Si informò da Serrano sul cloroformio e sugli strumenti chirurgici; nessuna notizia dagli ospedali, che stavano ancora controllando le loro scorte. E stava proseguendo la ricerca nei laboratori. Poi mandò Baena alle Mudanzas Triana per interrogare i dipendenti e accertare che cosa avessero fatto il sabato mattina durante il funerale di Raúl Jiménez. Uscirono tutti. Falcón parlò lungamente al telefono con Calderón, che lo aveva chiamato, nonché con il Comisario Lobo. Normalmente quelle interminabili ripetizioni lo avrebbero irritato, ma quel giorno furono i suoi interlocutori a concludere per primi la telefonata. Subito dopo si dedicò alle sue scartoffie, cosa che non faceva mai il lunedì mattina, specialmente durante un'indagine. Uscì presto per andare all'appuntamento con la signora Jiménez, al ristorante.
Cominciarono col guardare il video dei partecipanti al funerale. La signora Jiménez diede un nome a tutti e spiegò il loro rapporto con suo marito. Non c'era niente di insolito tra la folla. Ricostruirono le ultime ventiquattr'ore di Raúl Jiménez e poi la sua ultima settimana, gli incontri, le colazioni di lavoro, i ricevimenti, le discussioni con l'impresa di costruzioni, con il vivaista che aveva progettato il giardino, con il tecnico dell'aria condizionata. Fornì un elenco di società con le quali il marito aveva trattato negli ultimi sei anni, persone che avevano avuto successo negli affari, altre che avevano fallito, altre ancora con le quali aveva interrotto i rapporti. Era difficile credere, dopo quanto aveva detto Ramón Salgado, che gli unici possibili nemici di Raúl Jiménez fossero i macellai, i pescivendoli e i fioristi che avevano perso le forniture ai ristoranti. Gli sguardi di Consuelo Jiménez al suo costoso orologio si fecero più frequenti e Falcón si decise a porre la domanda importante.
«Abbiamo controllato tutto tranne la commissione dell'Expo '92», disse. «Posso vedere i documenti sull'Expo?»
«Quali documenti?»
«I dati in possesso di suo marito.»
«Non sono qui», replicò la signora Jiménez, «e nemmeno a casa.» Chiamò la segretaria.
Falcón le rivolse la stessa domanda e ricevette una risposta ben preparata dalla donna, che guardava la signora Jiménez con l'aria di aspettarsi un aumento di stipendio. Quest'ultima cominciò a fargli fretta, a invocare la scusa dei figli. Falcón rimase seduto a guardarla mentre, in piedi accanto alla porta, tamburellava nervosamente sulla borsetta.
«Mi è stata molto utile», disse e lo pensava veramente, perché la visita calcolata di lei a casa sua la sera prima e la sua collaborazione selettiva di quella mattina gli avevano rivelato per la prima volta la possibilità che la volitiva Consuelo Jiménez si fosse trasformata, per ambizione, in una donna senza scrupoli.
Andò a casa per colazione. Encarnación gli aveva lasciato una grossa scodella di
Le mani erano sudate sul volante mentre tornava in ufficio, le viscere irritate per l'unto della
Sceso dall'auto, si asciugò gli occhi e si riscosse, entrò nel bar più vicino e ordinò qualcosa che non beveva mai: brandy. Questo bevevano sempre nei film. Il grande riequilibratore del sistema nervoso. Il barman recitò dei nomi, Soberano, Fundador. «Uno qualsiasi», disse Falcón, e ordinò anche un
Il liquore gli spaccò in due i polmoni e per un attimo rimase senza fiato. Giocherellò con la tazzina del caffè, spaventato al pensiero che la mano sul bancone d'acciaio non fosse la sua. La scosse, piegò le dita, si tastò il viso. Il barman lo osservava, asciugando una fila di bicchieri.
«Un altro?» domandò.
Falcón annuì, incapace di credere a ciò che stava facendo. Il liquido ambrato fu versato nel bicchiere e Falcón invidiò la mano ferma del barman… ah, poter reggere una bottiglia sull'orlo di un bicchiere senza perderne totalmente il controllo. Trangugiò il secondo brandy, si scottò il palato con il caffè, sbatté una banconota sul banco e uscì.
Nel parcheggio della Jefatura si calmò, riuscì a rallentare il ritmo dei pensieri, strizzandosi la testa tra le mani. Nel suo ufficio era accesa la luce. Ramírez, le spalle alla finestra, stava leggendo un rapporto e lo commentava con qualcuno seduto davanti alla scrivania. Si accorse che la gente lo guardava in maniera strana mentre saliva le scale e deviò verso la toilette per controllarsi allo specchio. Aveva i capelli ritti e arruffati come un mare in tempesta, le guance colorite e gli occhi rossi, il colletto della camicia fuori dal bavero della giacca e il nodo della cravatta allentato. Il guscio si stava spezzando. Si inumidì il viso con l'acqua fredda, ma le viscere in subbuglio lo costrinsero a chiudersi in un gabinetto. Cibo avariato. Forse si trattava soltanto di questo, pensò disperatamente, la
Sentì aprire la porta della toilette e la voce di Ramírez.
«… per quel che ne so, se la starà pure scopando.»
«L'Inspector Jefe?» esclamò Pérez incredulo.
«Probabilmente è a terra per via del divorzio.»
Tacquero rendendosi conto che un gabinetto era occupato.
I due uscirono e Falcón si lavò le mani, restituì dignità al suo abbigliamento, si ravviò i capelli.
Gli altri erano nel suo ufficio, sulla scrivania il rapporto della scientifica.
«Niente di importante?» domandò.
«Niente che possa aiutarci», rispose Ramírez.
«Che cosa aveva da dire Joaquín López?»
«È stato molto interessante, specialmente a proposito della moglie», disse Ramírez, incapace di nascondere la sua antipatia per la signora Jiménez. «Sembra che le trattative fra Raúl Jiménez e il signor López fossero molto avanti, avevano discusso di tutto e si erano accordati sulla somma. Gli avvocati stavano già preparando il contratto.»
«E poi López ha visto Consuelo Jiménez e…» disse Falcón.
«Proprio così… ha visto la moglie. E lei non sapeva nulla della trattativa.»
«Probabilmente Raúl Jiménez pensava di essere padrone di vendere.»
«Sì. Era così infatti. Ma sia lui sia Joaquín López avevano sottovalutato il potere della signora. Sono andati a pranzo insieme per conoscersi, il signor López era rimasto impressionato dal modo in cui erano gestiti i ristoranti. L'arredamento, tutte le cose che faceva Consuelo Jiménez.»
«Non mi dica che le ha offerto un lavoro.»
«Ci stava pensando, l'incontro al ristorante era appunto per vedere se a lei sarebbe andata l'idea di continuare a occuparsi dei ristoranti o se il fatto di non essere più la moglie del proprietario avrebbe fatto una differenza.»
«E l'incontro è andato male?»
«Lei lo ha gelato immediatamente. Joaquín López ha capito che era stato già tutto deciso in precedenza, Raúl Jiménez era come un cane bastonato accanto alla moglie. Il signor López non si è nemmeno preso la briga di richiamare, aveva capito benissimo che l'affare era saltato.»
«E che interpretazione dà di questo fatto?» gli domandò Falcón.
«Credo che l'abbia ammazzato lei», rispose Ramírez. «Può pensare che abbia scelto un modo molto elaborato per farlo, ma è proprio questo il punto. Quella donna ha tanto successo nel lavoro perché sta attenta ai particolari, studia ogni dettaglio dal principio alla fine, non lascia niente al caso, si tratti di controllare che le cucine ricevano i prodotti giusti o di pianificare l'omicidio del marito.»
«Sa una cosa?» disse Falcón. «Sono d'accordo con lei. Credo che ne sia capace.»
Ramírez si sentì allargare il cuore. Andò alla finestra e guardò dall'alto il parcheggio come se avesse contemplato il suo regno.
«Ma potrebbe esserci qualcos'altro», riprese Falcón. «Apparentemente ha collaborato di sua spontanea volontà e lei e io abbiamo avuto un incontro proficuo questo pomeriggio, anche se mi ha detto molto poco. E quando le ho chiesto di farmi vedere i documenti relativi all'Expo '92, ne ha negato l'esistenza e ha indotto la segretaria a fare altrettanto.»
«Ma è follia», intervenne Pérez, «
«Un'altra cosa: Raúl Jiménez era un uomo d'affari di grande successo. Proveniva da una famiglia di contadini dell'Andalusia e a detta del figlio era privo di scrupoli nelle sue azioni. Al punto che trentasei anni fa gli rapirono il figlio minore, probabilmente per vendetta, e lui praticamente non collaborò con la polizia e lasciò la città con la famiglia. In seguito ha cancellato sistematicamente qualsiasi ricordo del bambino. Lo ha fatto perché si è trovato davanti a una scelta: perdere tutto o perdere tutto tranne la ricchezza e la posizione sociale.»
«Non sono sicuro di capire dove vuole arrivare, Inspector Jefe», disse Ramírez.
«Che cosa ha impedito a Raúl Jiménez di vendere i ristoranti?» domandò Falcón.
«La moglie.»
«Ma per questo la signora non aveva bisogno di eliminarlo fisicamente, non è vero? Anche se, con quello che sappiamo del marito, si potrebbe dedurre che non le restasse altra scelta.»
«Lo ha minacciato di rivelare tutto!» esclamò Pérez.
«Su un figlio rapito trentasei anni fa?» obiettò Ramírez. «
«Lei non ne sapeva nulla. L'ho informata io solo dopo aver parlato con José Manuel Jiménez», spiegò Falcón.
«E allora che cosa aveva in mano per ricattarlo?»
«Qualcosa che riguarda l'Expo '92», affermò Falcón. «Credo che nelle carte del marito abbia scoperto un livello di corruzione quale non si è mai visto nella storia economica della Spagna.»
«Ma perché nasconderlo, ormai?»
«Perché ha ottenuto ciò che voleva. I ristoranti», rispose Falcón. «Quelle carte potrebbero compromettere la sua posizione. Se saltasse fuori che era un corrotto, la cosa avrebbe un effetto negativo sull'attività e lei rischierebbe di perdere tutto.»
«Perciò la morte del marito le ha fatto molto comodo», osservò Ramírez.
«Ma non sarebbe stato più logico che fosse il marito a uccidere la moglie, dato il tipo che era?» domandò Pérez. «In quel modo avrebbe potuto evitare lo scandalo e vendere i ristoranti.»
«Si ammazza quando la logica va a quel paese», disse Ramírez, guardando Pérez come se fosse un traditore della causa.
«Facciamo un controllo completo del passato di Consuelo Jiménez… ufficiale e non», disse Falcón. «Ha parlato di una galleria d'arte di Madrid dove avrebbe lavorato e di una storia con il figlio di un duca finita con un aborto nel 1984.»
«È pulita, secondo i dati della polizia», ammise Ramírez. «Ho qualche contatto a Madrid che sta controllando in altro modo per vedere se ha avuto a che fare con la narcotici o con la buoncostume.»
«E la commissione per gli appalti?» si informò Falcón, e Pérez, posata una scatola sulla scrivania, cominciò a estrarre fasci di carte.
«Qui troverà i nominativi e gli indirizzi di tutte le società coinvolte in progetti edili di una certa importanza per l'Expo '92. Questo è un elenco delle aziende che hanno realizzato progetti di costruzioni al di fuori dell'area dell'Expo, progetti finanziati in tutto o in parte dallo stato. In genere si tratta di condomini di abitazione in aree residenziali dei dintorni, come Santiponce e Camas. Questa è una lista di tutte le ditte che hanno lavorato all'interno dei padiglioni: progettisti, elettricisti, tecnici del suono, dell'aria condizionata, piastrellatori… pavimentisti.»
«Che cosa vuole dirmi, Subinspector?» domandò Falcón.
«In questo librettino sono elencati tutti quelli che hanno lavorato nei padiglioni o che hanno rifornito i padiglioni, ristoranti, bar, negozi…»
A questo punto Ramírez si avvicinò alla scrivania, incombente, afferrandone il bordo.
«Senta, Inspector Jefe, non ignoriamo certo che cosa è successo. Si sono ingrassati tutti con l'Expo. Ma è una cosa di dieci anni fa e sappiamo bene come bastino pochi giorni, ore perfino, perché si cominci a confondere tutto. E noi che cosa cerchiamo? Cerchiamo il tizio che non ha fatto fortuna? E dove può essere? Vogliamo trovare quello che è stato fregato? Dove lo cerchiamo? E sarà poi in questi elenchi di aziende e di persone? E se fosse così, da dove cominciamo? Dalle industrie vetrarie? Dalle cave di marmo? Dalle fabbriche di piastrelle? Sarebbe un'impresa colossale anche per una squadra speciale anticorruzione, figuriamoci poi per noi sei del Grupo de Homicidios. Dovremmo avere una pista calda per poterci muovere a questo livello.»
Falcón si fece scrocchiare le dita a una a una. Era stato un bel discorso, ma non sembrava farina del sacco di Ramírez. Tanto per cominciare era stato un ragionamento serrato e la mente di Ramírez non funzionava in quel modo. Era un individuo impulsivo, reattivo, insistere per mettere Consuelo Jiménez sotto torchio sarebbe stato maggiormente nelle sue corde.
«Così voi due pensate che dovremmo costruire un caso contro Consuelo Jiménez?»
Ramírez annuì. Pérez si strinse nelle spalle.
«Quella donna è un osso duro», riprese Falcón, «e non credo che abbiamo un sufficiente numero di elementi contro di lei per farla sentire anche solo a disagio. Dobbiamo scavare più a fondo.»
«E farla sorvegliare?» domandò Ramírez.
«Al momento non posso giustificare la spesa. Ho bisogno di qualcosa di più contro di lei. La pista dell'amante si è rivelata un vicolo cieco e il movente di Joaquín López non è ancora abbastanza solido, anche se vale la pena di parlarne con il giudice Calderón.»
«Il signor López si è offerto di collaborare in ogni modo.»
«Ne sono certo.»
«E se a Madrid trovassero qualcosa su di lei… la farebbe sorvegliare?»
«Se fosse stata implicata in un altro caso di omicidio, sì. Se si trattasse di un furtarello in un negozio, no.»
«Per inchiodarla sul serio dovremmo trovare un collegamento tra la signora e il cameraman del cimitero», disse Pérez, osservazione che non fece progredire la discussione.
«Che cosa stava facendo quell'individuo al funerale?» domandò Falcón. «Dovete chiedervi questo come prima cosa. Aveva portato a termine il suo compito. Se ha agito su commissione, perché filmare la cerimonia?»
«Forse sta organizzando un piccolo ricatto», suggerì Pérez.
«Non è molto credibile, Subinspector.»
«Anche la scomparsa di Eloisa Gómez è poco credibile?» osservò Ramírez. «La moglie l'ha vista sul video che stavamo guardando dopo che avevano portato via il cadavere.»
«Io credo si tratti di una cosa tra l'assassino ed Eloisa…»
«Alla moglie potrebbe non essere piaciuta l'idea di un complice in libertà», suggerì Pérez.
«Provate a pensare perché l'assassino stia facendo questi giochetti con il cellulare di Eloisa Gómez», disse ancora Falcón. «Perché quella frase sulla storia da raccontare?»
«Quale frase?» domandò Ramírez.
«Ve l'ho riferita.»
«Ci ha riferito di 'Siamo vicini?' e 'Più vicini di quello che pensa'», disse Ramírez, «ma 'Una storia da raccontare' no, non ce l'ha mai detto.»
Falcón, stupito e imbarazzato, si preoccupò all'idea dei vuoti della sua memoria. Il brandy. Raccontò tutto ciò che era successo sul ponte.
«È una diversione», affermò Ramírez.
«È follia», disse Pérez.
«È difficile da comprendere comunque, ma, considerata insieme con la comparsa della videocamera al funerale, potrebbe significare che l'assassino agirà di nuovo», disse Falcón. «Dobbiamo avere la mente aperta, non possiamo escludere altre possibilità per concentrarci unicamente su Consuelo Jiménez.»
Ramírez cominciò a passeggiare nervosamente avanti e indietro. Falcón congedò i due uomini, ma richiamò Pérez.
«Voglio che faccia un paio di controlli in base a questi elenchi», disse Falcón. «Prenda i primi due e scopra quali di queste aziende esistono ancora. Poi trovi i nomi degli amministratori di quelle società tra il 1990 e il 1992. Solo questo, poi lasciamo cadere la cosa.»
XVI
Falcón non sopportava l'idea di restare solo e questo, per un uomo che amava vivere appartato come lui, era una bizzarra novità. Non appena Pérez fu uscito, venne preso dall'ansia, impaurito all'idea che qualcosa potesse accadere dentro la sua testa. Non si fidava più delle sue reazioni. Si sentiva come un vecchio che avesse notato i primi segni di demenza senile: momenti di confusione, assenze della memoria, incapacità di riconoscere cose semplici; e avvertì imminente la caduta libera verso il totale allontanamento dalla vita. Gli altri lo aiutavano a ritrovare un contesto, gli ricordavano la sua antica fiducia in se stesso. Non riuscì a concentrarsi sul rapporto della Policía Científica. Avvertì un'ondata di panico serrargli il petto e fu costretto a muoversi, camminando per la stanza a lungo per ricacciarla indietro.
Il pensiero della solitudine che lo attendeva dopo il lavoro, del problema di sopravvivere a un'intera notte prima di poter parlare con il suo medico, lo terrorizzò al punto da indurlo a telefonare al British Institute, per iscriversi di nuovo al corso di conversazione che l'anno precedente non era mai riuscito a frequentare. Si ritrovò così in una classe ad ascoltare affascinato l'insegnante scozzese parlare agli studenti di un recente trattamento laser che aveva subito agli occhi. Laser nell'occhio? Non riusciva nemmeno a pensare a una cosa simile.
Dopo la lezione andò a bere e a mangiare
Rientrò all'una, stanchissimo. Uno sfinimento che non aveva mai sperimentato prima, un affaticamento strutturale, profondo, come di un antico ponte che avesse resistito a intere epoche di traffico e lottato contro incessanti valanghe d'acqua. Gli tremavano le gambe, le articolazioni scricchiolavano eppure, dentro la testa, la cosa che era nascosta nel cervello stava all'erta come un animale notturno. Si issò con uno sforzo tremendo fino alla camera da letto, come un garzone di macellaio con una carcassa di manzo sulle spalle.
Sulla pelle le lenzuola erano fredde come una lozione mentre si coricava nudo, per la prima volta da quando era ragazzo. Le palpebre si abbassarono, pesanti come macigni.
E il sonno non venne.
Affiorarono immagini agghiaccianti, facce orribili che non era possibile concepire e che tuttavia erano lì, nella sua mente. Ogni volta che il cervello sbandava nel buio come una barca, si ripresentavano e lo facevano sobbalzare. Si contorse per un po' sotto le lenzuola, poi accese la luce e si premette i pugni contro gli occhi. Non gli sarebbe importato strapparseli, se ciò avesse voluto dire accecare anche gli occhi della mente. Gli occhi della mente. Odiava quell'espressione. L'aveva odiata anche suo padre. Per questo la odiava
Gettate via le coperte, uscì barcollando dalla stanza, accecato dalle lacrime. Nella galleria tentò di riprendersi, di ritrovare la calma camminando avanti e indietro. Afferrò la ringhiera, guardò in basso nel patio, vide la pupilla nera che lo fissava dal centro della fontana e pensò che avrebbe potuto scavalcare la balaustra e tuffarsi sulle lastre di marmo, far schizzare via il cervello in un ultimo ruggito cacofonico e poi il silenzio. Finalmente la pace.
Un'idea troppo attraente. Si costrinse a forza a staccarsi dalla ringhiera e a procedere incespicando giù per le scale fino a raggiungere lo studio. Aprì l'armadietto dei liquori, pieno di bottiglie di whisky, la bevanda preferita di suo padre. Stappò la prima che gli venne a tiro e bevve a lungo, a collo. Sapore di carbone bagnato, ma il calore di una brace sotto la cenere.
Lo specchio lungo lo aggiornò sul suo aspetto orrido: nudo, tremante, i genitali raggrinziti, la faccia rigata di lacrime, entrambe le mani intorno alla bottiglia, come se questa potesse farlo arrivare a riva, perché così si sentiva, sperduto su un mare dalle onde alte come montagne, senza speranza di un approdo. Bevve ancora una sorsata di quell'asfalto liquido e si lasciò cadere in ginocchio, piangendo, se così poteva essere definito quell'enorme sussulto che lo torceva, quasi il suo corpo cercasse di vomitare qualcosa di più grosso di lui. Bevve di nuovo il catrame liquido, lo scolò, poi cadde all'indietro e la bottiglia rotolò sul pavimento, l'etichetta sgargiante si allontanò dalla sua vista. Un rutto di bitume, poi un buio rilucente dal quale si lasciò spalmare come se egli stesso fosse nero asfalto appena gettato su un tratto di strada.
Al suo risveglio fuori albeggiava. Provava la sensazione di essere stato schiacciato da un rullo compressore, tutte le articolazioni dolenti, le ossa rotte, i lineamenti distorti. Giaceva in una pozza di urina, tremante per il freddo, le gambe che pungevano. Pulì il pavimento e salì al piano superiore per accasciarsi sotto la doccia, accucciato sulla pedana. Era ancora ubriaco e i denti in bocca parevano ciottoli.
Gocciolante, si trascinò fino al letto, si tirò le coperte sopra la testa. Dormì e fece di nuovo il sogno del pesce. Era quasi bello guizzare nell'acqua verdeazzurra, ma la libertà dell'istinto perfetto era impedita dalla torsione improvvisa e violenta, dallo strattone nelle viscere che lo stava rivoltando come un guanto.
La luce selvaggia gli penetrò nella testa, punte d'acciaio lampeggiarono, scintillarono nel cranio buio. Si sentiva gli organi delicati come porcellana. Gli si mozzò il fiato per il dolore quasi estatico dell'ubriachezza.
Un'ora e mezzo più tardi, lavato, sbarbato, vestito e pettinato accuratamente, si sedeva di fronte ai medico, esitante come un uomo afflitto da emorroidi elefantesche.
«Javier…», esclamò il dottore, rimanendo all'istante senza parole.
«Lo so, dottor Fernando, lo so», disse Falcón.
Fernando Valera era figlio del medico di suo padre e aveva dieci anni più di lui, ma sembrava che le ultime settimane avessero livellato le loro età. I due uomini si conoscevano bene, tutti e due
«Venerdì ti ho visto in mezzo a una folla di gente alla estación de Santa Justa e avevi un aspetto del tutto normale», disse il dottor Valera. «Che cosa ti è successo?»
La dolcezza del tono di voce emozionò Falcón, che dovette ricacciare indietro le stupide lacrime affiorate al pensiero di essere finalmente arrivato in un rifugio dove qualcuno si sarebbe preso cura di lui con affetto. Descrisse i sintomi fisici, il senso di ansia, il panico, il battito furioso del cuore, l'insonnia. Il medico gli rivolse qualche domanda sul suo lavoro, fu menzionato il caso Raúl Jiménez, che il dottore aveva appreso dai giornali, e Falcón ammise che era stata la vista del volto di quell'uomo a produrre in lui quella specie di reazione chimica.
«Non posso riferire i particolari, ma aveva a che fare con i suoi occhi.»
«Ah, sì, tu sei molto sensibile per tutto ciò che riguarda gli occhi… come lo era tuo padre.»
«Davvero? Non lo ricordo.»
«Suppongo che sia del tutto naturale per un pittore preoccuparsi della vista, ma negli ultimi dieci anni della sua vita tuo padre aveva sviluppato una vera… sì, la parola è questa, una vera ossessione per la cecità.»
«L'idea della cecità?»
«No, no, temeva di diventare cieco, era sicuro che sarebbe diventato cieco.»
«Non lo sapevo.»
«Mio padre aveva cercato di liberarlo da quell'ossessione scherzandoci su, dicendogli che così facendo avrebbe rischiato la cecità isterica. Francisco era terrorizzato all'idea», soggiunse il dottore. «Però, Javier… noi siamo qui per parlare di te. A mio giudizio questi sono i classici sintomi di uno stress acuto.»
«Non sono mai stressato. Faccio questo lavoro da vent'anni e non ho mai sofferto di stress.»
«Hai quarantacinque anni.»
«Questo me lo ricordo.»
«È a quest'età che l'organismo comincia ad avvertire i primi segni di cedimento. Il corpo e la mente. Le pressioni sulla mente creano i sintomi nel corpo. Ne vedo continuamente di questi casi.»
«Perfino a Siviglia?»
«Forse ancora di più a
Falcón si chiese se il dottore avesse parlato così per consolarlo del fatto di essere impazzito.
«Stavo cominciando a pensare di essere completamente matto», ammise.
«Tu sei sottoposto a una pressione molto particolare, ti trovi coinvolto nei momentanei crolli che periodicamente si manifestano della nostra civiltà, quando le condizioni diventano intollerabili e il filo si spezza. E tu devi affrontarne le conseguenze. Non è un'impresa facile. Forse dovresti parlarne con qualcuno… qualcuno che conosca dall'interno il tuo lavoro.»
«Lo psicologo della polizia?»
«È lì per questo.»
«Entro un'ora tutti saprebbero che Javier Falcón sta dando i numeri.»
«Non esiste il segreto professionale?»
«Si viene a sapere sempre tutto. Alla Jefatura è come vivere in una caserma o in un collegio, tutti sanno che stai lasciando la tua ragazza ancor prima che lo sappia tu stesso.»
«Parli per un'esperienza dolorosa, Javier.»
«Nel mio caso è stato ancora peggio. Essendo Inés una
«Allora non vuoi consultare lo psicologo della polizia?»
«Voglio qualcosa di più privato. Non m'importa pagare. Forse è giusto, forse parlarne potrebbe aiutarmi.»
«Non è facile trovarlo e poi nella scienza della mente gli approcci sono molti e diversi. Qualcuno percepisce la cosa unicamente come una condizione clinica, uno squilibro chimico che deve essere normalizzato con i farmaci. Altri usano farmaci e psicoterapia, con un approccio teorico fondato, diciamo, su Jung o Freud, tra gli altri.»
«Avrei bisogno di un consiglio.»
«Io posso dirti soltanto che il tale è un bravo psicologo, che il talaltro ha un approccio esclusivamente farmacologico, che il tizio è un freudiano serio. Potresti non gradire i loro metodi. Sai, il genere: 'Che cosa c'entra la mia
«Credi ancora che dovrei andare dallo psicologo della polizia?»
«Avresti anche il vantaggio della disponibilità.»
«Vorresti dirmi che nella
«Soffriamo tutti», disse il dottor Fernando. «Gli spagnoli, non solo i sivigliani, superano i loro problemi con…
«Sono depressi per costituzione», disse Falcón. «Si sono arresi alla condizione umana.»
«Non credo. Sono malinconici per natura, come i nostri galiziani, dopotutto hanno l'Atlantico da affrontare ogni giorno. Ma amano molto i piaceri della carne, sarebbero capaci di suicidarsi in massa se nel loro paese venisse abolito il pranzo, sanno mangiare, bere e godersi le belle cose.»
«Sì», convenne Javier, cominciando a essere interessato. «E gli inglesi? Mio padre aveva una grande ammirazione per gli inglesi. Come affrontano la vita? Sono così riservati, inibiti…»
«Be', fanno questo effetto a noi, ma tra di loro… credo che abbiano questa espressione:
«Proprio così», confermò Javier, «non prendono mai le cose troppo sul serio, sorridono di tutto, niente è sacrosanto per loro. Il famoso senso dell'umorismo degli inglesi. E i francesi?»
«Sesso. Amore. E tutto quello che porta a queste due cose.
«I tedeschi?»
«
«Gli italiani?»
«La moda.»
«I belgi?»
«Le cozze», dichiarò convinto il dottor Fernando e risero entrambi. «Non conosco nessun belga.»
«E gli americani?»
«Gli americani sono più complicati.»
«Hanno tutti il loro psicoterapeuta personale.»
«Sì, be', non è facile essere la nazione guida del mondo moderno, con la ricerca della felicità scritta nella costituzione», rispose il medico. «E sono un miscuglio di europei del Nord, di ispanici, di neri, di orientali. E forse è questo, forse hanno perso il contatto con le loro tradizionali valvole di sicurezza.»
«Una bella teoria. Dovresti scriverci un saggio.»
«Ti stai divertendo, Javier.»
«Sì», rispose Falcón alzando lo sguardo, con l'aria di domandarsi perché mai si trovasse lì.
«Forse dovresti uscire di più, lavorare meno, frequentare gente.»
«Vorrei comunque che tu mi trovassi qualcuno con cui parlare», tornò a insistere Falcón, il fardello di nuovo pesante sulle spalle.
Il dottor Valera annuì e scrisse una ricetta per un blando ansiolitico, l'Orfidal, e per qualcosa che lo aiutasse a dormire.
«Una cosa è certa, Javier», disse alla fine, porgendogli il foglio. «L'alcol non risolverà nessuno dei tuoi problemi.»
Falcón portò la ricetta in una farmacia in República Argentina e ingoiò una pillola di Orfidal con la saliva. Ramírez lo stava aspettando in ufficio con un pacchetto indirizzato all'Inspector Jefe Javier Falcón. Il pacchetto aveva il timbro postale di Madrid.
«È stato passato ai raggi X», disse Ramírez. «È una videocassetta.»
«Bisogna portarla alla scientifica e farla controllare.»
«Un'altra cosa che potrebbe essere interessante. Ieri ho mandato Fernández alle Mudanzas Triana per aiutare Baena a interrogare il personale e lui ha attaccato bottone con il caporeparto. È saltato fuori che Raúl Jiménez ha usato le Mudanzas Triana perché le aveva già utilizzate in passato. Hanno conservato in magazzino diversi suoi beni dai due ultimi traslochi.»
«La moglie ha detto che si sono trasferiti nell'Edificio Presidente a metà degli anni '80.»
«Da una casa a El Porvenir.»
«E prima Jiménez abitava in plaza de Cuba.»
«Da dove ha traslocato nel 1967.»
«Quando è morta la prima moglie.»
«Alle Mudanzas Triana, quando hanno messo il suo nome nel computer, hanno scoperto che avevano ancora delle cose sue in magazzino. Gli hanno chiesto se dovevano portarle nella nuova casa. Ha risposto di no, con molta veemenza. Allora gli hanno proposto di mandare tutto alla discarica, perché gli stava costando un bel po' di soldi e di nuovo lui ha detto di no.»
Ramírez se ne andò con il pacchetto. La mano di Falcón rimase sospesa per qualche momento sul telefono. Appoggiandosi allo schienale, rifletté su quell'informazione. L'Orfidal stava facendo effetto, si sentiva calmo e in grado di concentrarsi, anche se si rendeva conto di una lieve tendenza alla paranoia, a credere che Ramírez volesse distrarre la sua attenzione con un'informazione allettante ma infruttuosa. Aveva davanti a sé due possibilità: la prima era chiedere un mandato di perquisizione e questo avrebbe significato mettere nero su bianco come egli credesse nella possibilità che eventi di trentasei anni prima avessero a che fare con l'omicidio. Oppure avrebbe potuto chiedere la collaborazione della signora Jiménez, la quale, però, gli aveva già chiuso la porta in faccia sulla questione della commissione per gli appalti.
Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare. Il Juez Calderón voleva vederlo, aveva appena ricevuto la visita inaspettata del Magistrado Juez Decano de Sevilla, Alfredo Spinola. Si accordarono per incontrarsi prima di colazione all'Edificio de los Juzgados.
Ramírez tornò con la cassetta «ripulita» dalla Policía Científica. Insieme con la cassetta, un cartoncino stampato dove si leggeva: «Lezione di vista n. 1. Vedi 4 e 6». Il titolo della cassetta era
«Non era questo il titolo sulla custodia vuota nell'appartamento di Raúl Jiménez?» domandò Ramírez.
«Deve averla presa l'assassino», rispose Falcón. «E… 'Lezione di vista'?»
Andarono nella stanza degli interrogatori, dove c'era ancora il videoregistratore. Ramírez inserì la cassetta: musica metallica e brutta grafica, poi una serie di scenette, ognuna della durata di cinque o dieci minuti, nelle quali situazioni normali come cocktail, cene al ristorante, barbecue ai bordi di una piscina si disintegravano in improbabili orge di sesso di gruppo. La noia assalì immediatamente Falcón, la musica e le false estasi lo irritarono e cominciò a sentirsi di nuovo le mani sudate: l'effetto dell'Orfidal stava finendo. Respirò profondamente per mantenere la calma mentre Ramírez, sporgendosi in avanti, giocherellava con l'anello, facendo commenti tra sé, fischiando ogni tanto. Falcón uscì dal suo torpore soltanto una volta, durante l'ultima scena, poiché gli era parso che fosse quella sul videoregistratore di Raúl Jiménez quando era con Eloisa Gómez.
«Non so come fa a riconoscerla», obiettò Ramírez.
«Sono solo forme su uno schermo.»
Ramírez sorrise. La cassetta arrivò alla fine.
«E che cosa vuol dire 'Lezione di vista'?» domandò. «E che importanza ha che abbiano visto questo la sera in cui Jiménez è morto?»
«Quella era l'ultima di sei scene. Ci è stato chiesto di guardare la quattro e la sei.»
«L'abbiamo fatto.»
«Perciò non ha a che vedere con il fatto che fosse stata proiettata la sera del delitto.»
«E 'Lezione di vista'?» mormorò Ramírez.
«Ci vuole insegnare a vedere», spiegò Falcón. «Lui vede cose che nessun altro riesce a cogliere.»
«A me non sta insegnando niente», ribatté Ramírez. «E l'ho vista tutta quella roba.»
«Forse è proprio questo il punto. Che cosa si guarda in un film pornografico?»
«Si guarda quello che fanno.»
«Perciò in America li chiamano
«Che altro c'è da vedere?»
«Forse lui vuole dirci che c'è qualcosa di più. Non si tratta solo di genitali e di penetrazione, noi dimentichiamo che quelle sono persone vere con una faccia, con una vita propria», spiegò Falcón.
«Deve essere stato girato almeno vent'anni fa», osservò Ramírez. «Guardi i colletti delle camicie… io me li ricordo quei colletti.»
Falcón si concentrò sulle facce e mentre passava dall'una all'altra, studiando le bocche e gli occhi, si domandò che cosa inducesse a fare quel genere di film. Il denaro era un motivo sufficiente per abbandonare moralità, innocenza, riservatezza? Il suo sguardo si fissò su un paio di occhi assenti, su una bocca dai denti serrati, su una faccia smorta, senza vita, su labbra ironiche. Rabbrividì sotto il peso lento della piccola tragedia che si stava consumando sullo schermo. Si conoscevano tra loro quelle persone? Forse si erano incontrate la mattina e già il pomeriggio…
Una delle ragazze aveva i capelli neri, ricci. Non guardava mai la telecamera, fissava un punto davanti a sé oppure abbassava gli occhi sulla superficie del tavolo al quale era appoggiata, come se fosse solo una questione di tempo e poi si sarebbe ritrovata dall'altra parte di quell'esperienza. Stringeva il pugno con cupa determinazione. Se la telecamera avesse messo a fuoco i primi piani dei volti mentre una voce fuori campo raccontava la vita dei partecipanti, pensò Falcón, il film avrebbe potuto avere un certo valore documentario. Al di fuori del loro mondo temporaneo, quelle persone avevano qualcuno nella vita? Era possibile fare sesso con sette o otto estranei e poi tornare a casa per cenare con il proprio compagno o la propria compagna? O si doveva rinunciare a una vita personale per riuscire a fare quel lavoro?
Un'ondata di tristezza gli si riversò nel petto.
«Visto niente?» domandò Ramírez.
«Niente di importante. Non so che cosa stiamo cercando.»
«Forse questo
«Il gioco è suo e noi stiamo alle regole, perché ogni volta impariamo qualcosa su di lui. Passiamo alla numero quattro.»
Ramírez fece tornare indietro il nastro, premette
«La guardi bene», disse.
Era la ragazza con i capelli ricci e scuri e il pugno stretto che non guardava mai la telecamera.
«È una parrucca», disse ancora Ramírez.
La telecamera riprese il gruppetto lungo il corridoio fino alla festa che ormai si era trasformata in un'orgia scatenata: tutti nudi a darsi un gran da fare. I quattro nuovi arrivati, invece di scappare a gambe levate dall'appartamento, si univano ai bagordi.
«Eccola di nuovo», disse Ramírez.
Questa volta era nuda fino alla vita e, seduta su un divano, fissava il rigonfiamento nei pantaloni di un uomo. La telecamera le si avvicinò per riprenderla mentre allungava la mano verso la cerniera.
«Ha visto chi è?» domandò Ramírez.
«Incredibile.»
«Vero?» La soddisfazione di Ramírez era palpabile. «È più giovane e un po' più grassottella, ma senza ombra di dubbio è Doña Consuelo Jiménez.»
XVII
Di nuovo in ufficio. Falcón, seduto alla scrivania, contemplava la cassetta mentre Ramírez, in piedi davanti aña finestra, tamburellava con l'anulare sul vetro, guardando il parcheggio come se gli fosse stato chiesto di vendere tutte le auto entro la fine della settimana.
«Perlomeno sappiamo che non è vergine», osservò.
«Sa che cosa ha ottenuto l'assassino con questa?» disse Falcón sferrando un colpo alla cassetta che scivolò sull'altro lato della scrivania. «Ha ottenuto esattamente lo scopo che si era prefisso. Confondere tutto.»
«Lo scopo era di insegnarci qualcosa. Era una lezione di vista», protestò Ramírez, raddrizzando le spalle e scuotendo la testa in direzione delle automobili, un compito davvero impossibile.
«Provi a dirmi come si sente ora a proposito dell'accusa che sta costruendo contro Consuelo Jiménez.»
«Non so», rispose l'altro, voltando le spalle alla finestra, «questa cassetta in un certo senso la conferma e in un altro la distrugge.»
«Appunto. Dimostra che quella donna è capace di varcare i limiti, ma perché mai l'assassino, che si presume pagato e istruito da lei, perché mai dovrebbe mandare a noi questa registrazione?»
«A meno che non l'abbia mandata qualcun altro.»
«Senta: Lezione di
Ramírez attraversò la stanza, agitando il dito. «Lei dice che ha voluto confonderci, è così? Be', la signora Jiménez è sotto pressione, lei le ha parlato a lungo quasi quotidianamente dal giorno del delitto.»
«Pensa che sia stata lei a spedirci la cassetta o che l'abbia fatta spedire?»
«Consideri la nostra reazione», insistette Ramírez, «non riusciamo a credere che sia disposta a esporsi fino a questo punto. Ma rifletta, la signora è comparsa in un film pornografico vent'anni fa. Che gran cosa. Probabilmente aveva le sue ragioni, quasi certamente mancanza di liquidi. Voglio dire, che cosa faremmo al suo posto? Lavorare come cameriera per dieci anni o succhiare qualche cazzo? Solo se spedissimo questo filmetto ai suoi amici di Siviglia, con un cerchietto rosso intorno alla faccia e la scritta 'Consuelo Jiménez' che lampeggia sullo schermo, la sua vita potrebbe essere sconvolta. E se non ci sono i fondi per farla sorvegliare, figuriamoci se ci sono per fare una cosa del genere.»
Ramírez non riusciva a trattenersi, la sua combattività irruenta e irreprimibile trovava sempre il modo di affermarsi.
«Forse c'è un altro livello per interpretare questa 'lezione di vista'», osservò Falcón. «A me è parso che fosse la scena sullo schermo mentre l'assassino riprendeva Raúl Jiménez con Eloisa Gómez. Che cosa ci dice questo di Raúl Jiménez… nel caso sapesse chi stava guardando?»
«Che era un uomo molto strano.»
Falcón contemplò la rete di binari della mente umana, le sue inesauribili possibilità. Era così o così? Che cosa trascinava l'istinto a operare sempre la scelta sbagliata, al punto che invece di essere a letto con la propria moglie, a riflettere sulle gioie del matrimonio e dei figli, si preferiva scopare una prostituta guardando la propria moglie esibirsi sullo schermo? Raúl Jiménez aveva un sesto senso per l'indegnità.
«Se poi si considera la somiglianza di Consuelo Jiménez con la moglie morta… è quasi impossibile intuire che cosa passasse per la testa di quell'uomo», soggiunse Falcón.
«Senso di colpa», suggerì Ramírez.
«Il senso di colpa richiede sensibilità.»
«Mi arrendo», disse Ramírez, che si annoiava facilmente. «Allora, che cosa facciamo della cassetta?»
«La mostriamo a Consuelo Jiménez… vediamo come reagisce.»
«Bene, questa è roba per me!»
«Dobbiamo anche andare dal Juez Calderón prima di colazione», lo informò Falcón. «Non ritengo produttivo che intorno a Consuelo Jiménez messa a confronto con il suo vergognoso passato stiano due poliziotti. Voglio che lei mi prepari il materiale per l'incontro con il giudice Calderón. Voglio anche che riferisca a Baena, se è ancora alle Mudanzas Triana, di vedere se gli lasciano dare un'occhiata aña roba di Raúl Jiménez in magazzino. O perlomeno si faccia consegnare una copia dell'inventario.»
La faccia di Ramírez si rabbuiò per un moto interno di rabbia: non gradiva vedersi rivoltare contro le sue stesse macchinazioni e non voleva essere escluso dall'umiliazione di Consuelo Jiménez. Falcón si decise a telefonare alla vedova. La signora Jiménez disse che lo aspettava prima che cominciassero a servire il pranzo nei ristoranti.
Nella toilette Falcón prese un alt ro Orfidal, stupito della sua efficacia e tentato di passare il resto della sua vita a trangugiarne. Guidò l'auto nel traffico controllato delle vie cittadine, riflettendo che forse il dottore aveva ragione, che si trattava semplicemente di stress. Viviamo in un'epoca di attenuata ma costante ansietà, si disse. Non essendoci più eventi significativi di sconvolgimenti mondiali, noi concentriamo la nostra attenzione sulle minuzie della vita quotidiana, ingolfandoci nel lavoro e nell'attività, per sopprimere l'ansia che accompagna la relativa sensazione di pace. Sì, concluse, prenderò queste pillole ancora per qualche settimana e, appena chiuso il caso, me ne andrò in vacanza.
Trovò un paio di spazi liberi sul retro dell'Edificio de los Juzgados e, dopo aver parcheggiato, si diresse al barrio Santa Cruz attraverso i jardines de Murillo. Rallentò il passo ricordando le parole del dottore — la più bella città della Spagna — e si guardò intorno come se fosse la prima volta. Il cielo, al di sopra dell'aria limpida, lavata e delle palme svettanti, era assolutamente ceruleo; il sole andaluso brillava sul fogliame verde dei platani che gettavano trame di luce e di ombra sul selciato liscio. Torri di buganvillee color fucsia, spettacolari dopo la pioggia, ricadevano in cascate lungo i muri bianchi e ocra; il rosso vivo dei gerani ammiccava tra le nere ringhiere di ferro battuto; l'aroma del caffè e del pane appena sfornato permeava le vie quiete. Il fresco cavernoso degli stretti vicoli sfociava nel calore delle piazze, dove le pietre dorate delle antiche chiese regnavano nel silenzio.
Camminò sotto i platani alti di plaza de la Alfalfa e si rattristò al pensiero dell'incontro che lo aspettava: pena e imbarazzo nel bel mezzo di una giornata di intensa attività. La segretaria lo introdusse nell'ufficio dove Consuelo Jiménez era seduta alla scrivania, la schiena dritta, le mani appoggiate sul riquadro di pelle, l'imbottitura delle spalle pronta alla battaglia. Falcón si lasciò cadere sulla sedia, lo stomaco ancora fremente di gaiezza. Ah, le pillole! Quasi fosse un ragazzo intento ad ascoltare negli auricolari la sua musica preferita, dovette trattenersi per non gridare di felicità.
Porse alla vedova la videocassetta ancora avvolta nel sacchetto di plastica degli elementi di prova. Lei la rigirò tra le mani e sussultò quando lesse il titolo. Falcón le disse di averla ricevuta per posta quella mattina e le parlò anche del biglietto con la scritta: «Lezione di vista».
«È uno dei fumetti pornografici di mio marito, vero?» «Suo marito lo stava guardando mentre era con la prostituta nel suo studio. Il cartoncino ci avvertiva di osservare attentamente le parti quattro e sei.»
«Molto bene, Inspector Jefe. E allora?»
«Non ha idea del contenuto della cassetta?»
«Non sono interessata alla pornografia. Anzi, mi fa schifo.»
«Dai vestiti degli attori e delle attrici sembra che il film sia stato girato vent'anni fa.»
«
«Solo all'inizio.»
«Andiamo, Inspector Jefe, se c'è stato uno sviluppo nelle indagini, allora fuori tutto e parliamone.»
«Le due parti che il cartoncino ci chiedeva di guardare con attenzione presentavano lei come interprete, signora Jiménez, lei da ragazza.»
Silenzio. Lungo a sufficienza per la formazione di una nuova era glaciale.
«Perché crede che…» cominciò Falcón.
«
Il tono tagliente della voce fece a pezzi la sicurezza di Falcón e nella sua mente si affacciò minacciosa l'idea che forse avevano sbagliato tutto, che Ramírez aveva visto male, che non si trattava di lei; ebbe l'impressione che i mobili dell'ufficio gli si avventassero contro mentre precipitava a capofitto nel momento più imbarazzante di tutta la sua carriera.
«Mi chiedevo», ripeté, riprendendosi, «come mai qualcuno abbia voluto mandare a noi questo film.»
«Perché crede di avere il diritto di venire nel mio ufficio con questa cosa disgustosa?»
«Ha un videoregistratore?»
«Venga con me», disse la donna afferrando la borsetta.
Uscirono dall'ufficio e percorsero il corridoio fino a una piccola stanza con due divanetti, una sedia e un televisore. Falcón infilò a fatica le mani, sudate in quel momento, nei guanti di plastica. La cassetta era predisposta per cominciare dalla scena numero quattro e Falcón decise di evitare il massimo dell'imbarazzo facendo scorrere soltanto i primi momenti in cui le quattro persone entravano nell'appartamento, fermando l'immagine non appena la ragazza in questione sarebbe comparsa sulla soglia. La signora Jiménez gli riservò uno sguardo carico di derisione, mostrandogli una ciocca dei suoi capelli biondi. Falcón premette
«
La donna scaraventò la cassetta sul pavimento e la impalò con il tacco della scarpa, rompendo il rivestimento di plastica, cercò di sfilarla dal tacco, ma l'elemento di prova era più tenace di una cacca di cane. Allora lei si tolse la scarpa, afferrò la cassetta e la lanciò contro la parete, dove si ruppe definitivamente e ricadde a pezzi. Falcón si precipitò a raccoglierli e a infilarli nel sacchetto mentre la donna lo colpiva con i pugni sulla testa e sulla schiena, livida, urlando parolacce mai sentite nemmeno nei covi dei drogati al Poligono San Pablo. L'uomo si girò, l'afferrò per le spalle, le gridò in faccia e la donna crollò, nascondendo il viso sul suo petto e inondandogli di lacrime la giacca.
L'ispettore la fece sedere sul divano. Consuelo si nascose il viso con un braccio. Falcón si sentiva combattuto: recita o verità? Alla fine Consuelo Jiménez rialzò lentamente il volto, distrutto. L'ispettore prese posto sulla sedia, mantenendo una certa distanza.
«Sì», ammise lei. «Ero io.»
«È stato difficile?»
«Un momento bruttissimo», rispose Consuelo Jiménez, riducendo a un fuggevole secondo quelle che certamente erano state lunghe ore.
«Problemi di soldi?»
«Problemi di tutto», rispose la donna fissando l'abisso dell'inevitabile intrusione. «Le ho rivelato spontaneamente i particolari del secondo aborto, pagato dal mio amante. Questo era il preludio del primo, finanziato da me. Volo andata e ritorno per Londra, albergo e ospedale. Un mucchio di soldi da trovare in due mesi, senza nessun aiuto.»
Rabbrividì, coprendosi la bocca con la mano come se stesse per vomitare.
«Nessuno vorrebbe mai dover ricordare certe cose», riprese, «rammentare che una donna incinta ha dovuto fare
Una grande lezione, questa «Lezione di vista numero uno». Forse sarebbe stato un bene che Ramírez avesse assistito alla scena, perché tutto corrispondeva al profilo dell'assassino. Quell'individuo sa, pensò Falcón, stana la vergogna o l'orrore nel passato degli altri e li costringe a guardarlo, a riviverlo.
«Come hanno potuto scoprirlo?» le domandò. «Qualcuno ne era a conoscenza?»
«L'avevo già cancellato dalla mia vita, non riesco a ricordare nulla. Ho fatto una cosa che allora andava fatta e non appena finito l'ho cacciata nel più profondo degli abissi. A malapena saprei dire chi frequentassi a quel tempo. Tornai da Londra e ripartii da zero.»
«Il padre?»
«Vuol dire piuttosto l'uomo che
«Come hanno potuto scoprirlo?» ripeté Falcón.
«Nessuno poteva saperlo. È stata la prima volta nella mia vita che ho sperimentato la vera solitudine. Feci tutto da sola, non lo dissi nemmeno a mia sorella.»
«Come trovò la clinica di Londra?» domandò Falcón, affrontando l'inevitabile, sordido controllo dei fatti.
«Il mio medico mi fornì l'indirizzo di una donna di Madrid che conosceva tutti i particolari.»
«E la somma necessaria… come riuscì a entrare in quell'ambiente?»
«C'era qualcun altro che conosceva quell'indirizzo», disse. «Non fu una coincidenza incontrare in un caffè quello stesso pomeriggio una ragazza che mi fece una proposta che corrispondeva esattamente alla cifra di cui avevo bisogno.»
«Non la rivide più?»
«Mai più.»
«E gli altri attori?» domandò Falcón. La donna scosse il capo.
«Sa, considerato il giro in cui erano coinvolti, erano persone perbene, anche se sembra strano. Compivamo atti di depravazione e l'atmosfera, sul set, avrebbe potuto essere orribile, ma con un po' di marijuana diventava tutto molto cameratesco. Probabilmente sono stata fortunata. Ho incontrato gente più pericolosa nell'ambiente dei ristoranti. E in quanto al sesso… il sesso non era niente. La cosa più difficile era per gli uomini mantenere un'erezione, perché era tutto così privo di emozioni, così poco eccitante.»
Falcón esitò davanti alla domanda che non voleva rivolgere, ma che aveva preso forma nella sua mente. La mise da parte. Troppo sgradevole.
«Stava dicendo che è ripartita da zero una volta tornata in Spagna.»
«La sera prima dell'operazione uscii dall'albergo economico dov'ero alloggiata, a Victoria, per distrarmi dal pensiero di quello che mi aspettava il giorno dopo. Volevo perdermi nella città. Arrivai a Hyde Park Corner, seguii Piccadilly fino a Shepherd Market e Berkeley Square, percorsi Albemarle Street e mi trovai davanti a una galleria d'arte. C'era il
«Tornata a Madrid lavorai sodo, comprai qualche bel vestito e mi presentai in una galleria d'arte. Il proprietario mi disse che non ero all'altezza, che non sapevo nulla di arte. Mi umiliò, portandomi davanti ai quadri e mettendo a nudo la mia ignoranza. Poi mi domandò qualcosa sulle cornici. Le cornici? Che m'importava delle cornici? Mi disse di imparare a battere a macchina e mi buttò fuori.»
La donna stava ipnotizzando Falcón, fissandolo con uno sguardo che trasudava un'audacia allo stato puro, il pugno serrato sul bracciolo del divanetto, così come nel film.
«Studiai storia dell'arte. Non seguii un corso ufficiale, non potevo permettermelo. Studiavo nel tempo libero. Frequentai corniciai, artisti, pittori sconosciuti ma che parlavano di cose che conoscevano, trovai lavoro in un negozio di materiali per artisti, imparai tutto. Conobbi artisti più affermati… e finalmente fui assunta da una galleria d'arte. E poi mi ripresentai dal tipo che mi aveva umiliato. Non si ricordava di me. Mentre stavamo parlando entrò Manolo Rivera… lo conosce?»
«Non di persona.»
«Be', entra e mi bacia e mi dice
«Suo marito sapeva queste cose?»
«Le sa solo lei, Inspector Jefe. L'intimità è più facile con chi non condivide il nostro letto. E… credo che noi due ci intendiamo, non è così, Don Javier?»
Falcón batté le palpebre, incerto sul significato delle sue parole.
«Sembra che noi siamo
«Ma non suo marito», disse Falcón, per cambiare argomento.
«Raúl? Raúl era perduto», affermò lei. «Il fatto che stesse guardando questo filmaccio insieme alla sua
«Ramírez sostiene che rivela senso di colpa.»
«Ramírez non è stupido come sembra… solo macho.»
«Non crede che suo marito sapesse che era lei?» domandò Falcón.
«Non posso crederlo. Non figuravo nei titoli di testa.»
«Avrà notato la somiglianza, però.»
La donna annuì.
«Crede che, per Raúl», riprese Falcón, «vedere qualcuno che assomigliava alla sua prima moglie…»
«… che si comportava come una
«… abbia in qualche modo alleviato i suoi sensi di colpa?»
Consuelo Jiménez si strinse nelle spalle. Poi si alzò, si rassettò la gonna e annunciò che aveva da fare.
Falcón ritornò all'Edificio de los Juzgados nella giornata di nuovo grigia, con le fronde delle palme che schioccavano nel vento e le nuvole che si andavano riaffermando nel cielo. Ramírez lo aspettava davanti al palazzo con una spessa cartella sotto il braccio. Superata la barriera di sicurezza, l'ispettore estrasse un foglio dalla cartella: l'inventario degli oggetti di Raúl Jiménez immagazzinati presso le Mudanzas Triana.
Mentre salivano le scale verso l'ufficio del Juez Calderón Falcón scorse l'elenco, che comprendeva un'attrezzatura completa per filmini amatoriali: cinepresa 8 mm, scatole rotonde di metallo, proiettore e schermo. Il magistrato li stava aspettando, in piedi, le mani piantate sul piano della scrivania, con l'aria di volerli scaraventare di nuovo al pianterreno.
XVIII
Falcón e Ramírez spensero i cellulari e sedettero di fronte a Calderón, il quale rimase fermo in piedi finché i due non si furono accomodati. Poi sedette a sua volta con lentezza, come se stesse compiendo uno sforzo tremendo per mantenere la calma.
«Procedete», disse, congiungendo la punta delle dita. «Cominciamo dalle ultime notizie sul principale indagato.»
«A questo proposito c'è stato uno sviluppo importante», disse Falcón e Ramírez, cogliendo l'imbeccata, estrasse dalla cartella i due ingrandimenti 'ripuliti', per farli scivolare sulla scrivania verso Calderón. «Crediamo che sia il nostro assassino.»
Gli occhi del magistrato si spalancarono, riassumendo tuttavia la loro espressione cupa nel vedere che nessuna delle due immagini aveva un valore conclusivo. Falcón nel frattempo riferiva il modo in cui si era arrivati all'avvistamento, in un tono di voce che lui stesso avvertiva disincarnato, non umano, da generatore robotico di parole. La stanchezza che lo pervadeva fino alle ossa lo stava separando da se stesso. Le frasi gli rotolavano daña bocca: «… probabilmente maschio di età compresa tra i venti e i quarant'anni… un ulteriore sviluppo… un video porno… ha confuso la nostra percezione della principale indagata…» Si fermò solo quando Calderón, alzando una mano, si mise a leggere il rapporto sul film. La mano ricadde, Falcón riavviò il nastro delle parole, domandandosi quante riuscisse a pronunciarne un essere umano nel corso della sua vita. «La prostituta Eloisa Gómez… scomparsa da venerdì notte… un contatto… telefono cellulare rubato… forse assassinata…» Tutto così lontano nel tempo e così recente, pensò. E passò all'indagine nella vita privata di Raúl Jiménez, al rapimento del bambino, al suicidio della moglie, alla follia della figlia, alle nevrosi del figlio: un altro secolo, il che poi era la verità. Tutto apparteneva a un altro secolo ormai, una grande tranche di storia alla deriva, così che noi possiamo cominciare ad accumulare torti senza punti di riferimento…
«Inspector Jefe», disse la voce di Calderón, «le sue speculazioni storiche non hanno una relazione con l'indagine in corso.»
«Lei crede?» ribatté Falcón, trovando un'ispirazione, o così sperava, nel timore improvviso di essere stato colto in flagrante cedimento psichico. «Il movente è sempre storico, a meno che non sia psicotico. L'unica domanda da porsi è: quanto indietro dobbiamo risalire? Al mese scorso, quando Raúl Jiménez ha cercato di vendere i suoi ristoranti a Joaquín López? O a dieci anni fa, quando presiedeva la commissione per gli appalti dell'Expo '92? O a trentasei anni fa, quando gli rapirono il figlio?»
«Concentriamoci su quello che abbiamo», suggerì Calderón. «Lei è un Inspector Jefe con cinque uomini al suo servizio, c'è un limite a ciò che può fare con queste risorse. Ha seguito le piste che si sono presentate, ha ottenuto qualche risultato: l'avvistamento, per esempio. Ma la cosa più importante è l'apparente audacia dell'assassino e la sua inclinazione a comunicare con lei. Come ha detto, essendo audace commette errori, il che, nel caso del funerale, gli è stato quasi fatale. Le manda cose, le parla.»
«Alla luce della reazione di Consuelo Jiménez di fronte al film pornografico, sta proponendo di abbandonare la pista della principale indagata?» si preoccupò Ramírez. «Per stare ad aspettare che l'assassino ci parli?»
«No, Inspector, Consuelo Jiménez ci fornisce un obiettivo per le indagini. È tutto ciò che abbiamo. Noi crediamo che la vittima non conoscesse l'assassino. Al momento due persone hanno un possibile movente: Joaquín López della catena Cinco Bellotas, con un movente molto debole, e Consuelo Jiménez, con un movente classico, quasi uno stereotipo. Considerando la sua reazione al film come l'ha descritta l'Inspector Jefe, sembrerebbe meno sospettabile, ma non per questo deve essere eliminata dalla scena. Il suo comportamento l'ha fatta ritenere da voi perlomeno una donna dura, priva di scrupoli e sembra che gli interessi sessuali del marito e il tradimento di lui nel campo degli affari l'abbiano disgustata. Non sono ancora convinto che non sia stata capace di assoldare qualcuno per portare a termine questa faccenda raccapricciante. E, se lo ha assoldato e se questo killer ha ormai ucciso la sua complice, allora può darsi che la scelta della signora non sia stata giusta, perché a quanto pare è sfuggito al guinzaglio.»
«Ritiene che dovremmo tentare di metterci in contatto con lui?» domandò Falcón.
«E che potremmo dire a questo
«Facciamone un profilo… subito», propose Calderón.
«Ho già osservato che è audace e che gli piace farsi beffe degli altri», disse Falcón. «Vorrei aggiungere che è creativo. Si intende di cinema, di arti visive… l'idea degli occhi, della vista, della visione. È interessato al modo in cui guardiamo le cose, a quanto chiaramente o non chiaramente le vediamo… la lezione di vista.»
«Ce ne saranno altre», disse Calderón.
«È anche interessato al modo in cui ci presentiamo alla gente e a quanto questa presentazione sia in disaccordo con la nostra vita segreta e forse con la nostra storia segreta.»
«Fa ricerche», intervenne Ramírez, «filma la famiglia Jiménez, scopre il cambiamento di programma alle Mudanzas Triana.»
«Deve avere fascino, forse è di bell'aspetto e comprende i meno fortunati di questo mondo, se è stato capace di persuadere Eloisa Gómez a diventare sua complice», soggiunse Falcón. «Una donna così non ha certo bisogno di visite della polizia e la Gómez deve aver saputo che sarebbe stata interrogata, anche se lui le aveva assicurato di avere intenzione di eseguire solo un furtarello da nulla.»
«Che mestiere fa?» si domandò Calderón. «Gli arrivano soldi non si sa da dove. Ha modo di procurarsi videocamera, computer…»
«È andato fino a Madrid per spedire il film pornografico», continuò Ramírez, «non si è fidato di nessun altro. Ha del tempo a disposizione.»
«Chi è ossessionato ha sempre tempo», disse Falcón. «Potrebbe lavorare nell'industria cinematografica, questo gli permetterebbe di accedere alle attrezzature e, nel caso lavorasse come
«Il Médico Forense afferma che ha dimostrato una certa perizia chirurgica», intervenne Ramírez.
«Una quantità di gente sa usare bene le mani», obiettò Calderón. «Lei ha detto che è un individuo ossessionato, Inspector Jefe.»
«La seconda volta che mi ha telefonato non mi ha lasciato dubbi sul fatto che avesse una storia da raccontare e che l'avrebbe raccontata come voleva lui. C'era rabbia e forse amarezza.»
«Perciò potremmo fargli perdere l'equilibrio interferendo, potremmo spingerlo a commettere un errore facendolo infuriare ancora di più», suggerì Calderón.
«Sa che cosa odiano veramente le persone creative?» disse Falcón. «Le critiche della gente che ritengono indegna di esprimere un giudizio su di loro. Mi creda, lo so… ho assistito alle sfuriate di mio padre.»
«Ma su quello che ha fatto», insistette Ramírez, «che cosa potrebbe dirgli per farlo arrabbiare?»
«Potremmo parlargli dei suoi errori», propose Falcón, «dello straccio imbevuto di cloroformio, dell'avvistamento al cimitero. Sbattergli in faccia che non ha agito da professionista.»
Calderón annuì. Falcón tirò fuori il cellulare, le mani umidicce. C'erano due messaggi. Il primo era un SMS e lo lesse subito, visto che non riceveva molti messaggi scritti.
«Ci ha battuto sul tempo», disse, porgendo il telefonino al magistrato.
Il testo era un indovinello in forma di poesia.
Se il suo amore è cieco, in lei non arde più la fiamma. Mai più aprirà gli occhi, né parlerà con i folli. Le sue membra riposano in pace dove si muovono le ombre. Ella ora dorme nell'oscurità con il suo fedele amante della celebrità.
«Può rispondergli che la sua poesia fa schifo, questo dovrebbe irritarlo», suggerì Calderón, restituendogli il cellulare.
«L'ha uccisa», spiegò Falcón, «e ci sta dicendo che ha messo il cadavere nella tomba di famiglia di Jiménez nel cimitero di San Fernando.»
«Lo chiami», disse Calderón, «glielo dica.»
Falcón richiamò il numero di Eloisa Gómez dalla memoria del cellulare e lo digitò. Nessuna risposta. I tre uomini uscirono dal palazzo di giustizia e, saliti sulla vettura di Falcón, si diressero al cimitero costeggiando il fiume e percorrendo il viale di cipressi fino a Jesús de la Pasión; Falcón riprovò a chiamare il numero di Eloisa Gómez durante tutto il tragitto. Mentre si avvicinavano alla cappella della famiglia Jiménez udirono un telefono cellulare suonare all'interno. Il suono cessò quando Falcón ebbe riattaccato.
La porta della cappella si aprì con una spinta e il lezzo li informò che la putrefazione era già cominciata. Sulla lastra di marmo sotto quella dove era stata deposta la cassa di Raúl Jiménez, Eloisa Gómez giaceva supina. Sotto il telefonino posato sullo stomaco era stata infilata una busta sulla quale era scritto: «Lezione di vista n. 2». La gonna era arrotolata, rivelando la biancheria nera e un reggicalze al quale era attaccata una sola calza.
La testa era invisibile nell'ombra del piccolo mausoleo. Falcón prese la torcia tascabile e illuminò il cadavere. Le braccia erano incrociate sul petto, le mani a coprire pudicamente i seni, sul collo il segno di una bruciatura e una profonda escoriazione. Il viso conservava ancora tracce del trucco proprio del mestiere e su ognuna delle due palpebre era stata posta una moneta. Dal modo in cui le monete erano affondate nelle orbite Falcón comprese che le erano stati strappati gli occhi. Sconvolto, arretrò di colpo andando a sbattere contro la bara della prima moglie di Jiménez e la pila gli sfuggì di mano. Barcollando, uscì all'aperto, incespicando sui gradini, scosso da un tremito.
Davanti alla cappella Ramírez stava telefonando alla Jefatura per chiedere l'intervento di una pattuglia e della Policía Científica, avvertendo di non preoccuparsi del Juez de Guardia perché il Juez de Instrucción era già sul posto.
«Com'è là dentro?» domandò Calderón, vedendo l'orrore dipinto sul volto dell'ispettore capo.
«È morta», rispose Falcón, «e le ha strappato gli occhi.»
«
«'Lezione di vista numero due' c'è scritto sotto il cellulare posato sulla pancia della vittima. Dovremo aspettare la scientifica prima di procedere.»
Falcón si allontanò di qualche passo, trasse respiri profondi, controllò rapidamente l'area intorno alla cappella e tornò da Calderón.
«Prima abbiamo parlato della creatività di questo individuo», disse, «dei suoi momenti di improvvisazione. Non so perché, ma penso che questo delitto non facesse parte del suo piano. Forse ha solo voluto farci vedere quanto sia bravo, credo che per lui sia importante che noi lo sappiamo.»
«Ma se la ragazza è stata sua complice, quell'uomo deve aver saputo che avrebbe dovuto sbarazzarsene», obiettò Calderón.
«In questo modo? So che sembra ridicolo, ma lei sa quanto sia difficile far entrare un cadavere in un cimitero? Non si può semplicemente passare dal cancello con il corpo sulle spalle. Guardi il muro di cinta. Di notte i cancelli sono chiusi. È una cosa non facile. E se poi la ragazza non fosse stata sua complice, vorrebbe dire che l'assassino si è preso la briga di rintracciarla, di ucciderla, di disporre del cadavere in questo modo complicato e… credo che scopriremo proprio questo… di inserirla nel suo tema di fondo.»
«Il suo tema di fondo?»
«Vista, visione, illusione, realtà.»
«Crede che stia agendo da solo?»
«Ho ancora qualche dubbio su Consuelo Jiménez e rispetto ciò che lei ha detto a proposito di concentrare le indagini su un obiettivo. Senza di lei siamo in alto mare. Il mio istinto mi dice che sta agendo da solo, ma esiste una vaga possibilità che sia stato ingaggiato da Consuelo Jiménez, che abbia portato a termine l'opera e che gli sia piaciuta al punto di… E intendo dire opera con la O maiuscola, perché penso che la consideri come un'opera d'arte.»
«Allora crede che sia un artista?»
«
«Ammettiamo che la ragazza non sia stata sua complice», domandò Calderón, «e che lui l'abbia vista solo nell'appartamento, ripresa dalla sua telecamera, e abbia deciso di utilizzarla: come avrebbe fatto a rintracciarla?»
«Le ragazze sull'Alameda hanno detto che Raúl Jiménez l'aveva cercata due volte, perché Eloisa Gómez la prima volta non c'era, dicendo che voleva proprio lei. Perciò l'assassino, se fosse stato nell'appartamento, avrebbe potuto sentir pronunciare il suo nome. E poi ha rubato il cellulare di Raúl Jiménez, così ha avuto il suo numero. Ma, senta… questo è interessante: nella poesia che ha mandato c'è un verso,
«Perciò le ha parlato», concluse Calderón, «ha instaurato una specie di rapporto con lei.»
«E
«Dunque la conosceva.»
«Mi sorprende un po' che le sue compagne non lo sapessero», disse Falcón, «però… temo che abbiamo condotto male il primo colloquio con lei e, dopotutto, per quelle ragazze noi siamo la polizia, non ci amano molto, non gradiscono parlare con noi.»
«Lei ritiene, Inspector Jefe», domandò Calderón, con una certa gravità, «che ci troviamo di fronte a un serial killer?»
«Ci troviamo di fronte a un pluriomicida e, con l'assassinio di Eloisa Gómez, credo che siamo in presenza di un'improvvisazione, anche se, come ho detto, probabilmente scopriremo che è divenuta parte del suo piano, perciò dipende da quel che si intende per improvvisazione. La programmazione e la motivazione presenti nell'omicidio di Raúl Jiménez mancano in quest'ultimo assassinio. Se nel primo avevamo logica, metodo e tecnica, qui abbiamo unicamente l'ispirazione del momento.»
«Perciò lei pensa che ucciderà di nuovo?»
«Sì… ma non credo che lo farà a caso, credo che sarà un omicidio inserito nella struttura della sua opera. E vi si è inserito anche quello di Eloisa Gómez. La ragazza deve aver detto qualcosa, a parte
«A ben pensarci, queste ragazze si guadagnano da vivere in ambienti oscuri e pericolosi, vedono quotidianamente aspetti della natura umana con i quali la gente normale raramente viene a contatto. Devono avere un sesto senso per sopravvivere a rapporti in qualche caso terrificanti. Una quantità di assassini va a caccia tra le prostitute. Per certi uomini tutto ciò che quelle ragazze fanno è mettere in evidenza il loro lato debole e questo li fa infuriare. Raúl Jiménez poteva sembrare un riccone innocuo che si concedesse qualche vizietto, ma noi sappiamo che nella sua testa si nascondeva qualcosa di molto contorto.»
«Be', l'istinto della ragazza ha funzionato con lui», osservò Calderón, «ma ha fallito clamorosamente con l'assassino.»
«L'assassino è riuscito a entrare dentro di lei, a toccarla, lei gli ha parlato. Le prostitute sopravvivono mantenendo le distanze con i clienti, l'intimità è fatale.»
«Un mondo nel quale non si vorrebbe vivere… un mondo dove l'intimità può essere fatale», commentò Calderón e Falcón, che non si era fatto nessun amico nell'ambiente di lavoro da quando aveva lasciato Barcellona, provò un moto di simpatia per lui.
Un'auto della polizia stava risalendo il viale principale del cimitero, le luci azzurre lampeggianti tra il granito nero e il marmo bianco. Calderón accese una sigaretta, fumò con aria disgustata. Falcón controllò sul cellulare il secondo messaggio, quello che aveva dimenticato nell'eccitazione suscitata dal primo. Il dottor Fernando Valera lo informava di avergli fissato un appuntamento dallo psicologo e gli dava un indirizzo a Tabladilla.
Arrivarono Felipe e Jorge, gli stessi uomini della scientifica assegnati all'omicidio di Raúl Jiménez, e tutti insieme rimasero ad aspettare il medico legale. Si presentò qualche minuto dopo, una donna sulla trentina, con lunghi capelli neri che infilò subito in una cuffia bianca di plastica. L'esame del cadavere durò meno di un quarto d'ora. Uscì dalla cappella, porse distrattamente a un poliziotto la torcia tascabile che Falcón aveva fatto cadere e fece rapporto al giudice Calderón, indicando l'ora della morte nelle prime ore del sabato mattina: dal
Subentrarono Felipe e Jorge, per rilevare eventuali impronte sul cellulare e sulla busta, una ricerca infruttuosa, tuttavia. Aprirono la busta, accertarono l'assenza di impronte anche sul biglietto che essa conteneva e lo porsero a Falcón, le sopracciglia inarcate.
Perché devono morire coloro che amano l'amore?
E sul retro la risposta:
Perché hanno il dono della vista perfetta.
Falcón lesse ad alta voce, poi fece scivolare il biglietto nel sacchetto di plastica. Il medico legale parlò con Calderón e la
«Non capisco che cosa voglia dire», disse. «Cioè, capisco le parole, ma… lei ha compreso il significato, Inspector Jefe?»
«Be'… forse è ironico. Le prostitute non amano l'amore.»
Cambiò idea non appena pronunciate quelle parole. Il panda dagli occhi tristi e dall'abbraccio rigido nella camera da letto di Eloisa Gómez gli era venuto alla mente con l'intuizione che forse l'assassino si era spinto molto avanti nel suo rapporto con la ragazza.
«E il dono della vista perfetta?»
«Forse, come diceva lei, Inspector Jefe», intervenne Calderón, unendosi alla conversazione, «queste ragazze vedono le cose con molta chiarezza.»
«La calza», cominciò Falcón, «l'unica calza mancante…»
«Probabilmente l'ha cloroformizzata per sfilargliela.»
«Sì, è probabile», convenne Falcón, deluso dalla spiegazione banale, anche se verosimile. Aveva immaginato un inizio di comunicazione più intima tra l'assassino e la ragazza, finché, al momento del sesso, con tutte le sue rivelazioni psicologiche, si era scoperta la vera natura dell'uomo.
«Dove è stata uccisa?» domandò Calderón. «Deve averlo fatto in città, non è vero?»
«E deve anche aver avuto modo di trasportarla fin qui», disse Ramírez.
«Oppure forse sono venuti insieme qui, poi lui l'ha uccisa e ha nascosto il cadavere. Deve esserci una quantità di attrezzi nel cimitero», disse Falcón e incaricò Ramírez di trovare una foto della ragazza e di mostrarla al
Ramírez parlò nel cellulare, contemplando gli ettari di croci e di mausolei che si stendevano in ogni direzione fino alle lontane palme e ai cipressi lungo il muro. Anche Falcón fece scorrere lo sguardo sui fiori sgargianti, sui nomi senza fine, sui ranghi dei morti che si allungavano fin quasi a raggiungere il cielo azzurro e gli alti cirri.
Lungo il viale principale avanzò lentamente un'ambulanza, il cui parabrezza vuoto la faceva sembrare disabitata, impersonale.
«Parlerò con il Comisario Lobo e gli chiederò un certo numero di uomini per far perquisire il cimitero», disse Falcón e Ramírez annuì, sfilando una sigaretta dal pacchetto e accendendola.
«Gli occhi», disse Calderón. «Crede che anche qui abbia mutilato gli occhi?»
«So, perché me lo ha detto un marito geloso che ho messo in galera qualche anno fa a Barcellona, che strappare gli occhi non è una cosa difficile da fare», spiegò Falcón. «Lo aveva fatto alla moglie che lo tradiva. L'uomo ha detto che sotto la pressione del pollice erano saltati fuori dañe orbite come un paio d'uova di uccello.»
Falcón rabbrividì al pensiero di ciò che aveva detto. Gli uomini della scientifica uscirono per fare rapporto.
«L'ha uccisa fuori dalla cappella e poi l'ha trascinata all'interno», spiegò Felipe. «L'entrata era troppo stretta perché riuscisse a trasportarla sollevandola sulle braccia, perciò l'ha trascinata su per i gradini. La gonna è arrotolata sulle gambe, la calza rimasta è strappata malamente e la parte posteriore della gamba nuda è escoriata. Abbiamo trovato una quantità di filamenti di stoffa nel punto in cui l'assassino ha sfregato la giacca contro la lastra, ma nessuna traccia di sangue, di saliva o di sperma. E nemmeno impronte di piedi riconoscibili. Però abbiamo rinvenuto tra i capelli della vittima qualcosa che potrebbe aiutarci a individuare il luogo dove è stata uccisa…»
Jorge allungò un sacchetto contenente petali di rosa, erba e foglie.
«Gli scarti di un giardino», disse Felipe e gli uomini della scientifica se ne andarono.
Calderón firmò il
«Quel verso, 'dove si muovono le ombre'», disse. «Se è di questo che si ha paura, perché andare in un cimitero… con chiunque, figuriamoci poi con un cliente? Non ha senso.»
«Provi, però, a considerare la difficoltà di issare un cadavere al di là di quelle mura», disse Falcón. «Credo che l'assassino sia riuscito a conquistarsi la sua fiducia… al punto da convincerla ad aprirgli la porta dell'appartamento di Jiménez e a seguirlo in un cimitero.»
«La ragazza è stata ammazzata sabato mattina», intervenne Ramírez tornato dalla sua conversazione sul cellulare, «e noi sappiamo che più tardi, in quello stesso giorno, l'assassino è stato qui, perché lo abbiamo visto al funerale.»
«Forse non sapeva dove trovare la cappella Jiménez», suggerì Falcón, «ma stava anche filmando il funerale, perciò aveva una doppia ragione per essere qui.»
«I fili d'erba», disse Calderón.
«Se l'ha uccisa qui, allora l'ha ricoperta con le erbacce, probabilmente presumendo che nessuno sarebbe venuto a portare via il mucchio di foglie e di scarti durante il fine settimana. Se l'ha uccisa altrove e ha dovuto issarla al di là del muro, allora ha dovuto anche trasportarla qui con una macchina che non avrà voluto lasciare parcheggiata troppo a lungo davanti al cimitero.»
«Quell'improvvisazione di cui mi parlava gli ha procurato parecchi problemi», osservò Calderón.
«È stato importante per lui dal punto di vista del tema e vuole mostrarci il suo talento», disse Falcón.
Calderón tornò in taxi all'Edificio de los Juzgados, mentre Falcón e Ramírez fecero allontanare la gente dal cimitero, che sarebbe rimasto chiuso per il resto della giornata. Lobo inviò altri dodici uomini e alle sei del pomeriggio tutta l'area era stata perquisita. Una calza nera era stata trovata legata all'impugnatura della spada spezzata sulla statua di bronzo del torero Francisco Rivera. Un bidone vicino a un cancello arrugginito nel muro in fondo al cimitero era stato rinvenuto pieno di fiori appassiti, di erba falciata e di foglie. Quel muro confinava con una fabbrica e lungo di esso, all'esterno del cimitero, correva uno stretto sentiero invaso dalle erbacce. In quel viottolo, che i sorveglianti della zona industriale avrebbero potuto controllare solo percorrendolo a piedi, erano appoggiate al muro alcune vecchie porte di metallo e una scala della specie usata nei cimiteri per salire fino ai loculi più alti. Non sarebbe stato difficile per l'assassino sollevare la minuta Eloisa Gómez su per la scala e calarla nel bidone dall'altra parte del muro.
«È la seconda volta che ci fa questo», disse Falcón.
«Confonderci con lo scenario del delitto?» domandò Ramírez.
«Sì, è uno dei suoi talenti… rallentare l'intero processo», confermò Falcón.
«Ci costringe a lavorare il doppio», si rammaricò Ramírez.
«Mio padre lo diceva sempre a proposito delle persone di genio: fanno sembrare tutto così lento intorno a loro.»
Alle sei e mezzo del pomeriggio Falcón e Ramírez erano sull'Alameda, ma non videro nessuna ragazza del gruppo di Eloisa. Si diressero allora alla sua abitazione in calle Joaquín Costa e Falcón bussò alla porta dell'amica grassa che aveva le chiavi della stanza di Eloisa. La ragazza venne ad aprire in accappatoio blu e ciabattine rosa di pelliccia, gli occhi ancora gonfi di sonno, ma desti all'istante alla vista dei due poliziotti. Falcón la pregò di consegnargli la chiave e le raccomandò di sforzarsi di ricordare quando avesse visto la sua amica l'ultima volta e di dire alle altre di fare lo stesso. La ragazza non ebbe bisogno di chiedere che cosa fosse accaduto e gli porse subito la chiave.
Lo stupido panda accolse i due uomini, che si guardarono intorno, osservando i miseri oggetti accumulati nel corso di quella vita breve e dura. Ramírez lanciò un'occhiata alle cianfrusaglie sulla toletta.
«Che ci facciamo qui?» domandò.
«Guardiamo e basta.»
«Crede che ci sia venuto?»
«Troppo rischioso», rispose Falcón. «Dobbiamo trovare l'indirizzo e il numero di telefono della sorella. Il panda è per la nipotina.»
Ramírez, alzando gli occhi dal panda, osservò il suo capo come se stesse vedendo un essere patetico, sperduto, sminuito e scollegato.
«Ne ho vinto uno per mia figlia l'anno scorso alla Feria», disse poi, accennando con il capo all'ospite silenzioso. «Ne va matta.»
«Strano come i pupazzi di peluche suscitino quell'istinto», osservò Falcón.
Ramírez indietreggiò davanti a una possibile intimità.
«Non aveva poi una vista così perfetta», disse indicando un paio di lenti a contatto sul comodino.
«Lo conosceva già», affermò Falcón. «Ne sono sicuro. Pensi a tutte le riprese che ha fatto per girare
«Probabilmente faceva i migliori pompini della città», suggerì Ramírez brutalmente.
«Deve esserci un motivo.»
«Sembrava molto giovane, forse a lui piaceva per questo», disse Ramírez.
«Il figlio ha detto che si era innamorato della prima moglie quando lei aveva tredici anni.»
«Comunque sia, ispettore capo, queste sono solo congetture.»
«Di cos'altro disponiamo per supportare le nostre idee? Non abbiamo bisogno di altri indizi con le tracce che si sta lasciando dietro.»
«Secondo il Juez Calderón una principale indiziata esiste ancora», fece notare Ramírez.
«Non l'ho dimenticata, Inspector», disse Falcón.
«Ammesso che abbia assoldato qualcuno e che abbia capito di aver scatenato un pazzo, forse sta pensando di non essere proprio al sicuro lei stessa», osservò Ramírez. «Continuo a credere che dovremmo torchiarla.»
Le ragazze del gruppo di Eloisa sfilarono davanti alla porta dirette alla stanza dell'amica grassa. Ramírez trovò la rubrica del telefono di Eloisa e i due poliziotti percorsero il corridoio per raggiungere le ragazze, stravaccate in un locale fumoso.
Mentre Falcón le metteva al corrente di quanto era successo gli unici rumori nella stanza erano lo scatto degli accendini di poco prezzo e il sibilo delle boccate di fumo aspirate. Alla domanda se Eloisa vedesse qualcuno al di fuori del suo lavoro si levò qualche risatina di derisione. Dovevano riflettere bene, le invitò Falcón, ma le ragazze risposero che non ce n'era bisogno: Eloisa non aveva nessuno tranne la sorella a Cadice. Falcón scrutò attentamente i loro volti, facce da profughe, in fuga dalla vita, bloccate al confine della civiltà, lontane da ogni conforto. Le congedò, rimase soltanto la ragazza grassa.
«Qualcuno c'era», disse quest'ultima quando tutte le altre furono uscite. «Non un cliente regolare, ma l'aveva visto più di una volta. Diceva che era diverso dagli altri.»
«Perché non ce lo hai detto subito?» le domandò Falcón.
«Perché pensavo che fosse riuscita ad andarsene, aveva detto che se ne sarebbe andata.»
«Comincia dal principio», suggerì Falcón.
«Ha detto che lui non voleva fare sesso, voleva soltanto parlare.»
«Un altro», borbottò Ramírez e Falcón lo zittì con un'occhiataccia.
«Le aveva detto che era uno scrittore, che stava facendo non so che cosa per un film.»
«Di che cosa parlavano?»
«Lui le chiedeva tutto sulla sua vita, si interessava anche dei minimi particolari, e specialmente si interessava a quello che chiamava 'varcare la frontiera'.»
«Sai che cosa intendesse dire con questo?» le domandò Falcón.
«La prima volta che aveva fatto sesso. La prima volta che lo aveva fatto per soldi. La prima volta che si era lasciata fare certe cose. La prima volta che era rimasta incinta. Il primo aborto. Le prime botte che aveva preso. La prima volta che un uomo l'aveva minacciata con un coltello. La prima volta con una pistola… la prima volta che un uomo l'aveva ferita. Queste frontiere.»
«E parlavano soltanto?»
«La pagava come se facessero sesso, ma parlavano soltanto.»
«Ha mai detto che aspetto avesse?» domandò Falcón. «Di dove era? In che modo parlava? Aveva un nome?»
«Lei lo chiamava Sergio.»
«Era andata da lui venerdì sera?»
La ragazza si strinse nelle spalle.
«Lo hai mai visto?»
Cenno di diniego.
«La tua amica deve avertelo descritto.»
«Stiamo sempre attente a quello che ci diciamo… potrebbe ritorcersi contro di noi. Mi ha detto soltanto che era
«Tu credi che provasse qualcosa per quell'uomo, visto che aveva pensato di andarsene con lui?»
«Diceva che nessuno le aveva mai parlato così.»
«E lui le aveva rivelato qualcosa di sé?»
«Se l'ha fatto, lei non me lo ha detto.»
«Che cosa sai di Sergio… a parte questo nome?»
«So che ha fatto qualcosa di molto pericoloso», affermò la ragazza. «Ha dato a Eloisa una speranza.»
«Speranza?» ripeté Ramírez, come se la cosa contasse ben poco per lui.
«Si guardi in giro», lo invitò la ragazza grassa. «Provi a immaginare che cosa può fare la speranza a chi vive come noi.»
Alle otto di sera, dopo aver perquisito e sigillato la stanza di Eloisa, Falcón e Ramírez erano di ritorno alla Jefatura. Non avevano trovato nulla, nessun riferiménto a nessun Sergio sulla rubrica della ragazza. Lasciato Ramírez alle scartoffie, Falcón andò a Tabladilla per l'appuntamento con lo psicologo. Parcheggiò sull'altro lato della strada e per un po' passeggiò avanti e indietro per la lunghezza della vettura, dando un'occhiata alle targhe a fianco dei portoni, riluttante a fare il primo passo.
Gli venne alla mente un ricordo del padre che costringeva i meccanici ad armeggiare con il motore della Jaguar anche quando l'automobile funzionava alla perfezione; era solito dire: «Giusto in caso qualcosa stia per guastarsi». Maniaco. Il punto era che lui, al contrario, aveva davvero bisogno di essere «aggiustato». Ma che cosa gli sarebbe successo? Quale terribile filo nero sarebbe stato dipanato da quel gomitolo aggrovigliato che era il suo cervello? Si sarebbe disfatta tutta la trama? Vide se stesso, la mente annebbiata e la mandibola rilasciata, fissare i due infermieri dal camice bianco che lo preparavano per l'intervento chirurgico: vedrà, solo un taglietto e si libererà per sempre dal passato. Evidentemente era già fuori di sé, se ne rendeva conto, visto che stava pensando a un'operazione di neurochirurgia, quando tutto ciò che stava per affrontare era una chiacchierata. Si asciugò il palmo sudato stringendo il fazzoletto tra le mani e attraversò la strada.
Le scale erano interminabili, o così sembrò a lui, e fu costretto a compiere uno sforzo per passare la porta in cima alla rampa. Dietro la scrivania era seduta una giovane donna.
«Salve, signor Falcón», lo salutò cordiale, abituata a trattare con le menti a pezzi. «È la prima volta, vero?»
Aveva i capelli biondi e le labbra tumide. Gli porse un formulario da riempire, ma Falcón non lo prese. Sulla parete alle spalle della ragazza era appeso uno dei quadri di suo padre, il portale della chiesa Omnium Sanctorum. Guardandosi intorno ne scoprì un altro, uno dei paesaggi astratti di minor successo.
«Signor Falcón…» disse la ragazza, in piedi ora, l'orlo della gonna allo stesso livello del piano della scrivania.
Falcón capì che non sarebbe riuscito a resistere, non sarebbe stato capace di restare seduto di fronte a qualcuno a parlare della vita e delle opere di suo padre e a farsi frugare nella testa allo scopo di cercare e di stirare le pieghe e le grinze del tessuto dei suoi pensieri. Uscì senza dire una parola, la cosa più facile che avesse fatto da anni: prendere e uscire.
Non appena fu in macchina, avvertì in petto un'agitazione agghiacciante, che tuttavia scomparve mentre guidava verso casa, con i finestrini abbassati. Si recò a piedi al British Institute e, seduto in fondo all'aula, ascoltò a metà una lezione sul condizionale. Se fossi andato dallo strizzacervelli, disse a se stesso, se non mi fossero crollati i nervi, a quest'ora starei cinguettando sulla mia follia disteso sul divano dell'analista. Mi aiuterebbe parlare con qualcuno.
Si guardò intorno, osservò gli altri studenti: Pedro. Juan. Sergio. Lola. Sergio? I pensieri cominciarono a farsi bizzarri, troppo grandi per la sua testa. Sergio. Tanto valeva chiamarlo Sergio quel pazzo, un uomo che sapeva parlare, che vedeva le cose con chiarezza, che riusciva a entrarti dentro e a rivoltarti come un guanto. Ha parlato con Eloisa, si disse, le ha dato speranza e poi si è preso la sua vita senza speranza. Perché non parlare con lui? Vuole raccontare la sua storia, perché non raccontargli la mia? Perché non lasciare che sia lui a strapparmi quelle orribili creature dal cervello?
«Javier?» disse l'insegnante.
«Scusate, pensavo ad alta voce.»
Falcón rise interiormente, divertito per il modo in cui il vasto mondo esterno era scomparso davanti alle torreggianti architetture gotiche della sua mente; avrebbe potuto vivere là dentro per anni… ma non appena avuto questo pensiero, si precipitò a uscirne, come un eretico da una cattedrale. Si immerse nel macchinario del linguaggio: era così facile mettere insieme le parole, così rilassante. Si era turbati solo dal significato che sanguinava nello spazio intorno a esse.
Si aggregò a qualche altro studente per andare a bere qualcosa al bar Barbiana, nella calle Albareda. Birra,
Si separarono prima che Javier fosse pronto per tornare a casa. Ma lo era mai in quel periodo? La casa era una prigione, la sua camera una cella, il letto un letto di tortura dove doveva stendersi ogni notte. Vagò per la città, si avvicinò a gruppi di avventori in bar dalle luci sfavillanti, posando il boccale di birra accanto al loro, finché gli altri non se ne accorgevano e non lo isolavano.
Terminò la serata sotto le alte palme e nel buio profondo tra i grandi alberi della gomma di plaza del Museo de Bellas Artes. Il
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
XIX
I disastri del sonno. Cadute libere, la perdita di tutti i denti, esami ai quali non si arriva in tempo e poi macchine senza freni e precipizi dai margini che franano: come facciamo a sopravvivere ai nostri incubi? Dovremmo morire di paura una notte dopo l'altra. Falcón barcollò avanzando rapidamente nel buio che lo avviluppava, con i pensieri che precipitavano a cascata nel pozzo della sua mente. Sopravviveva lui ai suoi personali disastri? Sì, ma solo con il mezzo di bandire il sonno, per fuggire a precipizio la caduta del suo impero andando a sbattere contro il vetro pieno di crepe del proprio mondo.
Andò a correre lungo il fiume nero. Spuntò l'alba e Falcón si fermò a guardare lo scafo sottile di una canoa con otto rematori fendere l'acqua slanciandosi in avanti a ogni spinta armoniosa dell'equipaggio. Avrebbe voluto essere là con loro, parte di quella macchina splendida nella sua incoscienza. Pensò ai suoi uomini, alla mancanza di coesione della squadra, ai suoi sforzi frammentari, e rifletté su se stesso come loro guida. Aveva perduto il contatto, il controllo, non riusciva a comunicare una direzione alle indagini. Cercò di dominarsi e, lasciatosi cadere a terra, eseguì una cinquantina di flessioni sulle braccia, dicendo per tutto il tempo al selciato che quella giornata sarebbe stata diversa.
La Jefatura era silenziosa in quell'ora mattutina. Diede un'occhiata al rapporto di Ramírez. Il
Tuttavia Eloisa era stata drogata. Erano state rinvenute tracce di cloroformio. Falcón passò dallo stomaco all'analisi del sangue. La vagina e l'ano presentavano segni di attività sessuale recente. Vi erano tracce di spermicida, ma non di liquido seminale nella vagina, mentre l'ano rivelava l'uso di un gel lubrificante e una distensione dovuta a penetrazioni frequenti. Falcón si distrasse nuovamente immaginando Eloisa Gómez che serviva i clienti sui sedili posteriori delle auto e nella sua stanza; e poi era arrivata la telefonata, la chiamata che la ragazza aveva aspettato tutto il giorno. L'appello al quale non aveva fatto che pensare mentre la sua voce priva d'ogni sentimento singhiozzava e gemeva a comando. La telefonata che per lei era un tocco lieve, le parole come piuma sull'orecchio di un bambino, frasi che la colpivano in profondità, la rivoltavano dentro, le facevano balzare lo stomaco sopra il cuore. Soltanto qualcuno che avesse studiato profondamente la natura umana, con scopi molto particolari, poteva riuscire a sedurre fino a questo punto una persona che si guardava persino dalle ombre. A suo modo l'assassino era brutale ed esigente quanto qualsiasi altro cliente.
L'unica cosa interessante del rapporto era la conclusione: molto probabilmente l'assassino aveva portato Eloisa Gómez al cimitero il sabato mattina, quasi certamente all'apertura, e l'aveva uccisa in quel momento.
Ramírez arrivò con il resto della squadra alle otto e trenta. Furono aggiornati sugli ultimi sviluppi e sul profilo dell'assassino che, da quel momento, sarebbe stato chiamato «Sergio». Ammesso che Sergio avesse strangolato la ragazza nel cimitero il sabato mattina, doveva esservi ritornato di notte per trasportarla nella cappella della famiglia Jiménez. Ciò significava che probabilmente aveva un mezzo di trasporto, nonché un luogo dove nascondersi a Siviglia. Le informazioni galvanizzarono il gruppo; l'idea che l'assassino fosse un uomo della loro città rendeva la sfida in un certo senso personale. Fernández, Baena e Serrano si sarebbero occupati dell'area all'interno e intorno al cimitero, per cercare qualcuno che avesse visto là Eloisa Gómez quel sabato mattina. L'assassino forse aveva parcheggiato l'auto nelle vicinanze quando era tornato per disporre del cadavere, perciò era necessario interrogare gli uomini della sorveglianza dell'area industriale, visto che lo stretto sentiero sul retro del cimitero era stato quasi certamente la via d'accesso di Sergio.
Con la signora Jiménez sarebbe stata usata una strategia diversa. Ramírez le avrebbe chiesto di controllare il contenuto delle casse immagazzinate presso le Mudanzas Triana e anche di datare tutte le riprese della videocassetta
Il Subinspector Pérez si presentò con un elenco degli amministratori delle più importanti ditte appaltatrici coinvolte nei lavori sul sito dell'Expo '92. Falcón lo spedì alle Mudanzas Triana per continuare l'interrogatorio del personale. Occorreva accertare se fosse stata vista qualche persona estranea al deposito e avere informazioni sui magazzini, su chi li dirigeva e su chi aveva accesso a quelle strutture.
Rimasto solo, Falcón studiò la lista delle imprese e ne contò quarantasette. Consultò l'elenco originale di Pérez e trovò che solo una società aveva cessato di esistere dal completamento dei lavori dell'Expo '92: la MCA Consultores SA.
Falcón si recò alla Camera di commercio e cercò informazioni sulla MCA, le cui attività erano descritte come consulenza per la sicurezza degli edifici, pareri tecnici sulla struttura, sul progetto e sui materiali di strutture che comportavano un grande afflusso di pubblico. Sorvolò sui tre anni di contabilità, nei quali la società aveva fatturato dai 400 ai 600 milioni di pesetas all'anno, fino alla cessazione dell'attività alla fine del 1992. L'indirizzo era sull'avenida República Argentina. I nomi degli amministratori della società balzavano agli occhi: Ramón Salgado, Eduardo Carvajal, Marta Jiménez e Firmín León. Si domandò che cosa mai potesse sapere Ramón Salgado di sicurezza degli edifici; certo non più di Marta, la figlia disabile di Raúl Jiménez. Perlomeno il Comisario León svolgeva un compito vagamente connesso con la sicurezza, ma ciò non bastò a convincere Falcón che non si trattasse semplicemente di una società di copertura per incanalare fondi verso Raúl Jiménez e i suoi amici importanti. E in quanto a Eduardo Carvajal… perché quel nome gli diceva qualcosa?
Fotocopiò i documenti e tornò alla Jefatura. Mentre parcheggiava l'auto ricordò all'improvviso che il nome di Carvajal era emerso in un caso di cui ancora si parlava a Siviglia quando era arrivato da Madrid per assumere il nuovo incarico. Il computer della polizia rivelò che Eduardo Carvajal aveva fatto parte di una rete di pedofili condannati dal tribunale, ma che personalmente non aveva mai affrontato il processo. Era rimasto ucciso in un incidente stradale sulla Costa del Sol nel 1998. Chiamò il Comisario Lobo per fissare un incontro.
Prima di salire da lui, controllò i messaggi, che includevano una comunicazione della polizia di Cadice: stavano accompagnando la sorella di Eloisa Gómez a Siviglia per il riconoscimento del cadavere; un altro messaggio era del suo medico, che voleva sapere perché Falcón non si fosse presentato all'appuntamento con lo psicologo. Chiamò il dottor Valera e gli parlò dei quadri di suo padre nella sala d'aspetto.
«Non ti è venuto in mente, Javier, che dovresti parlarne con qualcuno?»
«No», rispose, «ma se lo facessi non vorrei che fosse con qualcuno che…»
«Qualcuno che cosa?»
«Qualcuno che crede di conoscere mio padre.»
«Devi fidarti un po' di più della loro intelligenza…»
«Davvero?» lo interruppe Falcón. «Si vede che non hai mai presenziato all'inaugurazione di una sua mostra.»
«Potrebbe essere un po' difficile trovare qualcuno, allora», disse Valera, «era un pittore molto conosciuto.»
«Ma non tutti si interessano d'arte.»
Riagganciarono e Falcón salì da Lobo, il quale prese le fotocopie e vi si immerse con l'aria di un uomo che stesse per gettarsi su un banchetto a base di bambini in fasce. Chiese come avesse fatto Falcón a procurarsi quei documenti.
«Di tutte le aziende direttamente coinvolte nei lavori dell'Expo '92, questa era l'unica ad aver cessato l'attività. Ho chiesto al Subinspector Pérez…»
«Lei sa che Pérez e Ramírez sono molto amici da anni?»
«Ho notato che si parlano.»
«Che collegamento può avere questo con le indagini in corso?»
«Dopo l'assassinio di Eloisa Gómez credo che il caso abbia preso una piega diversa», spiegò Falcón. «Un rapporto d'affari divenuto pericoloso può essere stato il movente iniziale, ma ora, io penso, l'assassino sta agendo in modo autonomo.»
«Ho saputo che Ramírez ha altre idee e anche il Juez Calderón.»
«Ho mandato l'Inspector Ramírez a parlare con la signora Jiménez da solo. Userà metodi diversi dai miei e vedremo se otterrà soddisfazione o no. In quanto al giudice Calderón, lo ritengo di mente aperta, a proposito della principale indagata ha un atteggiamento più realistico che ossessivo.»
«Crede che quello di Ramírez lo sia?»
«La signora Jiménez è proprio il genere di donna che l'Inspector Ramírez disprezza. Credo che rappresenti per lui un cambiamento nell'ordine delle cose, un cambiamento che l'ispettore non è ancora pronto ad accettare.»
Lobo annuì e tornò ai documenti.
«Delle persone di questo elenco, con chi potrebbe parlare in privato?» domandò.
«Con Ramón Salgado, ma è fuori città fino alla fine della settimana. L'ho cercato, dopo averlo incontrato al funerale. Mi aveva offerto qualche informazione interessante su Raúl Jiménez.»
«Che genere di informazione?»
«Su quanto sia poco degno di fiducia il loro mondo esclusivo.»
«Qualche ragione per dovergli credere?» domandò Lobo. «Per essere su questo elenco, quanto meno dev'essere stato un amico di Raúl Jiménez.»
«Sì, ho qualche dubbio su di lui.»
«E quanto costerebbero queste informazioni?»
«Vuole entrare nello studio di mio padre», rispose Falcón. A un tratto ricordò una conversazione avuta con Consuelo Jiménez. «Si conoscono, Salgado e la signora Jiménez», disse. «L'indagata è stata reticente sul loro rapporto; asserisce di averlo conosciuto a una serata da mio padre, ma forse è una conoscenza che risale a tempi più remoti. La signora Jiménez lavorava nel mondo dell'arte a Madrid e Salgado frequentava anche gli ambienti della capitale.»
«Credo che lei debba parlare con Salgado, ma di persona», disse Lobo. «E questi documenti devono rimanere tra noi… mi capisce?»
Lobo guardò Falcón negli occhi, poi fece scivolare le carte nel suo cassetto. Falcón ritenne di essere stato congedato.
«Non avevo idea che il suo incarico avrebbe avuto una dimensione politica», commentò Lobo mentre Falcón gli girava le spalle. «Le forze sono a nostro svantaggio per ora, ma noi siamo più intelligenti. Però dobbiamo restare nei limiti dell'etica. Spero che il suo accordo con Salgado sia come mi ha detto.»
Falcón andrò dritto in bagno e mandò giù un Orfidal, raccogliendo un po' d'acqua nel cavo della mano.
La sorella della Gómez, Gloria, sembrava un po' maggiore di età, ma non aveva nulla della sicurezza di Eloisa. Seduta sul sedile accanto al guidatore mentre l'auto si dirigeva attraverso il traffico all'Instituto Anatómico Forense, se ne stava appoggiata alla portiera, le braccia conserte. Il viso aguzzo, volpino non dimostrava la minima inclinazione alle chiacchiere futili. Una donna chiusa, guardinga, sola in un mondo dove non ci si poteva fidare di nessuno.
«Era a conoscenza di ciò che sua sorella faceva per vivere?» domandò Falcón.
«Sì.»
«Ne parlava con lei?»
Gloria interpretò male le sue parole. «Abbiamo fatto lo stesso lavoro… per un po'», disse. «Finché sono rimasta incinta.»
«Intendevo dire più recentemente», chiarì Falcón. «Lei sapeva che cosa stesse succedendo nella vita di sua sorella?»
Silenzio. Un'occhiata in tralice gli rivelò che la donna non lo riteneva degno di fiducia. Ricominciò da capo.
«La persona che ha ucciso Eloisa ha assassinato anche uno dei suoi clienti. È possibile che uccida di nuovo. Noi sappiamo che Eloisa lo conosceva, con lei si faceva passare per uno scrittore, erano diventati amici e forse anche qualcosa di più. Credo che Eloisa avesse cominciato a vederlo come un modo per lasciare quella vita.»
«È stato proprio così», affermò la donna seccamente, riducendo Falcón al silenzio, tanto che essa ritenne di dover soggiungere: «Anche l'AIDS te la fa lasciare, quella vita».
«Ha detto che si chiamava…»
«Sergio», concluse Gloria.
«Le parlava di Sergio?»
«Le avevo detto di lasciarlo perdere. Le avevo detto che si illudeva e che non avrebbe dovuto fidarsi di lui.»
«Perché?»
«Perché le stava dando speranza e la speranza ti fa vedere le cose in modo diverso, cominci a credere che esistano delle possibilità, cominci a trascurare certe cose, a commettere errori.»
«Aveva ragione.»
«Questo succede a fidarsi degli altri», continuò lei; e sollevandosi i capelli sulla nuca, mostrò il segno lustro di una cicatrice da bruciatura. «Mi arriva fino in fondo alla schiena.»
«Così lei ha abbandonato il mestiere?»
«Avevo la scelta tra continuare quel lavoro e la povertà. Ho preferito la povertà al dolore e alla morte.»
«Ma non è bastato a convincere Eloisa?»
«Non le era mai capitato niente», spiegò la sorella. «Sì, una volta l'avevano minacciata con un coltello, certo. E qualcuno le aveva puntato una pistola alla tempia, l'avevano anche schiaffeggiata, ma non aveva cicatrici. Non appena ha cominciato a parlarmi di Sergio, però, io ho capito che quell'uomo aveva delle mire su di lei.» Lasciò ricadere le braccia sui fianchi, come se si sentisse totalmente sconfitta dalla vita, come se alla somma complessiva delle sue esperienze si fosse ora aggiunto il rimorso della sopravvissuta.
«Che cosa le diceva di Sergio?» domandò Falcón, prima che la breccia che la donna aveva lasciato intravedere nella sua corazza di riservatezza scomparisse senza lasciare traccia.
«Diceva che era
«Come
«Eloisa e io, tra di noi, ci chiamavamo
«E perché sarebbe stato diverso?»
«Tutto quello che mia sorella diceva di lui, per me, faceva pensare che fosse uno di
«Non le ha detto che tipo di macchina e quale appartamento?»
«Quell'uomo non era uno stupido,
«E perché secondo sua sorella era un
«Pensava che potesse essere uno straniero o che avesse sangue straniero nelle vene. L'aspetto era spagnolo, vestiva come uno spagnolo, parlava spagnolo. Ma era diverso.»
«Nordafricano?»
«Eloisa non l'ha mai detto e poi a lei non piaceva quella gente, non andava mai con loro. Non sarebbe stata attratta da lui, se le fosse parso nordafricano. Forse era stato all'estero per molto tempo o aveva studiato fuori, pensava lei.»
Erano arrivati all'Instituto, deserto e silenzioso. Osservarono il cadavere dietro il vetro. In qualche modo le orbite erano state riempite. Gloria Gómez appoggiò le mani al vetro e vi premette la fronte. La pena che trasudava dal suo intimo la faceva cigolare come un mobile sottoposto a uno sforzo.
«I vostri genitori sono ancora vivi?» domandò Falcón alle sue spalle, osservando la testa dai capelli già un po' radi, la spalla scucita della giacca da poco prezzo. La donna fece segno di no, continuando a premere la fronte contro il vetro.
«Eloisa avrebbe avuto qualche motivo per andare al cimitero di San Fernando?»
Gloria voltò le spalle alla sorella morta.
«Ci andava ogni volta che poteva», rispose. «C'è sepolta la sua bambina.»
«La sua bambina?»
«A quindici anni ha avuto una figlia. È morta a tre mesi.»
Tornarono alla Jefatura senza parlare, solo Falcón compì un ultimo tentativo per sapere se Eloisa avesse mai fatto qualche accenno all'aspetto fisico di Sergio.
«Diceva che aveva delle belle mani», fu tutto ciò che riuscì a sapere.
Era appena entrato nel suo ufficio quando squillò il telefono. Il dottor Fernando Valera lo chiamava per dirgli che aveva risolto i suoi problemi, avendogli trovato una psicologa dell'università niente affatto interessata all'arte. Falcón non era dell'umore adatto per discutere.
«Si chiama Alicia Aguado. Ti riceverà a casa sua, Javier», gli spiegò il medico dandogli un indirizzo in calle Vidrio. «Psicologia clinica significa studi molto rigorosi accompagnati anche da… tecniche personali. È bravissima. So quanto sia difficile fare il primo passo in queste cose, ma desidero che tu la veda. Sei già alla disperazione. È importante.»
Falcón riagganciò, pensando a come tutti ormai si fossero accorti del suo stato di disperazione, di come l'avessero riconosciuto a fiuto, Sergio compreso. Entrò Ramírez e sedette sulla sedia allungando le gambe.
«La signora Jiménez è crollata?» domandò Falcón.
Ramírez si tolse una briciola immaginaria dalla cravatta con l'aria di chi stia per confidare un'esperienza sessuale… anzi, no, un trionfo.
«Scommetto che indossa biancheria intima costosa», disse. «E il tanga d'estate.»
«Vedo che ne è stato conquistato.»
«Ho chiamato Pérez alle Mudanzas Triana e gli ho detto di prendere la cassa con l'attrezzatura cinematografica», riprese Ramírez. «Lei ha acconsentito subito, nessun problema. Ma forse può interessarle quello che ha aggiunto quando stavo per andarmene.»
Falcón lo esortò con un cenno della mano.
«Ha detto: 'Prendete quella cassa, ma solo quella. Se guarderete nelle altre scoprirete che niente del loro contenuto sarebbe ammissibile come prova'.»
Falcón lo pregò di ripetere, e Ramírez ubbidì diligentemente. La seconda volta gli fu più chiaro: l'ispettore stava mentendo e mentendo male, per giunta. Falcón dubitava fortemente che Consuelo Jiménez fosse stata così poco sottile.
«E ha datato le riprese della cassetta
«Ha detto che lo avrebbe fatto, ma che è occupatissima in questo momento, bisogna rimandare a dopo la Feria.»
«Molto utile.»
«È difficile, quando si è subita una tale perdita», obiettò Ramírez.
XX
Seduto a tavola, la forchetta a mezz'aria e il piatto ancora pieno, Falcón non pensava a Ramírez, ma al Comisario León, il quale non era certamente arrivato a occupare quella posizione senza possedere un notevole talento politico. Visto che era stato uno degli amministratori della società di consulenza, che cosa poteva significare il fatto che León si tenesse al corrente delle indagini attraverso Ramírez e permettesse che si facesse pressione su Consuelo Jiménez, la quale probabilmente non sapeva niente della MCA? Falcón posò la forchetta, assalito da un'ondata di paranoia che produsse su di lui un effetto simile a nausea. Alla prima occasione lo avrebbero allontanato dall'incarico. Mentre i documenti sulla MCA restavano a dormire in un cassetto, al Comisario León andava molto bene che si continuasse a bussare alla robusta porta della signora Jiménez: se fossero saltati fuori, per lui sarebbe stata la fine.
Dopo colazione si ritrovarono per esaminare i vecchi filmini di Raúl Jiménez che Pérez aveva prelevato alle Mudanzas Triana. Il poliziotto aveva riferito che il magazzino aveva un solo ingresso e che tutti i depositi a lungo termine si trovavano in un'unica area sul retro dell'edificio. Ogni cliente aveva a disposizione uno spazio chiuso a chiave per riporvi mobili e casse sigillate da un nastro adesivo sul quale era apposta la data del deposito, in modo da rendere evidente un'eventuale apertura delle stesse. Le casse lasciate da Raúl Jiménez erano là da lungo tempo. Tutto il personale delle Mudanzas Triana aveva accesso al magazzino, ma soltanto il capodeposito aveva le chiavi degli spazi privati e nessuno poteva accedervi senza che egli fosse presente. Le chiavi si trovavano in una cassaforte nel suo ufficio. Di notte il magazzino era sorvegliato da due guardie notturne con i cani. Negli ultimi quarant'anni avevano avuto luogo quattro tentativi di scasso, ma non era stato rubato niente di importante, dato che ogni volta i ladri erano stati interrotti a metà dell'opera.
Falcón fu contento che Pérez fosse presente per sostenere l'urto dei commenti di Ramírez. Non aveva previsto di lasciarsi emozionare tanto dalle tremolanti immagini in bianco e nero della vita precedente di Raúl Jiménez, un'esistenza più felice. Mai era arrivato a commuoversi nel buio di un cinema: le storie inventate non riuscivano a coinvolgerlo, ne aveva sempre avvertito l'inganno e si era ogni volta rifiutato di farsi prendere dalle emozioni a comando, tanto da non versare mai una sola lacrima.
Ora, però, avendo conosciuto i protagonisti in un modo tanto personale, nell'oscurità osservava con animo diverso José Manuel e Marta giocare sulla spiaggia mentre le onde tranquille si ripiegavano sulla sabbia. La moglie di Raúl, Gumersinda, entrò nell'inquadratura, si girò e tese le braccia. Sopraggiunse di corsa dietro di lei il piccolo Arturo, raggiunse le braccia che lo attendevano e la madre lo afferrò e lo sollevò in alto, al di sopra della sua testa, le gambette ciondolanti mentre il bambino, deliziato e felice, guardava il viso sorridente di lei. Arturo venne alzato verso il cielo e lo stomaco di Falcón si contrasse: ricordava quell'emozione. Dovette farsi forza per trattenere le lacrime, oppresso dal peso della tragedia che aveva fatto a pezzi quella famiglia.
Non riusciva a comprendere la sua emotività nei confronti di quella gente. Era venuto a contatto con altre famiglie devastate da omicidi o abusi sessuali, dalla droga o da episodi di violenza estrema. Perché la famiglia Jiménez aveva su di lui quell'effetto? Doveva assolutamente parlarne con qualcuno prima che la disperazione cominciasse a scaturire da lui liberamente, senza più freni. Alicia Aguado… avrebbe funzionato?
Nella stanza si riaccesero le luci. Ramírez e Pérez si girarono verso il loro superiore.
«C'è una quantità di questa roba», disse Ramírez. «Che cosa stiamo facendo esattamente, Inspector Jefe?»
«Stiamo aggiungendo qualcosa al profilo del nostro assassino», rispose Falcón. «Abbiamo di lui una certa idea per quanto riguarda il fisico grazie agli ingrandimenti delle riprese del cimitero. Ci è stato detto che è
Scoprì a quel punto di non sapere come continuare. Perché mai stavano guardando quei filmini?
«La cassa dov'erano custoditi era sigillata», disse Pérez; e lo aveva già affermato nel rapporto. «Non hanno più visto la luce del giorno da quando sono stati chiusi là dentro.»
«Ma quale giorno!» riprese Falcón, parlando come un uomo che, sul punto di affogare, si aggrappasse a una canna galleggiante. «Il giorno in cui ha scacciato il ricordo di suo figlio dalla memoria.»
«Ma che cosa aggiunge questo al profilo dell'assassino?» domandò Ramírez.
«Stavo pensando alle terribili lesioni che si è inferto Jiménez», riprese Falcón. «Si era rifiutato di vedere qualcosa alla televisione ed è stato allora che gli hanno strappato le palpebre. Perché vedesse che cosa? Che cosa può aver indotto Raúl Jiménez a infliggersi un simile tormento?»
«Se qualcuno avesse tagliato le palpebre a me…» cominciò Pérez.
«Avete visto il bambino, quel piccolino inerme», continuò Falcón, «lo avete udito strillare e gridare contento tra le braccia di sua madre… Non credete che…?»
Si interruppe. I due uomini lo stavano fissando, le facce attonite, senza capire.
«Ma, Inspector Jefe», disse Pérez, «non c'era il sonoro.»
«Lo so, Subinspector…» Ma Falcón non lo sapeva e la sua mente si svuotò di colpo, assalita dal panico, tanto che non riuscì nemmeno a ricordare il nome del suo collega. Non riuscì a pensare a un'altra parola che potesse seguire quelle che aveva appena pronunciato; era diventato ciò che temeva di più, l'attore ormai capace soltanto di recitare la parte di se stesso nella sua propria vita.
Tornò alla realtà, come se la bolla nella quale si era rinchiuso fosse scoppiata e la vita vera fosse rifluita fino a lui. Gli altri due si erano alzati e stavano smontando lo schermo. Con sorpresa Falcón si accorse che erano quasi le nove di sera. Doveva uscire di lì, ma occorreva salvare qualcosa dal naufragio di quella situazione. Si avviò alla porta.
«Prepari un rapporto sui film, Subinspector…» il nome continuava a sfuggirgli. «E nel farlo voglio che usi l'immaginazione, voglio che pensi all'uomo che aveva in mano la cinepresa e al suo stato mentale a quel tempo.»
«Va bene, Inspector Jefe», disse Pérez, «ma lei mi ha sempre detto di riferire i fatti senza cercare di interpretarli.»
«Faccia del suo meglio», ribatté Falcón. Uscì.
Cercò di inghiottire una pillola di Orfidal, ma gli rimase appiccicata al palato tanto che dovette andare in bagno per spruzzarsi acqua in bocca e sulla faccia accaldata. Mentre si asciugava gli parve di non riconoscere i suoi occhi nello specchio: erano gli occhi di un altro, due cose cerchiate di rosso, velate, affondate nelle orbite, che cercavano di nascondersi nel suo cranio. Stava perdendo autorevolezza, nessuno avrebbe mai potuto rispettare occhi così.
Uscì dalla Jefatura nell'aria fresca della sera, guidò fino a casa e si avviò a piedi verso calle Vidrio e l'abitazione della dottoressa Alicia Aguado, dove arrivò poco prima delle dieci, l'ora del suo appuntamento. Passeggiò avanti e indietro davanti all'edificio restaurato da poco, nervoso come un attore prima di un'audizione, finché non ne poté più e si decise a suonare il campanello. La dottoressa aprì e Falcón salì una rampa buia fino alla luce che usciva dalla porta.
Falcón notò che sulle pareti celeste chiaro dello studio non era appeso nulla e che nella stanza c'erano solo un divano e un sedile a due posti a forma di S.
Una stanza stretta, tutta la casa piccola e contenuta, tanto da fargli sembrare assurda la sua; gli comunicò l'impressione di una testa piacevolmente ben organizzata, laddove la sua era diventata una follia bizantina, dispersiva, dalle mille stanze, a più piani, cavernosa, piena di balconi, barocca: era come un manicomio dove un unico internato si tenesse nascosto finché non fosse sceso il silenzio…
Alicia Aguado aveva capelli neri corti, il viso pallido senza alcuna traccia di trucco. Gli tese la mano, ma senza guardarlo in faccia. Le loro dita si toccarono e la donna gli disse: «Il dottor Valera non l'ha informata del fatto che sono ipovedente».
«Mi ha solo garantito che non si interessava di pittura.»
«Vorrei poterlo fare, ma sono in queste condizioni da quando avevo dodici anni.»
«Quali condizioni?»
«Retinite pigmentosa.»
«Non ne ho mai sentito parlare», ammise Falcón.
«Si tratta di cellule pigmentate anomale che senza una ragione definita si depositano a chiazze sulla retina», spiegò la donna. «I sintomi hanno inizio con la cecità notturna per concludersi, a grande intervallo di tempo, con la cecità completa.»
Javier, paralizzato, continuò a stringerle la mano finché lei non la liberò lentamente, indicandogli il sedile a forma di S.
«Bisogna che le spieghi alcune cose sul mio metodo», disse poi, sedendo accanto a lui ma allo stesso tempo di fronte, sul sedile appositamente realizzato. «Non posso vedere con chiarezza la sua faccia e le persone comunicano molto con il viso. Come forse sa, siamo 'programmati' per questo fin dalla nascita. Ciò significa che devo usare altri metodi per registrare le sue emozioni. È un metodo simile a quello dei medici cinesi che si affidano alle pulsazioni cardiache. Così noi stiamo seduti su questo strano divanetto, lei appoggia il braccio qui al centro, io le tengo il polso e lei parla. La sua voce sarà incisa per mezzo di un registratore posto nel bracciolo. È d'accordo su tutto questo?»
Falcón annuì, cullato dalla calma autorevolezza della donna, dal suo volto placido, dagli occhi verdi che non vedevano.
«Parte del mio metodo è che raramente induco a conversare, lei parla e io ascolto, questa è l'idea. Al massimo posso cercare di indirizzare i suoi pensieri o di farla ripartire nel caso arrivasse a un punto morto. Però sarò io a darle il via.»
Girò un interruttore sul lato del sedile, facendo entrare in azione il registratore, quindi posò la mano sul polso di Falcón e lo strinse, una stretta esperta ma gentile.
«Il dottor Valera mi ha riferito che lei mostra i sintomi dello stress e io sento che ora lei è ansioso. Valera ha detto che il cambiamento nel suo equilibrio emozionale è cominciato all'inizio di un'indagine su un delitto particolarmente brutale. Mi ha parlato anche di suo padre e della riluttanza che lei ha nei confronti dei terapeuti che possono conoscere le opere di Francisco Falcón. Riesce a pensare al motivo per cui quel primo incidente… che cosa c'è?»
«Come?»
«Quella parola, 'incidente', le ha provocato una forte reazione.»
«È una parola che ho visto scritta nei diari di mio padre, ho appena cominciato a leggerli. Si riferisce a un fatto accaduto quando lui aveva sedici anni e che lo ha indotto a scappare di casa. Non rivela di che cosa si sia trattato.»
Avendo constatato l'efficacia del metodo, Falcón dovette farsi forza per reprimere il desiderio di liberarsi dalla mano che gli teneva il polso: a quanto pareva Alicia Aguado non soltanto era in sintonia con l'anatomia umana, ma sapeva captare anche le contorsioni dell'anima.
«Crede sia stato per questo che ha scritto un diario?»
«Intende dire per liberarsi dell'incidente?» rispose Falcón. «Non credo fosse quella la sua intenzione. Non avrebbe nemmeno cominciato, io penso, se un suo compagno non gli avesse regalato un diario su cui scrivere.»
«Talvolta queste persone ci vengono inviate.»
«Come a me è stato inviato questo assassino?»
Silenzio, mentre le parole venivano assorbite.
«Tutto ciò che verrà detto in questo studio è materia di segreto professionale, incluse anche le informazioni di polizia. Le registrazioni su nastro vengono chiuse in cassaforte», lo informò la donna. «Ora voglio che mi parli di come è cominciato.»
Le raccontò della faccia di Raúl Jiménez, come l'assassino avesse voluto costringere Jiménez a guardare qualcosa che l'uomo si era rifiutato di vedere. Non le risparmiò nessun dettaglio nel descriverle la sensazione che la vittima doveva aver provato ritornando in sé dopo che le palpebre gli erano state asportate e le spiegò come questo, unito all'orrore di ciò che l'assassino gli stava mostrando, avesse indotto Raúl Jiménez a spaventose automutilazioni. Credeva che il proprio crollo nervoso fosse cominciato nel momento in cui aveva visto quella faccia e il terrore di un uomo costretto ad affrontare l'orrore supremo.
«Ritiene che l'assassino veda se stesso in una veste professionale?» gli domandò la donna. «Come uno psicologo o uno psicoanalista?»
«Ah», disse Falcón, «intende dire che
«È la verità?»
Silenzio, finché Alicia non decise di prendere le redini in mano.
«Lei ha fatto un collegamento tra questo omicidio e suo padre.»
Falcón le parlò allora delle fotografie di Tangeri che aveva trovato nello studio di Raúl Jiménez.
«Anche noi abbiamo vissuto là nello stesso periodo», spiegò, «e ho pensato di poter trovare mio padre in quelle foto.»
«Niente altro?»
Javier allargò e piegò le dita della mano, a disagio al pensiero delle informazioni che stavano scorrendo nel suo polso.
«Ho pensato anche che forse vi avrei trovato mia madre», disse. «È morta a Tangeri nel 1961, quando io avevo cinque anni.»
«L'ha trovata?» domandò Alicia dopo qualche momento.
«No. Ho trovato invece sullo sfondo di un'istantanea mio padre che baciava la donna che poi è diventata la mia seconda madre… voglio dire, la sua seconda moglie. La data sul retro era precedente alla morte di mia madre.»
«L'infedeltà non è una cosa tanto insolita.»
«Mia sorella sarebbe d'accordo con lei. Ha detto che mio padre 'non era un angelo'.»
«Questa cosa ha avuto un effetto sul modo in cui lei vede suo padre?»
Falcón si sorprese a pensare attivamente: per la prima volta nella sua vita si stava realmente addentrando nelle strette vie lastricate della sua mente. Il sudore gli imperlò la fronte. L'asciugò.
«Suo padre è morto due anni fa. Gli era molto vicino?»
«Credevo di esserlo. Ero il suo preferito. Io… io… ora sono confuso.»
Le parlò del testamento, del desiderio espresso da suo padre che lo studio fosse distrutto e di come gli stesse disubbidendo a causa dei diari che aveva cominciato a leggere.
«Trova strano il desiderio di suo padre?» domandò lei. «In genere gli uomini famosi vogliono lasciare qualcosa per la posterità.»
«Una sua lettera mi avvertiva che avrebbe potuto essere un viaggio pericoloso.»
«Allora perché lo ha intrapreso?»
Falcón finì, nella sua mente, in una strada senza uscita, contro un muro bianco e piatto di panico. Il suo silenzio si fece più profondo.
«Che cosa ha detto di aver trovato così agghiacciante nella morte della vittima?» domandò Alicia.
«Che era stato costretto a guardare…»
«Ricorda chi cercasse lei nelle foto della vittima?»
«Mia madre.»
«Perché?»
«Non lo so.»
Nel silenzio che seguì Alicia si alzò, accese un bollitore elettrico e preparò una tisana, cercò a tentoni delle tazze cinesi, versò la bevanda e tornò a stringergli il polso.
«È interessato alla fotografia?» gli domandò.
«Lo ero fino a poco tempo fa», rispose Falcón. «In casa ho perfino una camera oscura. Mi piace la fotografia in bianco e nero, mi piace sviluppare le mie immagini.»
«Che cosa cerca, che cosa vede nella fotografia?»
«Vedo una memoria.»
Le disse dei filmini che aveva visto quel pomeriggio, di come lo avessero fatto piangere.
«Andava spesso al mare da bambino?»
«Oh, sì, a Tangeri la spiaggia era proprio attaccata alla città… voglio dire, era praticamente
«Lei e sua madre.»
«Si sta chiedendo dove fosse mio padre?»
Alicia non replicò.
«Mio padre lavorava, aveva uno studio affacciato sulla spiaggia. Ogni tanto io andavo a trovarlo nello studio. Lui ci osservava, però, questo lo so con precisione.»
«Vi osservava?»
«Aveva un binocolo. Qualche volta me lo lasciava usare, mi aiutava a individuarli… la mamma, Manuela e Paco sulla spiaggia. Diceva che quello era un segreto fra noi. 'E il mio modo di tenervi d'occhio.'»
«Tenervi d'occhio?»
«Le ho dato l'impressione che ci spiasse?» domandò Falcón. «Ma non ha senso! Perché un uomo dovrebbe spiare la sua famiglia?»
«In quei film di famiglia che ha visto oggi si vedeva il padre?»
«No, era dietro la cinepresa.»
Gli chiese perché avesse guardato quei film e Falcón le raccontò tutta la storia di Raúl Jiménez. La donna lo ascoltò affascinata, interrompendolo solo per cambiare il nastro.
«Ma perché ha guardato quei film?» gli domandò di nuovo alla fine del racconto.
«L'ho appena detto», rispose Falcón, «è quasi mezz'ora che…»
Si fermò per riflettere a lungo, minuti di una complessità interminabile.
«Le ho detto che per me la fotografia è memoria», disse. «Sono attirato dalle fotografie perché ho un problema di memoria. Le ho detto che andavo al mare con la mia famiglia, ma in realtà io non lo ricordo. Non lo vedo. Non si tratta di qualcosa che è dentro di me e che posso richiamare alla memoria. Ho dovuto inventare per riempire i vuoti. So che andavamo sulla spiaggia, ma non lo ricordo come una mia esperienza. Ha senso quello che dico?»
«Perfettamente.»
«Voglio vedere i film e le foto per stimolare la mia memoria», continuò Falcón. «Quando ho parlato con lui della sua tragedia familiare, José Manuel Jiménez mi ha detto di avere difficoltà a ricordare la sua infanzia Io ho provato a pensare al
«Ora può rispondere alla domanda che le ho rivolto prima? Perché legge quei diari?»
«Sì, sì!» esclamò Falcón, come se qualcosa fosse scattato in lui. «Sto disubbidendo a mio padre perché penso che i diari possano contenere i segreti della mia memoria.»
Il registratore si spense. Nella stanza si diffusero i rumori distanti della città. Falcón aspettò che Alicia cambiasse il nastro, ma la donna non si mosse.
«Per oggi basta così», disse.
«Ma abbiamo appena cominciato!»
«Lo so. Ma non riusciremo a sciogliere i suoi nodi in una seduta. È un processo lungo. Non esistono scorciatoie.»
«Ma siamo… abbiamo cominciato a toccare i punti…»
«Proprio così. È stata una buona prima seduta», disse Alicia. «Voglio che lei rifletta un po', voglio che si interroghi sulle somiglianze tra la famiglia Jiménez e la sua, se ne vede qualcuna.»
«Entrambe le famiglie hanno lo stesso numero di figli… io ero il minore…»
«Non ne parleremo adesso.»
«Ma ho bisogno di fare progressi!»
«Li ha fatti, ma la mente umana può sopportare solo una certa quantità di realtà. È necessario che si abitui.»
«Realtà?»
«È ciò che ci stiamo sforzando di raggiungere.»
«Ma dove siamo ora, se non nella realtà?» domandò Falcón, spaventato da quel pensiero. «Non so chi sia immerso nella realtà più di me, sono un investigatore della squadra omicidi, il mio lavoro riguarda la vita e la morte, non si può essere a contatto con la realtà più di così.»
«Ma non è la realtà di cui stiamo parlando.»
«Mi spieghi.»
«La seduta è finita.»
«Mi spieghi solo questo!»
«Farò un esempio fisico», disse Alicia.
«Quello che vuole… Devo capire.»
«Dieci anni fa ruppi un bicchiere e, mentre stavo raccogliendo i pezzi, una minuscola scheggia mi entrò nel pollice. Non riuscii a estrarla, ma il medico preferì lasciarla stare per timore di ledere un nervo. Nel corso degli anni ogni tanto il dito mi faceva un po' male, ma niente di più, e nel frattempo il corpo si difendeva da quel pezzetto di vetro, avvolgendolo in strati di pelle fino a farlo diventare come un sassolino. Poi, un giorno, il corpo estraneo fu espulso dal corpo, il sassolino salì verso la superficie e, con l'aiuto di un po' di solfato di magnesio, uscì dal pollice.»
«E questa sarebbe la sua spiegazione sulla specie di realtà di cui stiamo parlando?»
«Le schegge di vetro possono entrare anche nella mente», ribatté Alicia e la sola idea diede la nausea a Falcón. «Talvolta queste schegge sono troppo dolorose per poterle affrontare e le cacciamo nel fondo del nostro cervello, pensando di poterle dimenticare, nascondendole sotto strati numerosi di… bugie. Così le teniamo a bada, finché un giorno accade qualcosa e, senza nessuna ragione apparente, la scheggia comincia a risalire verso la nostra parte conscia. La differenza è che non possiamo applicare il solfato di magnesio per far uscire la scheggia di vetro dall'inconscio.»
Falcón si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro nella stanza. L'idea di quelle minuscole schegge che affioravano alla superficie lo stava spaventando, quasi gli sembrava di sentirle scricchiolare nella testa come… come ghiaccio che si fendesse. Un'altra analogia fisica?
«Lei ha paura», disse Alicia. «È del tutto normale. Non è una cosa facile, richiede un grande coraggio. Ma la ricompensa finale è enorme, è la vera pace interiore e la rinascita a ogni possibilità.»
Falcón ridiscese le scale, allontanandosi dalla luce della porta di Alicia per uscire nella strada buia, riflettendo su quell'ultima frase: la psicoterapeuta aveva pensato, evidentemente, che la fine di ogni possibilità fosse per lui molto vicina, bisognava accettare questo fatto.
S'incamminò di fretta accanto a un gruppo di giovani diretti in centro. La maggior parte delle vie era deserta, ancora in preda ai postumi dell'estasi e degli eccessi della Semana Santa. I bar, chiusi, avrebbero riaperto soltanto l'indomani, i
Le voci tacquero. Javier non provava nessun desiderio di tornare a casa e decise che avrebbe continuato a camminare così ancora per qualche ora. Cominciò a pensare alla famiglia Jiménez, confrontandola con la sua. Sì, anche la sua famiglia era stata distrutta… no, distrutta era un'esagerazione. La morte improvvisa di sua madre non li aveva distrutti, ma danneggiati sì, come quelle sottilissime crepe sulla superficie della porcellana. Rivide il viso sconvolto del padre mentre il suo sguardo passava da Paco a Manuela a Javier; e in certo modo rivide anche se stesso, l'espressione sgomenta, la bocca spalancata, incapace di ritrovare il respiro dopo che gli era stato portato via tutto il suo mondo. Quei pensieri fecero affiorare in lui qualcosa di oscuro e di terribile, tanto che accelerò il passo sul selciato rilucente come seta.
Gli vennero alla mente giorni migliori, il ricordo gioioso di Mercedes, la donna che sarebbe diventata la seconda moglie di suo padre. Javier le aveva subito voluto bene. E ora il suo sentimento era imbrattato dalla fotografia trovata nell'appartamento di Raúl Jiménez: suo padre aveva una relazione con lei da prima della morte della moglie. Un pensiero che smosse in lui qualcosa di più terribile ancora, e Falcón si mise quasi a correre attraversando la plaza Nueva, i tronchi e i rami degli alberi avvolti in luci magiche. Era Natale ogni giorno ormai. Fissò con aria assente le vetrine perfettamente illuminate di Max Mara, i modelli su manichini perfetti. Si augurò una vita meno complicata, dove non vi fossero quei pensieri e quelle emozioni che lo scorticavano dentro, lasciandolo esternamente quasi intatto, ma sanguinante dentro come dopo l'esplosione di una bomba.
Il sudore gli sprizzava dalla fronte mentre percorreva quasi di corsa calle Zaragoza; gli parve di avvertire un certo appetito e pensò di andare da El Cairo per una
Illuminata di spalle, in piedi sull'ultimo gradino della scala, c'era Inés. Qualcuno la stava aiutando a infilarsi il cappotto. Aveva i capelli raccolti sulla nuca e si pettinava così soltanto quando voleva essere attraente e sexy, mai per occasioni di lavoro. Falcón non riuscì a vedere in faccia l'uomo che era con lei mentre i due uscivano dal locale e si avviavano lungo la strada buia, tenendosi a braccetto, in direzione della Reyes Católicos. Nessun altro con loro, era stata una cena per due. Inés si voltò, fermandosi un istante, e Falcón si immobilizzò, poi i tacchi alti risuonarono sul selciato mentre lei affrettava il passo per raggiungere il compagno. Javier li seguì tenendosi sull'altro lato della strada, la fame e la stanchezza scomparse ora che la mente aveva ricevuto quel nuovo combustibile.
La coppia attraversò la Reyes Católicos, passando davanti al bar La Tienda, chiuso, poi tagliò per i vicoli verso calle Bailén e girò dietro il museo sbucando sulla piazza, così che Falcón dovette tenersi a distanza finché non li ebbe visti scomparire nella calle San Vicente. Dopo qualche momento li seguì, ma la via era ormai deserta. La percorse avanti e indietro per un centinaio di metri, domandandosi se non avesse immaginato tutto quanto o se l'uomo non avesse un appartamento lì, in quella strada, a meno di un chilometro daña via in cui abitava Falcón.
Si ritirò in casa, la fame sparita, in preda allo sfinimento della sconfitta, in rotta come un intero esercito. La doccia non servì che a farlo sentire più pulito. Prese una pillola per dormire e si infilò sotto le coperte, rimanendo a fissare il soffitto che pareva arretrare all'infinito, ipnotizzato come se fosse stato al centro di una strada fra i bagliori accecanti dei fari. Si disse che doveva resistere, che era pericoloso addormentarsi al volante, non più in grado di capire dove fosse, tanto grande era la confusione nella sua testa. Protese una mano, aspettandosi che tutto quanto sfuggisse al controllo, che all'improvviso il suo campo visivo includesse uno sbarramento, una sponda, un albero fatale contro cui schiantarsi. Volò nel sonno come attraverso un parabrezza, dentro la notte.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
XXI
Falcón, convinto che il Raúl dei diari di suo padre altri non fosse che Raúl Jiménez, chiamò Ramón Salgado, che gli confermò i suoi programmi: il gallerista avrebbe cenato presto a Madrid, avrebbe preso il treno ad alta velocità e sarebbe stato di ritorno a casa verso l'una di notte. La mattina seguente aveva un altro appuntamento e la sua segretaria, Greta, gli propose di vederlo per colazione, un incontro anche troppo lungo per Falcón, che non desiderava trascorrere tanto tempo con Salgado; d'altro canto sarebbe stato divertente vedere la faccia del vecchio mercante nel sentir nominare la MCA Consultores.
La Jefatura era quieta e Falcón si appoggiò allo schienale cercando nella memoria un caso in cui il nome di Raúl Jiménez fosse stato pronunciato da Francisco Falcón. Nel 1961, quando sua madre era morta, suo padre non faceva altro che dipingere. Javier non riusciva a ricordare che si fosse mai occupato di affari e da quando si era stabilito a Siviglia nessuno con quel nome era mai venuto nella loro casa. Era sorprendente, inoltre, che suo padre non figurasse tra le foto delle celebrità di Jiménez. Evidentemente si erano persi di vista.
Dondolandosi sulla sedia girevole, diede un'occhiata ai rapporti della squadra. Si segnalava un'auto a cinque porte grigia intorno alla piccola area industriale alle spalle del cimitero. A uno degli uomini della sorveglianza era sembrata una Golf, all'altro una Seat. La targa era troppo sporca per essere leggibile, anche se uno dei due aveva visto le prime lettere, SE, sigla che la qualificava come una targa di Siviglia. Il rapporto di Serrano riferiva che solo le auto che si comportavano in modo sospetto venivano notate e quella macchina grigia aveva girato lentamente intorno alle fabbriche dietro al cimitero.
Il rapporto di Pérez sulle Mudanzas Triana era ben fatto e approfondito: aveva perfino inserito una pianta del magazzino con l'indicazione dello spazio affittato da Jiménez. Colloqui prolungati con il capodeposito, con il signor Bravo e con gli altri dipendenti avevano dimostrato che sarebbe stato impossibile per l'assassino avere il tempo necessario per tutte le riprese della
Fernández aveva mostrato la foto di Eloisa Gómez a tutte le persone incontrate nel cimitero. Nessuno ricordava di averla vista. Gli addetti alla manutenzione del verde non lavoravano di sabato e di domenica. L'area destinata alla raccolta dei rifiuti era cintata da una fitta siepe. Secondo Fernández, sarebbe stato più che possibile uccidere Eloisa Gómez e nasconderla lì il sabato mattina: quel giorno i cancelli del cimitero si aprivano alle otto e trenta, ma prima delle dieci i visitatori erano poco numerosi.
Dopo aver scorso i rapporti, Falcón si dedicò a elaborare la serie di domande destinata a far crollare le solide difese di Consuelo Jiménez, ammesso che ne avesse ancora.
Arrivò la squadra e Falcón mise tutti al corrente dei progressi, progressi lenti, e riconfermò tre uomini nel lavoro al cimitero e nella zona industriale. Pregò Ramírez di uscire, disse a Pérez di non essere convinto che egli avesse l'entusiasmo necessario per quel caso e lo destinò a un'altra indagine. Pérez se ne andò, furioso.
Ramírez rientrò e rimase in piedi accanto alla finestra, rigirandosi l'anello sul dito, con l'aria di voler picchiare qualcuno. Aveva capito perfettamente quanto era successo. Falcón gli ordinò di accompagnare qualcuno della scientifica nella stanza di Eloisa Gómez per una ispezione accuratissima. Ramírez uscì senza aprire bocca. Falcón chiamò allora Consuelo Jiménez, la quale, come al solito, accettò di vederlo immediatamente.
Si incontrarono nell'ufficio vicino a plaza de la Alfalfa. La signora Jiménez, avendo intuito che Falcón era ben armato, tentò qualche tattica diversiva e lo lasciò solo per cinque minuti mentre supervisionava la preparazione del caffè da offrirgli.
«Non è soddisfatto del rapporto dell'Inspector Ramírez sulla nostra… discussione?» domandò alla fine appoggiandosi allo schienale della poltrona, la tazzina di caffè in mano, le gambe accavallate, il piede che si muoveva su e giù.
«Sì, considerando com'è andata. È un bravo poliziotto e un uomo sospettoso. Sa quando qualcuno mente, non dicendo la verità o tacendola. Lei ha soddisfatto la sua curiosità su due punti.»
«Siamo tutti bugiardi, Inspector Jefe. Siamo programmati per mentire. Io voglio molto bene ai miei figli e tutto sommato sono dei bravi ragazzi, ma… dicono bugie. Hanno l'istinto di mentire. Pensi a tutte le volte che sua madre entrava nella stanza e chiedeva chi avesse rotto quel bicchiere o quel piatto e a quante volte si sentiva rispondere: 'È caduto da solo'. Gli esseri umani sono ambigui.»
«Crede forse che nel mio lavoro io tratti con persone che
«E quindi sprecate tempo con me.»
«Lei non è del tutto sincera con noi.»
«Ho un'unica regola di condotta nella mia vita, non mentire mai a me stessa.»
«E tutte le altre forme di menzogna sono ammissibili?»
«Provi a immaginare un'intera giornata in cui si dica sempre la verità», ribatté lei. «Il danno che si farebbe. Non funzionerebbe nulla, la politica crollerebbe, il mondo dei tribunali andrebbe in pezzi, sarebbe assolutamente impossibile concludere una sola trattativa d'affari. E questo perché sono tutti sistemi creati dall'uomo in modo da poter realizzare le cose. Perfino nel mondo della matematica e della fisica si deve ancora operare con dati imperfetti, per arrivare alla verità definitiva. No, Inspector Jefe, non si può ottenere verità senza menzogna.»
«E dove ha avuto la possibilità di sviluppare ragionamenti tanto filosofici?»
«Non a Siviglia», rispose Consuelo Jiménez. «Nemmeno Basilio Lucena
«Mio padre sarebbe stato d'accordo con lei», disse Falcón. «Pensava che l'università fosse solo un'occasione offerta a qualche idiota per imprimere nella mente dei suoi studenti ridicoli sistemi di pensiero.»
«Mi piaceva suo padre… enormemente. Gli ho perfino perdonato il suo piccolo inganno nel vendermi le sue copie 'originali'.»
Falcón si agitò sulla sedia. Quella donna sapeva come premere sui punti dolenti.
«Immagino che una delle sue qualità nella conduzione dei ristoranti sia la parsimonia», osservò. «Purtroppo l'ha applicata anche nel reparto sincerità, tutto qui… spero.»
«Sono ben confezionata, Inspector Jefe, ho imparato a presentare me stessa. Ma ora lei e forse metà della Jefatura sapete di me cose che io sola conoscevo. Ma le conoscevo. Ho convissuto con questi segreti quasi quotidianamente. Certo, non sono contenta che siano stati portati allo scoperto, come è successo di recente, ma ho represso fermamente ogni eventuale impulso a rimuovere. Una volta avviati su quella strada, si arriva facilmente all'oblio. Non è una strada facile da ripercorrere, mio marito è arrivato all'unico possibile sbocco della
«Però non è stato per sua volontà che è morto.»
«Si è trasformato in una vittima, ha cominciato a muoversi in un mondo pericoloso. Io ci ho messo solo la punta del piede e so quanto è freddo. Mio marito ne avrebbe compreso soltanto un aspetto, e cioè che il sangue che scorre nelle vene da rettile di quel mondo è il denaro. Ma che cosa crede che vedesse quella gente in uno come Raúl? Glielo dico io. Non vede la grande forza che gli è stata necessaria per diventare un uomo d'affari di successo, vede le sue debolezze, vede un cieco che brancola in un mondo oscuro.»
«Lei mi sta offrendo una teoria», osservò Falcón.
«Ieri ho dovuto ascoltare l'Inspector Ramírez che mi presentava la
«Un impero che suo marito cercava di vendere.»
«Sì, l'Inspector Ramírez ha attribuito un grande rilievo a questo particolare», ammise la donna. «Ma uccidere la prostituta, Inspector Jefe, trasportare il cadavere nel cimitero, nella cappella Jiménez… non mi sembra affatto l'opera di un killer professionista.»
«Mi sorprenderebbe che una donna come lei disponesse di una scelta di killer professionisti, penserei piuttosto che dovesse ricorrere a qualcuno da poter…
«Non mi esporrei mai fino a quel punto con nessuno: sarei nelle mani di quella persona per tutta la vita», ribatté Consuelo Jiménez accendendosi una sigaretta. «Però, mi creda, Inspector Jefe, so perché continuate a bussare alla mia porta.»
«Non è per mancanza di altre porte a cui bussare», mentì Falcón. «È perché non veniamo mai via di qui del tutto soddisfatti, rimane sempre qualcosa in sospeso. L'altro giorno lei ha detto che non esiste nessuna pratica relativa alla presidenza di suo marito della commissione per l'Expo '92. Ieri ha detto all'Inspector Ramírez che poteva ispezionare solo le casse contenenti i filmini domestici e nessun'altra. L'ha minacciato…»
«Be', ora mi sta rivelando un'altra cosa, che perfino la Jefatura può cadere nelle trappole della cultura dell'ambiguità», affermò la donna, esilarata. «Siete liberi di frugare in quelle casse quanto vi pare, per me sono storia antica, non hanno nulla a che vedere con la mia vita con Raúl. Quel suo Inspector Ramírez è una specie di toro da corrida.»
«Dunque lei non farebbe che questo, è così? Difendere la sua vita privata?»
«Perché dovrei farvi invadere aree che non riguardano le vostre indagini?»
«Come sa che non le riguardano?»
«Perché non ho ucciso mio marito e non l'ho fatto uccidere.»
«La sua reticenza ci costringe a essere invadenti.»
«Mi dica che cosa ha in mano, Inspector Jefe, non sopporto più questo tira e molla.»
«Vorrei sapere che cosa sa Marta Jiménez delle misure di sicurezza nella progettazione di edifici destinati ad accogliere grande affluenza di pubblico.»
La donna batté le palpebre e spense la sigaretta.
«Vorrei sapere quale fosse la natura del rapporto tra suo marito ed Eduardo Carvajal.»
Consuelo Jiménez accese un'altra sigaretta.
«Mi interesserebbe sapere se vi fossero altri accordi di affari con… come si chiamava? Uno dei vecchi amici di Tangeri di Raúl…»
«Non giochi con me, Inspector Jefe.»
«Ramón Salgado.»
La donna deglutì e riprese a fumare. Il fruscio metallico del nylon arrivò alle orecchie di Falcón quando lei mosse le gambe l'una sull'altra.
«Non parlerò di questi argomenti senza la presenza del mio avvocato», dichiarò la signora Jiménez.
«Non mi sorprende.»
«Ma le dirò una cosa: questa pista non risolverà il suo caso di omicidio.»
«Come fa a esserne così sicura? Parla sempre come se sapesse tante cose. Dovrebbe capire che è questa sua reticenza a indurre un certo comportamento nella Jefatura.»
«Sto proteggendo i
«Conosceva Salgado prima di venire a vivere a Siviglia?»
Silenzio.
«L'ha conosciuto nell'ambiente dell'arte a Madrid?»
Altro silenzio.
«È stato Ramón Salgado a presentarle Raúl Jiménez?»
«Lei è come un chirurgo poco esperto, Inspector Jefe. Apre la gente e fruga all'interno per cercare un pezzo malato da tagliare. Sono preoccupata all'idea che possa tagliare un organo perfettamente sano, tanto per far vedere di aver concluso qualcosa.»
«Collabori, Doña Consuelo, non le chiedo altro.»
«Ho collaborato con lei nelle indagini sull'assassinio di mio marito. Ammesso che io sia reticente, lo sono solo quando lei vuole entrare in settori che non dovrebbero riguardare chi indaga su un omicidio.»
«Sarebbe disposta a collaborare con qualcuno inviato da Madrid? Uno di quegli investigatori con poteri speciali, esperti nelle indagini sulla corruzione e le frodi?»
«In genere le minacce rendono gli altri aggressivi.»
«Stiamo diventando bellicose?»
«So chi è stato a cominciare», affermò la donna, spegnendo il mozzicone di sigaretta.
Si guardarono attraverso il fumo della battaglia.
«Lei è una donna dotata di intuizione», riprese Falcón. «Sa a che cosa io sia interessato. E la malversazione e la frode mi interessano molto relativamente. Mi rendo conto che negli affari si hanno favori da restituire, si deve dimostrare apprezzamento per gli amici, pagare un anticipo sulla parola buona bisbigliata nell'orecchio giusto o ricompensare un silenzio. Che lo si faccia con denaro pubblico è comprensibilmente vantaggioso, solo lo stato ha forzieri così capaci.»
«Mi fa piacere che abbia ritrovato le sue buone maniere», disse lei.
«Posso comprendere i rapporti di suo marito con tutte queste persone… tranne una», continuò Falcón. «Eduardo Carvajal. E non sono in grado di chiederlo a lui perché non è più tra noi.»
«Credo che sia morto in un incidente stradale.»
«Qualche anno fa», confermò Falcón. «Faceva parte di un giro di pedofili, in seguito tutti condannati.»
«Provo pena per lei, Inspector Jefe. È costretto a passare il suo tempo nei luoghi più freddi e tenebrosi della terra.»
«Suo marito si è innamorato della prima moglie quando lei aveva appena tredici anni.»
«Come fa a saperlo?»
«Due fonti. Il figlio maggiore di suo marito e i diari di mio padre.»
«Suo padre e Raúl si conoscevano?»
«Sono stati in affari insieme per qualche anno a Tangeri.»
«Quale genere di affari?»
«Credo che ora tocchi a me essere riservato, Doña Consuelo», le fece notare Falcón.
«In ogni caso… quello che ha detto prima… l'attrazione di Raúl avrebbe potuto essere del tutto innocente», disse la signora Jiménez. «Senza dubbio non era illegale.»
«La prostituta con cui si incontrava, Eloisa Gómez, non era minorenne, ma certamente lo sembrava.»
«Però ha sposato me e con me ha avuto tre figli.»
«Non ricominciamo a essere bellicosi, Doña Consuelo. Voglio soltanto sapere perché suo marito abbia sentito il bisogno di ricompensare Eduardo Carvajal», disse Falcón. «Noi stiamo parlando in via non ufficiale e niente di quanto vorrà dirmi potrà essere ritenuto ammissione di colpa. Voglio un'indicazione, tutto qui.»
«Mi muovo con molta cautela quando mi viene presentato qualcosa che apparentemente è a mio vantaggio.»
«Sono certo che anche qui a Siviglia lei ha un orecchio molto ben sintonizzato per cogliere lo scricchiolio dei ghiacci.»
«Non servirebbe a molto se si fosse già distanti dalla sponda del fiume.»
«Allora si muova con cautela.»
Consuelo Jiménez giocherellò con un'altra sigaretta e con l'accendino.
«Lei ha una nuova teoria», disse alla fine.
«Io conduco un'indagine, il mio compito è pensare in modo creativo a proposito di problemi insolubili. Non cambio una teoria senza motivo, ma in assenza di una breccia è mio dovere esaminare nuove possibilità.»
«Non avevo idea che il lavoro nella polizia richiedesse tanto.»
«Dipende da come lo si affronta.»
«E
«Non ha mai apprezzato molto la mia decisione di entrare nella polizia.»
«Immagino che anche il dopo Franco abbia avuto la sua dose di indesiderabili», osservò la donna. «Che cosa l'ha indotta a farlo?»
«Romanticismo.»
«Si è innamorato di una donna poliziotto?»
«Mi sono innamorato dei film americani. Ero affascinato dall'idea della lotta individuale contro lo schieramento delle forze del male.»
«È stato come immaginava?»
«No. È molto più confuso. Raramente il male ci fa il favore di essere puro male. E noi della prima linea non siamo sempre buoni come dovremmo.»
«Lei sta riaccendendo la mia ammirazione, Don Javier.»
L'idea di poter accendere qualcosa in lei gli suggerì una bizzarra forma di soddisfazione, piccole luci lampeggiarono in qualche zona misteriosa della colonna vertebrale. La donna accese la sigaretta, soffiò il fumo verso l'alto.
«Eduardo Carvajal…» sussurrò Falcón, per rinfrescarle la memoria.
«E così lei pensa che l'assassino di mio marito possa essere un ex bambino violentato che si sia voluto vendicare?» domandò la signora Jiménez. «Io non lo credo, Don Javier. Raúl non ha mai avuto certe tendenze…»
«Un giro di pedofili di rado ha come vittima un solo bambino, sono in genere numerosi e i gusti sono diversi. Forse è un ex bambino violentato che cerca vendetta per conto di altri.»
«E pensa che una persona così ucciderebbe anche la prostituta? Non la considererebbe piuttosto una compagna di sventura?»
«Secondo la sorella di Eloisa Gómez era entrato in intimità con lei al punto da infonderle speranza. Se in seguito la ragazza avesse capito che l'aveva cercata solo perché gli serviva, avrebbe potuto diventare pericolosa. Per esempio, un giorno avrebbe potuto avere bisogno di fare un patto di scambio con la polizia. Sarebbe stato troppo rischioso lasciarla in vita.»
«È una sua ipotesi.»
«La ritengo plausibile soltanto a causa della ricompensa che suo marito ha dato a Carvajal.»
«Lo sa quello che sta facendo, Don Javier?»
«No.»
«Mi sta facendo lavorare.»
«Non sa perché?»
«Non ho mai conosciuto il signor Carvajal.»
«Potrebbe voler dire che tra suo marito e lui non vi erano rapporti di lavoro», suggerì Falcón. «Altrimenti lei ne sarebbe stata al corrente, no?»
«Non aveva a che fare con i ristoranti.»
«So soltanto che era un uomo di affari», disse Falcón, alzandosi.
«Se ne sta andando?» domandò la donna.
«La nostra trattativa è conclusa.»
Consuelo Jiménez si sporse verso di lui e lo guardò con i suoi occhi azzurro ghiaccio.
«Sa, quando tutto questo sarà finito, Don Javier, lei e io dovremmo andare a cena insieme.»
«Potrebbe rimanere delusa.»
«Perché?»
«Non riusciremmo mai a ricreare la dinamica stuzzicante tra lei principale indagata e me investigatore capo.»
Consuelo Jiménez si mise a ridere, una risata di gola, irrefrenabile, invitante.
«Un'altra cosa», disse Falcón sulla soglia. «Vorremmo dare un'occhiata ai tabulati delle vostre telefonate degli ultimi due anni, sia dell'azienda, sia di casa. Può metterli a nostra disposizione?»
I loro sguardi si incontrarono. La donna scosse la testa, sorrise e alzò il ricevitore.
XXII
Falcón camminava nervosamente davanti all'ufficio di Calderón. Gli aveva telefonato dopo il suo incontro con Consuelo Jiménez e si erano accordati per vedersi alle sei. Erano già le sette e le segretarie che andavano avanti e indietro avevano ormai rinunciato alle occhiate di comprensione. Era contento di non dover fare anticamera davanti all'ufficio di un
Passeggiando su e giù davanti all'ufficio di Calderón fu all'improvviso colpito dall'idea che, in fondo, si era trattato solo di sesso. Era stato travolto non soltanto dal suo desiderio, ma anche da quello di tutti gli altri. Aveva frainteso, come aveva frainteso Inés, avevano creduto che fosse una cosa vera, ma non lo era: una passeggera attrazione fisica era stata dirottata altrove dal bisogno generale di lieto fine romantico e ciò che avrebbe dovuto essere qualche mese di sesso scatenato era stato trasformato in un matrimonio riparatore, solo che a volerlo non era stato il padre armato di fucile: era stato il sentimento.
Il dottor Spinola, il Magistrado Juez Decano de Sevilla, uscì dall'ufficio di Calderón. Si fermò per stringere la mano a Falcón e parve sul punto di rivolgergli qualche domanda inopportuna. Ma cambiò idea. Calderón invitò l'Inspector Jefe a entrare, scusandosi per averlo fatto aspettare.
«Non è facile liberarsi del dottor Spinola», disse Falcón.
Calderón non lo stava ascoltando. Frugava nella sua scatola cranica in cerca di qualcosa e nel frattempo tendeva una mano verso una sigaretta, l'accendeva e inspirava profondamente.
«È la prima volta in assoluto che viene in uno dei nostri uffici per discutere di un caso specifico», disse infine alla parete al di sopra della testa di Falcón. «Normalmente sono io ad andare da lui per fargli un resoconto generale.»
«Che cosa lo preoccupa tanto?»
«Bella domanda», convenne Calderón. «Non lo so, sono confuso.»
«Se ha a che vedere con il nostro caso, allora forse posso aiutarla», suggerì Falcón.
In una frazione di secondo Calderón valutò la situazione. Riducendo il problema a una questione di istinto, guardò l'ispettore capo, pensando: posso fidarmi di quest'uomo? Decise di no, ma di stretta misura. Se avessero potuto condividere qualche altro momento come quello nel cimitero, si disse Falcón, Calderón si sarebbe confidato con lui.
«Che cos'ha per me, Inspector Jefe? Senza Ramírez, oggi?»
Falcón non aveva portato con sé Ramírez perché desiderava instaurare un rapporto personale con Calderón e al tempo stesso impedire l'accesso dell'ispettore alle informazioni, escluderlo dal quadro più vasto, per confinarlo nelle parti secondarie del rompicapo. Ora aveva di nuovo cambiato idea. L'incontro con il dottor Spinola gli suggeriva di procedere con cautela. Forse non era poi un'idea così buona lasciar circolare nei corridoi dell'Edificio de los Juzgados il nome di Carvajal. Il suo non era un ragionamento logico, si fondava solo sul tenue legame costituito dalla presenza di Spinola nelle foto delle celebrità di Jiménez insieme con León e Bellido e dal fatto che Carvajal fosse stato sul libro paga della MCA Consultores. Lasciar trapelare la notizia con Consuelo Jiménez era stato un rischio calcolato. In primo luogo aveva voluto vedere se lei ne fosse a conoscenza, cosa che non era riuscito ad accertare, e in secondo luogo era certo che la signora Jiménez lo avrebbe visto solo come un modo per allentare la pressione su di sé. Se Falcón avesse reso la notizia ufficiale tramite il Juez Calderón, forse vi sarebbero state ripercussioni imprevedibili, forse sarebbe arrivato tutto quanto sulla scrivania del Comisario León. L'unico problema era che adesso non aveva più niente da dire a Calderón, perché di quell'unica cosa che avrebbe dovuto riferirgli non voleva parlare.
«Lei aveva avuto un'idea prima che fossimo interrotti dal messaggio di Sergio», disse.
«Sergio?»
«Il nome che abbiamo dato all'assassino. Era quello che usava con Eloisa Gómez», spiegò Falcón. «Se ben ricorda, avremmo dovuto metterci in contatto con lui, fargli notare i suoi errori per irritarlo e indurlo a commettere altri errori più fatali.»
«Ha lasciato quel cellulare sul cadavere», disse Calderón.
«Però ha ancora quello di Raúl Jiménez.»
«Abbiamo saputo qualche altra cosa su Sergio, da quando ha preso questo nome?»
«Eloisa Gómez e sua sorella parlavano tra loro di lui come di un tipo fuori degli schemi, un
«Uno straniero?»
«
«Tutto piuttosto enigmatico, Inspector Jefe.»
«Non ai margini della società, dove la gente si è allontanata dalla vita normale, dove, per esempio, ogni giorno si vende il proprio corpo per il sesso o si spara a qualcuno perché non paga. All'altro capo della scala non è poi così diverso. Chi ha il potere, chi sa come avere di più e come mantenere la propria posizione, non vede la realtà come la gente normale, la gente che deve pensare al lavoro, ai figli e alla casa.»
«E crede che un artista, così lei ha definito l'assassino al cimitero, avrebbe questo stesso modo insolito di ragionare?» domandò Calderón.
«Si adatta al profilo del nostro uomo», disse Falcón. «Anche lei ha pronunciato la parola 'straniero'. Eloisa Gómez ha detto a sua sorella che Sergio, pur spagnolo in apparenza, aveva qualcosa dello straniero. Forse aveva sangue straniero nelle vene o era stato lontano dalle sue radici spagnole per lungo tempo.»
«In che modo questo potrebbe modificare il nostro approccio?»
«Credo che fargli notare i suoi errori sia un sistema troppo ovvio, lo troverebbe risibile. I
«Forse dovremmo fargli vedere che noi capiamo lui.»
«Ma come artista», insistette Falcón. «Non dobbiamo essere prosaici, dobbiamo incuriosirlo come lui incuriosisce noi. Non abbiamo ancora capito che cosa volesse dire con l'ultima 'lezione di vista'. Perché 'devono morire coloro che amano l'amore'?»
«Non ci stava solo dicendo che l'aveva ammazzata perché lo aveva visto? Il dono della vista perfetta?»
«Ma 'coloro che amano l'amore'? Ce la sta presentando come un emblema e per questo emblema ha scelto una prostituta. Cerca di modificare il modo in cui vediamo la realtà e noi dobbiamo fare la stessa cosa, dobbiamo tentare di fargli vedere qualcosa come se fosse la prima volta.»
«Questo significa che ci basta avere un genio tra noi», osservò Calderón. «Non dovrebbe essere difficile, sembra che questo edificio ne sia pieno, stando a quello che mi viene detto.»
«Prendiamo a prestito il genio dai classici», suggerì Falcón. «Lui è un poeta e un artista… questo è il suo linguaggio.»
«
«Anche in questo modo potremmo irritarlo», disse Falcón.
«Ma che cosa vogliamo ottenere con una simile strategia?» domandò Calderón. «Che cosa vogliamo da lui?»
«Stiamo cercando di coinvolgerlo, di iniziare un dialogo, di indurlo a parlare. Vogliamo che cominci a fornirci qualche informazione.»
Falcón, perdendosi d'animo all'ultimo momento, digitò la frase di Cervantes sul suo cellulare e la inviò come messaggio, poi i due uomini rimasero lì seduti, sentendosi stupidi, il loro mondo investigativo ridotto all'assurdità di spedire frasi di Cervantes nell'etere.
Tornati alle loro risorse, non avevano però un punto di contatto, a parte il riconoscimento dell'intelligenza reciproca. Falcón non avrebbe parlato di calcio e Calderón non lo avrebbe costretto a farlo.
«L'altra sera ho visto un film in cassetta», disse Calderón. «
«Non ancora», rispose Falcón e accadde una cosa strana, la sua memoria si spalancò per un attimo e per un secondo fu di nuovo a Tangeri: sguazzava nell'acqua bassa e poi strillava beato, sollevato in aria.
«Sa che cosa mi ha colpito di quel film?» riprese Calderón. «Nei primissimi minuti il regista crea questo rapporto incredibilmente intimo tra la madre e il figlio. Poco dopo il ragazzo viene ucciso. E… non ho mai avuto un'esperienza simile; quando il figlio muore è come se fossimo la madre, si è certi di non potersi mai più riprendere da quella perdita terribile. A mio parere questo è genio. Cambiare un mondo in pochi metri di celluloide.»
Falcón avrebbe voluto dire qualcosa, avrebbe voluto reagire positivamente, perché, una volta tanto, non era semplicemente un parlare del più e del meno, c'era qualcosa di profondo, ma era troppo grosso, non riuscì a tirarlo fuori, a esprimerlo se non con le lacrime che gli riempirono gli occhi e che scacciò subito. Calderón, inconsapevole della lotta interiore di Falcón, scuoteva la testa stupito.
«È arrivato qualcosa», disse il magistrato, prendendo il cellulare.
Lesse le parole sul piccolo schermo. L'espressione accigliata si trasformò in una di sofferenza.
«Parla francese?» domandò, allungando il telefonino a Falcón. «Voglio dire, è semplice, ma… stranissimo.»
Falcón si sentì quasi male, in preda a una forte nausea.
«L'ho capito», disse Calderón, «ma che significa?»
«'Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so'» tradusse Falcón. «E c'è di più: 'Non metterti più in contatto con me,
«Ci ha risposto per le rime», ammise Calderón. «Ma che cosa ha voluto dire?»
«Non ha saputo resistere», spiegò Falcón. «Doveva dimostrarci di saper fare meglio di noi.»
«Ma in che modo?»
«Credo che abbia studiato il francese», disse Falcón.
«
«Non so, non posso esserne certo, ma se dovessi tirare a indovinare direi che è tratto dallo
L'Edificio de los Juzgados era quasi vuoto a quell'ora della sera e i passi di Falcón rimbombarono attraverso le sue cavità mentre percorreva il lungo corridoio fino alle scale. Fu costretto ad aggrapparsi al corrimano per scendere le rampe, fermandosi sul pianerottolo per controllare il tremito delle gambe. Stava cercando di persuadersi che si trattava di una coincidenza, che non esisteva nessuna bizzarra telepatia tra lui e Sergio. La vita era piena di questi strani momenti, esisteva una parola precisa a questo proposito: sincronia. Non era una brutta cosa, agli esseri umani piaceva che le cose fossero sincronizzate. Ma questo no, non la discussione a proposito degli «stranieri», non Calderón che parlava di quel film dal titolo innominabile e Sergio che li atterrava con quella terribile citazione, una frase che lo scollegava dal mondo normale dei rapporti umani, dal profondo legame figlio-madre. Erano le parole dell'individuo più solo del pianeta ed erano penetrate in Falcón come una sega elettrica.
Quando i suoi riflessi si furono normalizzati si avviò all'uscita, al dispositivo di sicurezza. Dall'altra parte, Inés stava facendo passare la borsetta e la cartella attraverso la macchina. Era l'ultima persona che Falcón avrebbe voluto vedere e, mentre formulava tale pensiero, tutto quanto gli si precipitò addosso, la bellezza di lei, il sesso, la sua nostalgia, il loro fallimento. Inés aspettò di riprendere borsa e cartella, guardandolo dritto in faccia, quasi con ironia.
«
«
L'odio nei suoi confronti era palese. Era condannato al ruolo dell'«individuo imperdonabile» e questo non riusciva a comprenderlo, perché non avvertiva in sé nessuna traccia di rancore. Avevano sbagliato, lo avevano riconosciuto, si erano lasciati. Ma lei lo detestava. L'addetto alla sicurezza le restituì le sue cose e Inés lo abbagliò con un sorriso. Le labbra tornarono una rossa linea dura per Javier. Falcón avrebbe voluto saper improvvisare qualcosa, una battuta che rasserenasse l'atmosfera all'istante, come accadeva nei film. Ma non ebbe nessuna ispirazione, non c'era niente da dire, il loro rapporto era ormai al di là perfino dell'amicizia. Lei lo disprezzava troppo.
Inés si allontanò, le spalle strette, la vita sottile, i fianchi sinuosi, il passo sicuro, i tacchi che scandivano la distanza.
L'uomo della sicurezza si morse un labbro, seguendola con lo sguardo, e Falcón comprese a un tratto perché Inés lo odiasse tanto. Lo odiava perché aveva distrutto la perfezione della sua vita. La bellissima e brillante studentessa di giurisprudenza che era diventata un pubblico ministero eccezionalmente giovane, adorata dagli uomini e dalle donne ovunque andasse, si era innamorata di lui, di Javier Falcón. E lui l'aveva rifiutata, non era riuscito a ricambiare il suo amore, aveva sciupato la sua perfezione. Per questa ragione pensava che Javier non avesse un cuore, perché era l'unica spiegazione possibile del suo fallimento.
All'esterno dell'edificio Falcón prese posizione accanto a uno dei pilastri del palazzo adiacente, un punto di osservazione che gli permetteva di vedere il portone principale dell'Edificio de los Juzgados. Qualche minuto dopo Inés ricomparve, seguita a breve distanza da Esteban Calderón. Lo attese, lo baciò sulla bocca, lo prese sottobraccio e si diressero lungo il colonnato verso la calle Menéndez Pelayo.
Si erano baciati davvero? Si trattava di un effetto della luce?
Il suo potere di dissuasione lo abbandonò. Era stato tutto troppo chiaro. E tra ombre oblique delle colonne neoclassiche Falcón si imbatté in un'altra anomalia della logica, nel difetto dell'impianto umano che poteva mandare in cortocircuito il più limpido dei pensieri. Non l'amava. Non provava nessun rancore verso di lei. Era impossibile riparare il loro rapporto. Allora perché sentiva il sangue, gli organi interni, i nervi, i tendini consumati da una gelosia mostruosa?
Tornato di corsa alla macchina, guidò fino alla Jefatura, stringendo il volante con una forza tale che ebbe qualche difficoltà a distendere le dita per scrivere il rapporto. Cercò di leggere quelli degli altri. Non riuscì, la sua concentrazione svolazzante tra il naufragio delle indagini e l'inesplicabile certezza delle insuperabili doti erotiche di Calderón.
Una porzione di tempo scomparsa. Una porzione di spazio perduta. Un attimo prima stava faticando con quei rapporti e un attimo dopo era seduto accanto ad Alicia Aguado, sul polso le sue dita leggere come piume.
«È turbato.»
«Ho avuto da fare.»
«Per lavoro?»
La risata uscì da lui come uno schizzo di vomito. Una manciata di secondi ed era già un riso isterico così irresistibile che non era più qualcosa che proveniva da lui,
«'Ho avuto da fare'… è un modo talmente assurdo, talmente riduttivo per descrivere la mia giornata», disse. «Non sapevo che la vita di un pazzo fosse tanto piena. Concentro un'intera esistenza in ogni minuscolo spazio che riesco a trovare, nessuno può dirmi qualcosa senza che un mondo intero risalga alla superficie. Mentre sono con un magistrato nel suo ufficio, mentre lui mi parla del suo punto preferito di un film, io corro su una spiaggia, sciaguattando tra le onde, vengo lanciato in aria e strillo.»
«Lanciato da sua madre?»
Falcón esitò.
«Be', questo è strano», disse.
Silenzio.
«Ho rivisto la scena con la chiarezza di un sogno», riprese Falcón. «Ora mi accorgo che mancava qualcosa, ma mi è tornata alla mente. Chi mi lanciava in aria era un uomo.»
«Suo padre?»
«No, no, uno sconosciuto.»
«Non l'aveva mai visto prima?»
«È un marocchino. Credo che sia un amico di mia madre.»
«Una cosa insolita?»
«No, no. I marocchini sono socievoli, amano chiacchierare, sono molto curiosi, fanno domande. Hanno una straordinaria facilità di…»
«Intendevo dire insolito per sua madre, una donna sposata, incontrare un uomo sulla spiaggia. Lasciare che il suo bambino fosse lanciato in aria da quell'uomo.»
«Non sono sicuro che fosse
«Che cosa è successo nell'ufficio del magistrato?»
Le raccontò l'incontro, il tentativo di dialogo con Sergio, il film di Almodóvar, la terribile risposta di Sergio e la reazione che aveva scatenato in lui.
«Mi ha sconvolto il fatto che avessimo appena parlato di stranieri ed ecco che l'assassino usa una frase di quel libro, perché era
«Non ci pensi», lo rassicurò Alicia. «Sincronia, succede in continuazione. Si concentri sui risultati.»
«E cioè?»
Silenzio da parte di Alicia Aguado.
«Mia madre», disse Falcón. «Questo è un risultato.»
«Perché quella frase del romanzo di Camus ha avuto questo effetto terribile su di lei?»
«Non so.»
«Come è morta sua madre? Era malata?»
«No, no, non era malata. Ha avuto un attacco di cuore, ma…»
Un silenzio prolungato durante il quale Falcón batté le palpebre una volta ogni minuto.
«C'era qualcosa… un trambusto di non so che specie nella strada. Noi eravamo in casa, Paco, Manuela e io. E in strada, davanti alla nostra porta, c'era quel baccano, non ricordo perché. Dopo, però, mio padre venne a comunicarci che la mamma era morta. Ma non riesco a ricordare… quello che era successo.»
«Che accadde dopo la sua morte?»
«Ci fu il funerale. Ricordo soltanto le gambe della gente e la tristezza generale di quel giorno. Era febbraio e pioveva. Mio padre passò moltissimo tempo con noi, ci accudì durante tutto quel periodo.»
«Non rivide più lo sconosciuto della spiaggia?»
«Mai più.»
«Dopo quanto tempo si risposò suo padre?»
«Conoscevamo già Mercedes, era un'amica di famiglia. Aiutava molto mio padre, vendeva le sue opere negli Stati Uniti. Avevano una relazione prima della morte di mia madre… glielo avevo detto? L'ho scoperto da poco.»
«Vada avanti.»
«Mercedes era ancora sposata quando la mamma morì e in seguito morì anche suo marito, in America, di cancro, credo. Tornò a Tangeri sullo yacht del marito, e sposò mio padre un anno dopo la morte della mamma, mi sembra.»
«A lei piaceva Mercedes?»
«Le ho voluto bene immediatamente. Ho un vago ricordo del giorno in cui la vidi per la prima volta. Ero piccolissimo. Entrò nello studio di mio padre e mi prese in braccio. Credo di aver giocato con i suoi orecchini. Sì, le ho voluto bene fin da quel momento, ma è anche vero che secondo mio padre io ero un bambino molto affettuoso.»
«Come andò con Mercedes?»
«Fu un periodo molto bello, mio padre aveva successo, tutti parlavano dei nudi Falcón nel mondo dell'arte, lo indicavano come il nuovo Picasso, il che era assurdo, date le dimensioni e la qualità della
«Ma… ma appena prima che tutto il gruppo uscisse, io scivolai fuori dalla mia camera e Mercedes mi vide», continuò Falcón, rivedendo il film attraverso la porta della sua mente. «Mi riportò a letto. Mi sono ricordato di questo l'altro giorno perché… ecco, sì, tutto torna. Nella mia indagine sul primo omicidio, la vittima, Raúl Jiménez, fumava quella marca di sigarette, le Celtas, e lei aveva quell'odore nei capelli. Ho scoperto solo recentemente che mio padre conosceva Raúl Jiménez fino dagli anni '40 e ora mi rendo conto che Jiménez doveva essere stato presente a quella festa… se non fosse per il fatto che a quell'epoca aveva già lasciato Tangeri.»
«Sono sicura che erano in molti a fumare quelle sigarette, allora.»
«Sì, certo», convenne Falcón. «Insomma, Mercedes mi rimise a letto, mi baciò e mi abbracciò forte. Mi strizzò dentro il suo affetto con tale veemenza che quasi non riuscivo a respirare. Aveva un profumo… ora so che era Chanel N°
«E dopo che Mercedes se ne fu andata?»
Falcón provò una fitta di dolore e si portò la mano libera allo stomaco.
«Mi sembra ancora di udire…» disse, con sforzo, «di udire il rumore dei suoi tacchi allontanarsi lungo il corridoio e giù per le scale. Sento gli altri ospiti parlare e ridere, sento la porta che si chiude, i passi sul selciato. E ricordo che lei non tornò più.»
Le lacrime gli offuscarono la vista, aveva la bocca piena di saliva che non riusciva a inghiottire. Le ultime parole uscirono quasi soffocate dal muro tremante del suo stomaco.
«Niente più madri dopo di allora.»
Alicia preparò un tè. La tazza gli scottò le dita, il tè gli bruciò la lingua. La bevanda lo riportò alla realtà della stanza, con una strana, piacevole sensazione di nuovo, di pulito, come quando lui e Paco avevano scrostato e rimesso in ordine un vecchio stabbiolo alla
«Non avevo mai ricordato tutto di seguito», disse. «In genere mi fermavo sempre prima del rumore dei tacchi che si allontanano.»
«E adesso, Javier, sa che non è stata colpa sua se non è ritornata, non è vero?»
«Avrei una domanda.»
«Quale domanda?»
Falcón rifletté per un lungo momento, poi scosse la testa.
«Lei sa che non è stata colpa sua», ripeté lei.
Falcón annuì.
«Sa che cosa ha fatto stasera, Javier?»
«Suppongo si possa dire che ho rivissuto un momento.»
«E l'ha visto nella sua luce normale», disse Alicia. «È così che funziona il processo. Se le neghiamo, le cose per noi dolorose non se ne vanno. Ci nascondiamo semplicemente da loro. Lei ha appena avuto il primo successo nella più grande indagine della sua vita.»
Tornò in macchina in calle Bailén, stranamente depurato, come se avesse corso e sudato, eliminando tutte le tossine dall'organismo. Parcheggiò e camminò nella casa silenziosa fino al patio, al suo centro e alla limpida pupilla di acqua nera e scintillante. Accese la luce sotto il porticato. Gli tremavano le mani entrando nel suo studio. Percorse con lo sguardo la scrivania, le fotografie sparse, il ritratto di sua madre con i bambini. Si diresse al vecchio armadietto grigio, lo aprì e tirò fuori una cartella marrone di pelle scamosciata contrassegnata dalla lettera «I». Sedette alla scrivania, consapevole del passo successivo che avrebbe fatto, scacciando il senso di colpa. Prese le quindici stampe in bianco e nero e le dispose capovolte sul piano. Domandò al riflesso sul vetro del quadro appeso alla parete: «Sei rimesso a nuovo davvero?»
Girò la prima foto. Inés giaceva bocconi, nuda, sul lenzuolo di seta del letto, il viso girato verso di lui, la testa appoggiata sulla mano stretta a pugno, i capelli sparsi dappertutto. Falcón chiuse gli occhi mentre lo spasmo di dolore si attenuava. Girò la seconda fotografia, aprì gli occhi, i muscoli del collo tremanti per la tensione. Impossibile deglutire. Inés era sostenuta dai guanciali, nuda anche qui, a parte un lembo di seta sulle spalle. Fissava l'obiettivo con intensità profondamente sensuale, le cosce aperte a rivelare il sesso rasato. Lui stava in piedi dietro la macchina fotografica, nelle stesse condizioni. Ah, la meravigliosa eccitazione mentre si rasavano a vicenda, le risatine, le mani tremanti. Non vi era stato niente di perverso, la gioia stava nell'innocenza della cosa. Rivide la luce brillante di quel giorno. Ritrovò il caldo torrido di quel pomeriggio pingue, vasto, le fessure abbaglianti delle imposte che illuminavano la penombra della stanza e rivelavano le loro immagini nello specchio, l'intimità di loro due soli nella grande casa, tanto che quando il caldo era diventato eccessivo lui l'aveva sollevata tra le braccia mentre erano ancora uniti, aveva disceso le scale, le cosce di Inés intorno alla vita, le caviglie allacciate, i talloni di lei premuti sulle sue natiche. Aveva scavalcato il bordo della fontana, immergendo i loro corpi nell'acqua fresca.
Una visione a tal punto intollerabile che dovette riporre la cartella e chiudere a chiave l'armadietto. Guardò quel contenitore di metallo grigio dove erano sepolti i suoi ricordi. Alicia aveva ragione. Non si poteva chiudere a chiave la memoria, non si poteva metterla ossessivamente in ordine, imballarla, classificarla sotto la «I» e sperare di farla rimanere al suo posto. Non c'era pignoleria che potesse impedire alla mente di lasciar filtrare qualcosa. Per questo la gente disperata si faceva saltare le cervella, l'unico modo sicuro per impedire la fuga di notizie dalla memoria era distruggere il deposito per sempre.
La domanda che avrebbe voluto rivolgere ad Alicia si ripresentò, anche questa volta senza forma. Non riusciva veramente a credere di aver ottenuto un risultato quella sera, come aveva detto lei,
Subito dopo l'una un taxi si fermò all'incrocio tra calle San Vicente e calle Alfonso XII. Inés scese e aspettò sul marciapiede mentre Calderón, dal sedile posteriore, pagava la corsa. Falcón uscì dal riparo degli alberi, i capelli bagnati, e si fermò sulla piazza, dietro il chiosco dei giornali. I due imboccarono la calle San Vicente e Falcón, attraversata di corsa la piazza, quasi piegato in due, si riparò sul lato buio della strada, opposto a quello degli amanti, camminando dietro le auto parcheggiate. I due si fermarono, Calderón estrasse le chiavi, Inés si girò e i suoi occhi lo incontrarono, paralizzato tra una macchina e il muro di un edificio. Si tuffò nel portone più vicino dove rimase immobile, il dorso premuto contro la parete, appiattito nel buio, il cuore e i polmoni in lotta tra loro come animali selvatici chiusi in un sacco. Inés disse a Calderón di salire, i suoi tacchi risuonarono sul selciato e si fermarono sul marciapiede davanti al portone.
«So che sei lì», disse.
Il sangue rombava nelle orecchie di Falcón.
«Non è la prima volta che ti vedo, Javier.»
Falcón strizzò le palpebre, bambino che stava per essere scoperto, punito.
«La tua faccia continua a sbucare dalla notte», proseguì lei, «tu mi pedini e io non intendo accettarlo. Hai distrutto la mia vita una volta, non ti permetterò di farlo ancora. Ti avverto, se ti vedo di nuovo, vado difilato dal giudice e ti faccio diffidare. Mi hai capito? Ti umilierò come tu hai umiliato me!»
I tacchi a spillo si allontanarono, poi tornarono indietro, più vicini questa volta.
«Ti odio», bisbigliò Inés. «Tu lo sai quanto ti odio? Mi stai ascoltando, Javier? Ora salirò quelle scale ed Esteban mi porterà a letto. Mi senti? Lui mi fa cose che tu non saresti nemmeno capace di sognare!»
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
XXIII
Farsi strada a gomitate attraverso l'oblio non era facile. Com'era possibile che il sonno potesse risultare così estenuante? Falcón affiorò alla superficie, farfugliando come un vecchio abbandonato da tutti in una casa di riposo per invalidi ormai vicini alla destinazione finale. Il suo cellulare stava squillando, gli parve di ricevere una scarica di scintille attraverso le ossa del volto. Il palato era asciutto, arido. Lo squillo cessò. Falcón tornò a sprofondare nella tomba di ovatta del sonno indotto dalle pillole.
Erano passate ore o solo minuti? Il folle squillo del telefonino pareva scavare una galleria nella sua testa. Emerse dal sonno con violenza, agitando le braccia. Trovò la luce, il telefono, il pulsante, succhiò acqua fredda per ammorbidire la lingua, diventata un blocco di argilla.
«Inspector Jefe?»
«Aveva chiamato prima?»
«No, signore.»
«Che c'è?»
«Abbiamo appena avuto la segnalazione di un altro cadavere.»
«Un altro cadavere?» ripeté Falcón, la testa completamente imbottita.
«Un omicidio. Come Raúl Jiménez, stessa cosa.»
«Dove?»
«A El Porvenir.»
«Indirizzo?»
«Calle de Colombia, numero 25.»
«Conosco questo indirizzo.»
«La casa appartiene a Ramón Salgado, Inspector Jefe.»
«È lui la vittima?»
«Non siamo ancora sicuri. Abbiamo appena mandato sul posto una pattuglia. Il cadavere è stato visto dal giardiniere dall'esterno.»
«Che ore sono?»
«Le sette appena passate.»
«Non chiami nessun altro del gruppo. Vado da solo», disse Falcón. «Ma sarà meglio avvertire il Juez Calderón.»
Mentre interrompeva la comunicazione il nome lo trapassò come una lama. Sotto la doccia tenne il capo chino, le braccia indebolite dalla crudeltà delle parole di Inés, la sera prima. Quasi si mise a singhiozzare all'idea di affrontare Calderón. Si rasò, guardandosi nello specchio da ogni angolazione con aria interrogativa. Non ne avrebbero parlato, certo che no. Come si poteva parlare di tali argomenti tra uomini? Sarebbe stata la fine di ogni rapporto con Calderón. «Cose… che tu non saresti nemmeno capace di sognare.»
Infilò la testa sotto l'acqua fredda, mandò giù un Orfidal, si vestì e salì in auto. Controllò i messaggi al primo semaforo rosso: una chiamata alle 2.45. Il messaggio registrato cominciava con una musica, l'
Nella musica penetrò un osceno gorgoglio, un rantolo che poteva essere prodotto soltanto da una gola premuta. La lotta continuò attraverso i picchi emotivi dell'
I clacson suonarono inviperiti alle sue spalle e Falcón ripartì verso il fiume e un altro semaforo rosso. Chiamò la Jefatura e chiese di essere collegato con la pattuglia inviata sul posto. Non erano ancora entrati in casa, ma confermavano la presenza di un corpo sul pavimento al centro di una grande stanza affacciata sulla veranda e sul giardino, sul retro della casa. Il corpo era legato a una sedia, rovesciata di lato, e sul parquet si vedeva una grande quantità di sangue. Falcón disse agli uomini di cercare la domestica o un vicino che avesse le chiavi.
Al parque de María Luisa si allontanò dal fiume e seguì la avenida Eritaña, superò una stazione di polizia e la Guardia Civil, a poche centinaia di metri dalla casa di Ramón Salgado.
Al suo arrivo le chiavi non erano ancora state trovate, e ciò lasciò il tempo di sopraggiungere all'ambulanza, seguita da Calderón e infine da Felipe e Jorge della Policía Científica.
Alle sette e venti un vicino trovò il mazzo di chiavi di riserva e Falcón entrò nella casa con Calderón. Entrambi si erano infilati i guanti di lattice e si diressero subito alla grande stanza sul retro. La parete di fondo era interamente occupata da una libreria, al centro della stanza c'era una scrivania composta da un piano di vetro spesso tre centimetri sostenuto da due cubi di legno nero. Il computer, un iMac, era acceso. Sulla parete dietro la scrivania, quattro riproduzioni di grande qualità dei nudi Falcón. Ramón Salgado giaceva sul fianco tra quel muro e la scrivania, legato a una sedia dall'alto schienale di pelle, un polso intrappolato sotto di lui, l'altro assicurato alla gamba posteriore della sedia in modo che la mano fosse rivolta verso il basso. Una caviglia nuda era legata alla gamba anteriore della sedia e l'altro piede era stato sollevato verso il soffitto per mezzo di un cordone che stringeva l'alluce con un nodo scorsoio. Il cordone passava attraverso una piccola carrucola nascosta sotto una barra di acciaio con quattro faretti, fissata al soffitto, e scendeva fino al collo, probabilmente rotto, di Salgado, stringendolo e tirandolo verso l'alto, tanto che la testa ciondolante rimaneva sollevata dal suolo. Un'ispezione più attenta rivelò che la fune era bloccata contro la carrucola da un nodo.
«Non appena la sedia si è rovesciata», disse Falcón, «è morto.»
Calderón girò intorno alla pozza di sangue sul pavimento.
«Che diavolo è successo qui prima che morisse?» domandò.
Il Médico Forense, lo stesso che aveva esaminato Raúl Jiménez, comparve sulla soglia.
Falcón non aveva mai visto qualcuno di sua conoscenza morto assassinato e non riusciva a togliersi dalla mente l'ultima volta che si era incontrato con Salgado e avevano bevuto
Furono scattate fotografie, Felipe e Jorge cominciarono a raccogliere campioni da ogni chiazza sul pavimento, finché non fu possibile ripulire uno spazio sufficiente perché il medico legale si inginocchiasse accanto al cadavere e cominciasse a borbottare le sue osservazioni nel registratore: una descrizione fisica di Salgado, un elenco delle lesioni subite e la probabile causa della morte.
«… perdita di sangue dovuta alle ferite alla testa provocate dagli urti contro gli spigoli e i lati taglienti dello schienale… palpebre rimosse… segni di asfissia… collo probabilmente spezzato… ora del decesso: entro le otto ore precedenti…»
Falcón porse a Calderón il suo cellulare e gli fece sentire la chiamata delle 2.45. Caderón ascoltò e passò il telefono al Médico Forense.
«'Sai che cosa fare'?» Calderón ripeté le istruzioni di Sergio a Salgado, disorientato.
«Quella carrucola non è stata messa lì dall'assassino», intervenne Falcón. «C'era già. Chissà come, Sergio era al corrente della predilezione di Salgado per l'autostrangolamento. Gli ha detto che poteva mettere fine a tutto spingendo la sua predilezione sessuale oltre il limite.»
«Autostrangolamento?» ripeté Calderón.
«Essere vicini all'asfissia durante un'esperienza sessuale rende più intenso il godimento», spiegò Falcón. «Sfortunatamente, la pratica ha i suoi rischi.»
Un agente si affacciò alla porta. Un poliziotto della stazione in fondo alla strada voleva parlare con Falcón a proposito di un'effrazione della quale si era occupato, avvenuta nella casa di Salgado due settimane prima. Falcón parlò con il poliziotto nell'ingresso e gli domandò dove fosse avvenuta.
«È questa la cosa strana, Inspector Jefe, non c'era nessun segno visibile e il signor Salgado aveva detto che non era stato rubato nulla. Però era sicuro che qualcuno fosse entrato e avesse trascorso il fine settimana nella casa.»
«Perché ne era convinto?»
«Non l'ha saputo dire.»
«Il sabato e la domenica viene la domestica?»
«No, mai. E il giardiniere lavora qui il fine settimana solo durante l'estate, ha il compito di annaffiare le piante. Al signor Salgado non piaceva essere disturbato quando era a casa.»
«Stava via spesso?»
«Così mi ha detto.»
«Lei ha controllato bene?»
«Certamente, e lui mi veniva dietro.»
«Nessun punto debole?»
«A pianterreno no, ma c'è una mansarda con un terrazzo e una porta dalla serratura ridicola.»
«Per arrivarci?»
«Una volta sul tetto del garage, quasi chiunque sarebbe in grado di salire fin lassù», disse il poliziotto. «Io gli ho consigliato di cambiare la serratura, di mettere un chiavistello alla porta… non ascoltano mai…»
Falcón salì in mansarda. Il poliziotto confermò che la serratura non era stata cambiata; la chiave era caduta sul pavimento e il battente si muoveva nello stipite.
Nello studio di Salgado l'esame del medico era terminato; Felipe e Jorge, di nuovo chini sul pavimento, raccoglievano campioni di sangue. Falcón chiamò Ramírez, lo aggiornò sull'accaduto e gli disse di raggiungerlo a El Porvenir con Fernández, Serrano e Baena: c'era molto da fare anche solo per interrogare i vicini prima che uscissero per andare al lavoro.
«Sul desktop del computer c'è un'icona», disse Calderón, «
Era passato mezzogiorno quando Calderón firmò il
Il filmato cominciava con numerose riprese di Salgado che usciva di casa con la cartella e saliva su un taxi, seguite da altre, altrettanto numerose, di Salgado che scendeva dal taxi in plaza Nueva e percorreva a piedi la calle Zaragoza fino alla sua galleria. Seguiva una serie di stacchi: Salgado in un caffè, Salgado in un ristorante, Salgado davanti al bar La Company, Salgado che guardava le vetrine, Salgado al Corte Inglés.
«Sì, va bene… e con questo?» disse Ramírez.
«Quell'uomo passava molto tempo da solo», osservò Calderón.
La scena successiva mostrava Salgado che arrivava alla porta di una casa, una classica porta sivigliana di legno verniciato con borchie di ottone lucido. Tornava più e più volte a quella casa, riconoscibile per la facciata color terracotta, con la cornice della porta e i fregi di un giallo crema.
«Sappiamo dov'è quella casa?» domandò Calderón.
«Sì, lo sappiamo», rispose Falcón, «è casa mia… la casa di mio padre. Salgado era il suo gallerista.»
«Se suo padre è morto», osservò Calderón, fermando il filmato, «perché Salgado…?»
«Cercava continuamente di ottenere il permesso di entrare nello studio di mio padre. Aveva le sue ragioni, ma non ha voluto rivelarmele.»
«Non era mai in casa quando lui passava?» domandò Ramírez.
«Qualche volta, ma non andavo ad aprire. Salgado non mi era simpatico, mi annoiava e cercavo di evitarlo il più possibile.»
Calderón fece ripartire il filmato. Comparve Salgado fermo a un incrocio, al di sopra della sua testa una freccia che indicava l'Hotel de Paris, e Falcón capì che il gallerista era nella calle Bailén e guardava verso la sua casa. Salgado si mosse, la videocamera lo tallonò mentre percorreva le vie affollate come se stesse seguendo qualcuno. Soltanto quando sbucò in calle Marqués de Paradas si notò che stava seguendo lui, Falcón. Lo guardarono entrare nel Café San Bernardo, che aveva un ingresso anche in calle Julio César. Salgado entrò dalla porta su calle Marqués de Paradas e il risultato fu un incontro «casuale». La videocamera entrò addirittura nel locale e si abbassò: l'operatore, evidentemente seduto, li riprese mentre parlavano al banco. Il barman posò un
«Come mai?» domandò Ramírez. «Le aveva detto qualcosa?»
«Sempre la stessa: 'Posso dare un'occhiata allo studio di tuo padre, solo un'occhiata?'»
«Ma perché lei si è ritratto come se…?»
«Niente, è che il latte mi provoca quel genere di reazione, è una specie di allergia o qualcosa del genere.»
«Ora siamo al cimitero», li interruppe Calderón.
«È il funerale di Jiménez!» esclamò Ramírez. «Quello accanto al cipresso sono io che riprendo la gente.»
Dopo aver mostrato Falcón che parlava con Salgado, il film si interrompeva di colpo. Calderón si lasciò andare contro lo schienale della sedia.
«A quanto pare Sergio crede che lei sia l'unica famiglia di Salgado, Inspector Jefe», suggerì.
«Salgado aveva una sorella», disse Falcón, «l'aveva appena sistemata in una casa di riposo a Madrid.»
«È accaduto qualcosa di diverso in quell'ultimo incontro dopo il funerale?» domandò Calderón.
«Mi ha offerto informazioni su Raúl Jiménez in cambio di una visita allo studio. Ha detto anche di non voler prendere niente nello studio, ma solo passarvi un po' di tempo. Avevo sempre pensato che desiderasse organizzare un'ultima mostra di Francisco Falcón, ma lui ha insistito che non si trattava di quello. Ho avuto l'impressione che fosse motivato dalla nostalgia.»
«Che specie di informazioni le avrebbe dato?»
«Conosceva Raúl Jiménez e la moglie. Mi ha fatto capire che sapeva chi fossero i nemici di Jiménez, sosteneva di avere accesso a informazioni privilegiate grazie ai ricchi clienti che frequentavano la sua galleria. Mi avrebbe messo sulla pista giusta, così avevo dedotto, indirizzandomi verso le persone che si erano fidate di Raúl Jiménez e si consideravano tradite da lui. Abbiamo anche parlato di argomenti come il riciclaggio del denaro sporco prima dell'arrivo dell'euro, del fatto che nel settore della ristorazione si creavano fondi neri da incanalare nelle proprietà immobiliari e nell'arte. Faceva sembrare la cosa molto promettente, ma io conosco Ramón Salgado…»
«E non ha idea di che cosa cercasse nello studio di suo padre?» domandò Calderón.
«Forse c'è uno scheletro sepolto tra tutte quelle carte», rispose Falcón, «ma dubito che riuscirò mai a trovarlo.»
«Salgado conosceva bene Consuelo Jiménez?»
«So per certo che l'aveva presentata a mio padre e che lei aveva comprato dei quadri in tre occasioni. Sono anche convinto che Consuelo Jiménez avesse conosciuto Ramón Salgado nell'ambiente dell'arte a Madrid. È perfino possibile che sia stato lui a presentarla a Raúl Jiménez durante la Feria de Abril del 1989. Non è mai stata chiara sul suo rapporto con Salgado. Può darsi che lo abbia fatto per difendere la sua vita privata, si capisce benissimo che non gradisce le nostre intrusioni; oppure Salgado sapeva
«Può esserci un movente qui, non è vero?» disse Calderón.
«Ha fatto uccidere lei anche Salgado», affermò Ramírez. «Ne sono sicuro.»
«Non saltiamo alle conclusioni per ora, Inspector», disse Calderón. «È solo un punto su cui vale la pena di indagare, tutto qui. Dovremmo pensare alla lezione di vista, ora.»
Ramírez estrasse il cartoncino dal sacchetto di plastica delle prove. Due nomi erano scritti sul retro: Francisco Falcón e H. Bosch.
«Il cartoncino era sotto la tastiera del computer, potrebbero essere codici di accesso a documenti», suggerì Falcón.
Calderón cliccò due volte sull'icona del disco e comparve una finestra con la richiesta del codice di accesso. Digitò «Francisco Falcón». Il disco fisso si aprì per rivelare venti cartelle dai nomi niente affatto insoliti: Lettere, Clienti, Contabilità, Spese… Le aprirono tutte, ma quella contrassegnata «Disegni» richiese un ulteriore codice. Digitarono «H. Bosch» e si aprì un'altra serie di documenti. Calderón ne consultò uno a caso. Conteneva centinaia di fotografie, ognuna siglata e datata.
«Spero che non dovremo guardarci tutta la collezione di Salgado per scoprire che cosa vuole farci trovare Sergio», disse Calderón.
Falcón fece scorrere l'elenco fino alla fine.
«Gli ultimi cinque sono film», osservò Calderón.
«Forse quelle fotografie non sono poi tanto innocenti», disse Ramírez.
«Potrebbero essere state scattate per l'assicurazione», suggerì Falcón.
Ramírez afferrò il mouse e cliccò sull'icona di un film. I tre uomini trasalirono davanti all'immagine iniziale apparsa nella cornice. Un ragazzo era legato a faccia in giù su un vecchio cavalletto di cuoio da ginnastica. Il viso, sebbene rilasciato e inespressivo per effetto della droga, mostrava ancora una traccia di paura.
«Non serve vedere altro», disse Falcón.
«Controlliamo una cartella di fotografie», propose Calderón. «Potrebbero essere tutte camuffate.»
Ramírez ne aprì una e tutti sussultarono, disgustati. Non avevano bisogno di ulteriori conferme e spensero il computer.
«Sarà bene mostrarle alla buoncostume», osservò Falcón.
«E dove ci porta tutto questo?» domandò Calderón. «Perché Sergio ha voluto attirare la nostra attenzione su queste immagini?»
«È stata una lezione di vista», disse Falcón. «Ci ha solo voluto rivelare la vera natura della vittima. Se prima pensavate che Ramón Salgado fosse un anziano rispettabile direttore di una prestigiosa galleria d'arte di Siviglia, un uomo solo, ricco, ben introdotto, degno di stima, ora il vostro giudizio è diverso.»
«Credo che sia un vicolo cieco», ribatté Ramírez, «è solo un altro modo per depistarci, non è una coincidenza che la signora Jiménez conoscesse intimamente entrambe le vittime.»
«C'è anche una terza vittima», precisò Falcón.
«Lei mi ha capito, Inspector Jefe», disse Ramírez. «La
«Prima di pensare a un suo interrogatorio alla Jefatura, suggerirei di perquisire questa casa da cima a fondo e di mandare una squadra alla galleria in calle Zaragoza», disse Falcón. «Per inchiodarla, avremo bisogno di munizioni.»
«E che cosa cerchiamo, Inspector Jefe?» domandò Ramírez.
«Siamo alla ricerca di un collegamento pericoloso tra Consuelo Jiménez e Ramón Salgado», disse Falcón. «Perciò lasci che Fernández si occupi di parlare con i vicini, porti con sé Serrano e Baena nella mansarda e cominci da lì, con Felipe e Jorge.»
Ramírez uscì e Falcón richiuse la porta dietro di lui. Poi si voltò verso Calderón, seduto alla scrivania.
«Volevo parlarle un momento in privato», cominciò.
«Senta, ehm… Don Jav… Inspector Jefe», disse Calderón, colto del tutto impreparato, evidentemente in preda a un conflitto interiore tra la sua vita personale e quella professionale. «Non so che cosa sia successo ieri sera, non so che cosa le abbia detto Inés. So, ovviamente, che voi… ma mi aveva detto che era finita, che avevate divorziato. Credo che lei debba… non so… voglio dire… Ma
Falcón rimase pietrificato. La mattina era stata così piena che non aveva dedicato a Inés neppure un pensiero. Ciò di cui voleva parlare in privato con Calderón era la MCA Consultores, non aveva niente a che fare con la sua vita personale. Fissò il pavimento, desiderando disperatamente un'accelerazione del tempo che lo facesse risvegliare una settimana dopo con un'altra indagine e un altro magistrato. Non accadde nulla e Falcón si ritrovò a dibattersi in una di quelle lotte titaniche che vedeva sostenere ai sospettati prima della confessione. Avrebbe voluto dire qualcosa. Avrebbe desiderato in qualche modo affrontare la complessità della sua recente esperienza, mostrare che anche lui, come Calderón, era capace di superare quel momento di tremendo imbarazzo, ma si trovò di fronte a un groviglio inestricabile. Si toccò i bottoni della giacca, come se volesse accertarsi che fossero a posto.
«Non era stata mia intenzione parlarne nella presente congiuntura», dichiarò, allibito davanti alla pomposità rigida di quelle parole. «Le mie sole preoccupazioni sono di carattere professionale.»
Immediatamente si odiò e il palpabile disprezzo di Calderón verso di lui lo colpì come un'ondata di cattivo odore. Gli era stata data un'occasione garbata di spiegarsi, di arrivare a un accordo, ma l'aveva schiacciata con il tacco di una delle sue scarpe allacciate strette e ormai non poteva più rimediare.
«Che cosa aveva in mente, Inspector Jefe?» domandò Calderón, accavallando le gambe con calma glaciale.
In quell'istante era crollato tutto. Falcón aveva fallito con Calderón sul piano umano e aveva compromesso definitivamente la sua credibilità professionale. Comprese che da quel momento in poi le sue idee avrebbero incontrato resistenza e forse peggio: l'antipatia di quell'uomo si sarebbe rivolta contro di lui, Calderón non sarebbe mai più stato dalla sua parte e qualsiasi idea Falcón gli avesse presentato avrebbe potuto fornire a un nemico un modo per distruggerlo. Ma non riuscì a fermarsi e si rese conto che non era la sua professionalità a fargli riferire a Calderón la questione della MCA Consultores, era il suo fallimento. Era per via del pensiero ridicolo e illogico che ora il giovane magistrato avrebbe potuto essere d'accordo con Inés e dire: «Hai ragione, Javier Falcón non ha cuore».
XXIV
Calderón prese appunti mentre l'Inspector Jefe parlava e, alla fine, accese una sigaretta. Falcón guardava il giardino rigoglioso di Salgado fuori dalla finestra.
«È di questo che era venuto a parlarmi ieri?» domandò il magistrato.
«Credo converrà con me che in questa teoria vi sono alcuni punti molto delicati», disse Falcón. «E quando ho visto il dottor Spinola uscire…»
«Il dottor Spinola non c'entra con quella società», lo interruppe Calderón bruscamente.
«Era nelle fotografie di celebrità di Raúl Jiménez. È un sia pur tenue contatto, occorreva rifletterci sopra», si giustificò Falcón, avvertendo la resistenza di Calderón e un patetico bisogno di averlo dalla sua parte. «Noterà anche come la prova di un coinvolgimento di Raúl Jiménez in episodi di violenza sui bambini sia circostanziale e debole. Ne ho fatto menzione solo per via del giro di pedofili nel quale era stato implicato Carvajal e di quanto abbiamo scoperto oggi qui.»
«Così lei crede che si debba cercare un ex bambino violentato e crede che Consuelo Jiménez sia coinvolta?» domandò Calderón.
«Sergio è un uomo, è riuscito in qualche modo ad avvicinare intimamente Eloisa Gómez, possibilmente suscitando un sentimento di empatia…
«In questo caso, o Sergio agisce da solo quale vendicatore dei fanciulli violentati oppure — questa è una possibilità — qualcuno gli indica i bersagli da colpire», ipotizzò Calderón.
«Consuelo Jiménez ama i suoi figli. È vero che sono tutti maschi, ma se avesse trovato nella raccolta pornografica di suo marito qualcosa riguardante in qualche modo la violenza sessuale sui fanciulli, sono sicuro che non l'avrebbe tollerato. D'altro canto la signora conosceva Ramón Salgado…»
«Ma com'è possibile che sappia
«Non lo so. Sto solo ragionando sulla sua eventuale capacità di agire così, non sto provando il suo coinvolgimento», precisò Falcón. «È stata evasiva su tutto ciò che riguardava gli affari del marito; quando ho accennato alla MCA Consultores come se avessi in mano qualche carta, ha detto che non avrebbe parlato se non in presenza del suo avvocato. È una donna decisa e, anche se afferma di aborrire la violenza, ha colpito Basilio Lucena con tanta forza da far uscire il sangue. È intelligente e calcolatrice. Ma è possibile che non sappia niente della MCA Consultores e che il suo atteggiamento sia stato solo di cautela. Ha anche accettato di fare qualche ricerca sui rapporti tra suo marito e Carvajal.»
«Gli elementi sono poco consistenti, Inspector Jefe. Come ha appena detto, forse stava solo difendendo la sua vita privata nonché la sua eredità e quella dei figli. Ha colpito Lucena, ma l'ha fatto in un momento di estrema provocazione, dato il pericolo rappresentato dalla promiscuità di quell'uomo. Dopotutto, per avere successo negli affari bisogna essere intelligenti e calcolatori.»
«Ha ragione, certo», convenne Falcón, disgustato dal tono ossequioso che avvertiva nella propria voce. «Siamo d'accordo che questi omicidi sono collegati, Juez? Intendo dire che non stiamo indagando su una serie di azioni casuali. Siamo in presenza di un pluriomicida, non di un serial killer.»
Calderón si pizzicò la cartilagine dell'orecchio contemplando il piano di vetro della scrivania.
«La punizione che Sergio ha riservato alle sue due vittime principali è coerente con quanto ci si aspetterebbe da chi avesse sofferto violenza sessuale», disse dopo un po'. «Le vittime sono chiaramente scelte e il fatto che si conoscessero costituisce un legame tra loro. Sono d'accordo con lei. Sergio le ha costrette ad affrontare l'orrore degli orrori, la rimozione delle palpebre e le conseguenti mutilazioni che entrambe le vittime si sono inflitte lo indicherebbe. La domanda è: come fa Sergio a sapere queste cose? Non si tratta di informazioni di pubblico dominio, sono cose assolutamente private, sono storie segrete. Come fa Sergio a entrare nella testa della gente?»
Falcón gli parlò dell'indagine della polizia locale sull'effrazione.
«Be', se ha passato qui il fine settimana, questo farebbe pensare che avesse già preso di mira Salgado, forse conosceva addirittura il particolare orrore di cui era colpevole quest'uomo e stava soltanto cercando i mezzi per poterglielo mettere sotto gli occhi.»
«Ha l'ossessione dei filmati», disse Falcón, «li vede come memoria.»
«Sa com'è… i film, i sogni. Ci si confonde», osservò Calderón, «è comprensibile. Chiusi in un cinema buio, le immagini… non è poi tanto diverso da ciò che si vede nel sonno.»
«Abbiamo già parlato di questa sua creatività», riprese Falcón. «Sta facendo quello che ogni artista cerca di fare. Entrare nella testa delle persone e far loro vedere le cose in modo diverso; o meglio, far vedere cose che già sanno, ma in un'altra luce. E deve avere inventiva, perché la gente non conserva le tracce dei propri orrori, non è vero?»
«Le seppellisce», disse Calderón.
«Forse questa è la natura del male», suggerì Falcón, «il genio del male.»
«Perché dice così?»
«Perché è al di là della nostra immaginazione.»
Calderón si girò sulla sedia verso i quattro nudi Falcón sulla parete.
«Fortunatamente ci sono altri tipi di genio», disse. «Per riequilibrare le cose.»
«Nel caso di mio padre, credo che desiderasse di non averlo mai posseduto.»
«Perché?»
«Perché l'aveva perduto», rispose Falcón. «Se non lo avesse mai posseduto… non avrebbe mai passato il resto della vita con quel senso di perdita.»
Falcón si riavvicinò alla finestra, ora che gli argomenti personali si erano affacciati di nuovo nella conversazione. Si domandò se si potesse ancora salvare qualcosa dal naufragio: se riusciva a parlare così di suo padre, non poteva farlo anche di Inés? Perché non porgere il collo nudo a quell'uomo? Si sentì bussare alla porta, Fernández si affacciò.
«L'Inspector Ramírez ha trovato un baule in mansarda», disse. «Il lucchetto è stato segato e la polvere sulla superficie è stata smossa. Felipe sta cercando le impronte.»
Fecero trasportare il baule sul pianerottolo dopo che Felipe ebbe dichiarato che era pulito. Un baule pesante. Lo aprirono e sollevarono la carta marrone che copriva il contenuto: libri e vecchi cataloghi, copie di una rivista che si chiamava
Quando ebbe constatato che il baule non offriva soluzioni immediate, Calderón li lasciò per andare a una riunione. Si accordarono per vedersi il lunedì seguente a mezzogiorno. Uscendo dalla casa, il magistrato si trovò davanti quattro giornalisti troppo ben informati per poter essere ignorati. Tenne una conferenza stampa improvvisata durante la quale un giornalista sostenne che i media avevano soprannominato l'assassino
«Allora lei conferma che asporta le palpebre alle vittime?» domandò il giornalista, e la conferenza stampa finì prematuramente.
Falcón e Ramírez si divisero il carico di lavoro, Ramírez ben contento di occuparsi della galleria in calle Zaragoza quando ebbe saputo che Salgado aveva una segretaria, una certa Greta, bionda e con gli occhi azzurri. Baena e Serrano continuarono la perquisizione della casa con Felipe e Jorge mentre il baule veniva trasportato nello studio e il contenuto deposto sulla scrivania. Un'ulteriore ricerca in mansarda non servì a trovare una cinepresa o l'attrezzatura per la proiezione di film, ma un vecchio registratore a bobine che Felipe riuscì a far funzionare.
Il diario sembrava la cosa giusta con cui cominciare, ma era scarsamente aggiornato. L'inizio lasciava intendere come mai Salgado avesse deciso di scriverlo: era felice, stava per sposarsi con una certa Carmen Blásquez. Falcón non aveva mai saputo che Salgado avesse avuto una moglie. Sbuffò mentre leggeva: a trentatré anni Salgado era già pieno di sé, pomposo e untuoso. «Francisco Falcón mi ha fatto il grande onore di accettare di essere mio
Falcón cercò di immaginare suo padre che diceva quelle parole e decise che se le era inventate Salgado. Aprì la busta delle fotografie e ne trovò una di Carmen, datata giugno 1965, quando la donna sembrava avere poco meno di trent'anni. Niente nel suo viso colpiva l'attenzione, tranne le sopracciglia che erano corte, scure e assolutamente orizzontali, niente affatto arcuate. Le conferivano uno sguardo intenso, premuroso, facevano pensare che avrebbe saputo prendersi cura del marito.
Alla data del 25 dicembre 1967 si leggeva: «Ieri sera prima di cena sono stato riportato all'infanzia. I miei genitori ci concedevano sempre un regalo alla vigilia di Natale e Carmen mi ha fatto il più bel dono della mia vita. È incinta. Siamo felici alla follia e io mi ubriaco di champagne».
Il diario registrava poi i progressi regolari della gravidanza di Carmen intervallati da stupefacenti dettagli dei successi delle mostre e dei prezzi di vendita delle opere. Salgado faceva anche menzione dell'acquisto del registratore, sul quale avrebbe voluto incidere la voce di Carmen che cantava, cosa che non era riuscito a fare perché Carmen non sapeva essere naturale davanti al microfono. Salgado era anche affascinato dal ventre della moglie, un ventre enorme. Le aveva perfino chiesto se sarebbe stata disposta a farsi ritrarre da Falcón, ma Carmen era rimasta allibita all'idea. Il diario terminava così: «Il dottore ha acconsentito a lasciarmi registrare il primo vagito del mio bambino al suo ingresso nel mondo. La mia richiesta ha sconcertato tutti, sembra che gli uomini non assistano mai al parto. Domando a Francisco dove fosse lui quando erano nati i suoi figli e mi ha detto che non lo ricorda. Gli chiedo se fosse stato al capezzale di Pilar e lui rimane stupefatto all'idea. Sono dunque l'unico uomo di tutta la Spagna a essere affascinato da un'occasione così straordinaria? E avrei creduto che Francisco, un artista di tale genio, avrebbe trovato la nascita di un bambino irresistibile, come l'ispirazione».
Una strana osservazione con cui finire. Falcón contò i mesi e calcolò che il bambino sarebbe dovuto nascere in luglio, visto che Carmen aveva annunciato a dicembre di essere incinta. Esaminò gli altri oggetti contenuti nel baule per vedere se vi fosse una prova della nascita del bambino. In una cartellina blu tutta macchiata trovò la risposta: il certificato di morte di Carmen Blásquez datato 5 luglio 1968. Il referto medico registrava un parto catastrofico determinato da alta pressione, ritenzione di liquidi, setticemia e infine decesso della madre e del bambino.
Il pensiero del baule chiuso con il lucchetto nella soffitta di Salgado causò una terribile amarezza in Falcón. La solitudine di quell'uomo, l'uomo dalle cene solitarie, il derelitto frequentatore di negozi, il desolato perditempo che aveva dedicato tutta la vita al genio di Francisco Falcón, l'uomo che vagava per le strade, con la sua unica occasione di felicità chiusa in una cassa in un luogo asciutto e polveroso.
Rivolse l'attenzione a un'altra fotografia: sotto le sopracciglia orizzontali della mite Carmen Blásquez c'era una foto di nozze in cui Ramón e Carmen si tenevano per mano. Tutta la loro felicità era lì. Era incredibile per Falcón vedere un Salgado così giovane: i successivi trentacinque anni lo avevano imbruttito terribilmente, l'infelicità era stata un peso che portava sul volto. Le registrazioni sui nastri reclamavano l'attenzione di Falcón, che, tuttavia, continuò a frugare tra le fotografie finché non ne ebbe trovata una di suo padre seduto in un giardino con Carmen; ridevano entrambi. Era vero che suo padre aveva sempre provato attrazione per le donne buone. Sua madre, Mercedes… perfino la stravagante Encarnación veniva tollerata perché era «una donna buona». Continuando l'esame delle foto, si rese conto che lì erano state riunite tutte quelle di Carmen, foto di diversi formati, scattate con macchine fotografiche diverse e che Salgado doveva aver staccato dalle cornici e dagli album dove erano raccolte le immagini della sua vita.
I nastri. Al pensiero dei nastri, sentì le mani sudate. Non voleva ascoltare ciò che vi era inciso. Inserì le bobine nel registratore, premette il pulsante e fu sollevato nel constatare che il primo nastro non conteneva nulla.
Il secondo iniziava subito con una conversazione tra Salgado e Carmen. Salgado la implorava di cantare, lei rifiutava. Si udiva il rumore dei tacchetti della donna sul pavimento di legno mentre il marito la supplicava, arrivando perfino a dirle che così avrebbe almeno avuto qualcosa per ricordarla, se fosse morta prima di lui. La conversazione si trasformava in musica classica seguita da qualche flamenco e Falcón fece scorrere il nastro velocemente fino alla fine.
Il terzo cominciava con l'
La superficie di vetro della scrivania offrì un sostegno. Le urla finali di Carmen erano stati per lui tre colpi cruenti, lo avevano spezzato a metà, lasciandolo con gli organi a pezzi.
Fissò l'attenzione sul respiro… l'effetto calmante della concentrazione su un riflesso motorio. Spense il registratore, si asciugò il sudore che gli imperlava il labbro superiore, quasi sopraffatto dal rimorso al pensiero di essere stato tanto brutale con il vecchio amico di suo padre, ricordando tutte le volte che lo aveva visto davanti a casa in calle Bailén e si era detto: no, quel rompiscatole no. Ma c'era anche l'agghiacciante contenuto del computer. Che cosa era accaduto a quell'uomo dopo che aveva perduto la moglie? Era stata la sua infelicità a spingerlo, a pungolarlo lungo quella strada di indegnità fino alla definitiva, solitaria depravazione dell'autostrangolamento mentre le immagini calamitose dei bambini rovinati passavano davanti ai suoi occhi? Forse quello era nella sua natura ed egli era stato consapevole delle cose terribili che avrebbe potuto fare; ma era arrivata Carmen e lo aveva coinvolto con la sua bontà. E per le sue colpe gli era stata strappata brutalmente.
Sì, delusione era una parola irrisoria per descrivere lo stato di Salgado mentre si allontanava da quell'ospedale nel caldo spaventoso di un luglio sivigliano e muoveva i primi passi febbrili verso l'inferno.
Entrò Baena con un sacco di plastica.
«Abbiamo finito con la casa, Inspector Jefe», disse, porgendogli il sacco. «Serrano ha fatto il giardino con Jorge. L'unica cosa interessante è questa. Una frusta. Di quelle che i bigotti fanatici usano per flagellarsi.
«Dov'era?»
«In fondo all'armadio a muro nella camera da letto», disse Baena. «Niente corone di spine o maglie di crine, però.»
Falcón grugnì una risata e disse a Baena di inventariare il contenuto del baule prima di farlo trasportare alla Jefatura. Lasciò a Serrano il compito di mettere i sigilli alla casa e si diresse verso il centro della città. Parcheggiò in Reyes Católicos e fece un rapido spuntino con una
Greta, la segretaria di Salgado, svizzera di nascita, sedeva alla scrivania in fondo al locale con le mani strette fra le ginocchia, fissando il vuoto, gli occhi gonfi e sciupati dal pianto.
«Dovrebbe andare a casa», le disse Falcón, ma Greta non voleva restare sola. Gli confidò che erano dieci anni che lavorava per Salgado, avevano programmato una festa di anniversario per la prossima Feria. Si lasciò andare ai ricordi, alle frasi fatte su «quant'era buono» Ramón. Falcón le chiese se le venisse in mente qualche artista che avesse detestato Ramón, che fosse stato respinto da lui, forse.
«Entra sempre qualcuno in galleria, studenti, giovani. Mi occupo io di loro. Non capiscono come funziona il mercato dell'arte, Ramón non opera a quel livello. Alcuni di loro escono di qui infuriati, come se noi non fossimo degni del loro genio, mentre con altri si parla e, se li trovo simpatici, lascio che mi mostrino i loro lavori. Se sono buoni, dico loro a chi portarli. Ramón non li vedeva mai.»
«Quanti di loro le hanno mostrato opere che comprendono film, video o immagini computerizzate?»
«Più della metà. Oggigiorno non molti di questi ragazzi dipingono.»
«Non è lo stile che piaceva a Ramón, vero?»
«Non è lo stile dei suoi clienti. Sono piuttosto conservatori, non ne capirebbero il valore. A questo livello si tratta più che altro di denaro e di investimenti… e un CD con qualcosa di creativo dentro non dà la sensazione, non ha l'aspetto di un investimento da dieci milioni di pesetas.»
«Tra quelli rappresentati, c'era qualche artista affermato che fosse scontento di lui?»
«No, Ramón era molto vicino ai suoi artisti, non faceva quel genere di errori.»
«E negli ultimi sei mesi? Ricorda niente di strano, qualche episodio sgradevole o umiliante…»
«Non era molto concentrato sul lavoro, era preoccupato per sua sorella, e poi è stato molto all'estero, principalmente in Estremo Oriente… Thailandia, Filippine.»
Il pensiero di Salgado che cercava soddisfazione ai suoi bisogni con i fanciulli orientali si cristallizzò nella mente di Falcón. Si sentì sudicio di fronte alla bionda Greta, lui con la sua consapevolezza recente, lei con i suoi ricordi intatti. Si rese conto che la verità aveva degradato lui e l'ignoranza elevato lei.
«Ramón non parlava mai di sua moglie?» le domandò.
«Non sapevo che fosse stato sposato», si meravigliò Greta. «Era molto riservato. Ho sempre pensato che non fosse il tipico spagnolo, in lui c'era parecchio della riservatezza svizzera.»
Siamo a tal punto diversi a seconda delle persone con le quali siamo in rapporto, pensò Falcón. Salgado era tranquillo, autorevole, gentile e riservato con una donna sulla quale non aveva bisogno di fare colpo, eppure con Falcón era sempre stato ossequioso, seccante, smanioso di compiacere e pomposo. Avendo una buona memoria, disse a se stesso, potremmo essere chi vogliamo con chiunque, tutti noi attori e ogni giorno una nuova commedia.
Salì nell'ufficio di Salgado al piano superiore, in quel momento occupato da Ramírez e Fernández in maniche di camicia, intenti a sfogliare carte ai due lati della scrivania.
«Non stiamo facendo progressi qui», lo informò Ramírez. «Il meglio che abbiamo ricavato ce lo ha fornito Greta nella prima mezz'ora e cioè l'elenco dei clienti, quello degli artisti che rappresentava un tempo, quelli attuali e quelli che non ha voluto rappresentare. Il resto sono lettere, fatture, la solita roba. Nessuna corrispondenza tra lui e la signora Jiménez, nessun biglietto di Sergio con scritto: 'Sei fottuto'.»
Si era fatto tardi e Falcón disse loro di smettere. Tornò aña Jefatura. Il baule trovato nella mansarda di Salgado era già lì. Prese la pellicola e la inserì nel proiettore di Raúl Jiménez, già pronto. Il film era probabilmente un regalo, forse dello stesso Jiménez. Consisteva in sette sequenze di Ramón e di Carmen, felici in ogni ripresa. Evidentemente Salgado adorava sua moglie; lo sguardo che le rivolgeva quando la donna si girava verso la cinepresa e il modo in cui i suoi occhi indugiavano sulla guancia di lei non lasciavano dubbi in proposito.
Falcón rimase seduto al buio in compagnia della luce tremolante delle immagini. Non riusciva a controllarsi, ma non c'era nessuno per cui doversi controllare e perciò pianse, senza sapere perché e disprezzandosi per questo, come era solito disprezzare il pubblico che piagnucolava per il rozzo sentimentalismo degli spettacoli cinematografici.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
XXV
Nelle pillole per dormire, qual era l'ingrediente che sopprimeva i sogni? Era lo stesso che seccava le fauci e imbottiva il cervello con asciugamani di spugna? Falcón, sdraiato al buio, si premeva i polpastrelli sul viso irrigidito come un pugile che valuta i danni dell'incontro appena disputato. E che cosa dire di quei buchi neri nella memoria? Il pensiero gli ricordò le parole di Alicia.
«Una nevrosi è simile a un buco nero nello spazio. È bizzarra e inesplicabile. Com'è possibile che accada qualcosa di così catastrofico come il collasso di una stella? Come è possibile che qualcosa accaduto a un essere umano sia così doloroso da indurci a rifiutare il suo ricordo, da farci negare parte del cervello? E c'è di più in questa analogia, perché la stella collassata esercita una tale forza gravitazionale che la sua attrazione continua a risucchiare materia nel suo universo negativo. Allo stesso modo la nevrosi attira tutte le cose positive della nostra esistenza, consumandole e rendendole anti-positive. Lei mi ha descritto alcune relazioni significative della sua vita, con la sua prima ragazza importante, Isabel Alamo, e con la sua ex moglie, Inés. Entrambe relazioni molto intense, con molta passione da parte di entrambi, ma che non hanno potuto resistere alla forza gravitazionale del buco nero dentro di lei.»
«Con Inés era solo sesso, adesso me ne rendo conto», aveva detto.
«Davvero?» aveva domandato Alicia. «Non crede possibile che sia stato a lei a voler mantenere la relazione a quel livello? Il sesso è affrontabile, l'amore è più complesso.»
«So che era sesso. Perciò questa gelosia illogica mi fa soffrire.»
«In genere il sesso si spegne da solo.»
«È esattamente quello che è accaduto. Il sesso si è spento e non è rimasto nulla.»
«Però è ancora affascinato da lei. La vuole ancora. Una parte di lei non ha chiuso del tutto con Inés… e questa è una delle ragioni per cui non riesce a parlarne con quel magistrato.»
Il pensiero ciclico lo sfibrava, si sentiva sfinito. Scese dal letto e il tonfo del diario di suo padre caduto sul pavimento lo riportò a quanto aveva letto la sera prima, alla pietà e al disgusto che aveva provato per lui. Era sbalordito davanti a quella debolezza di carattere, a quella patetica sfaccettatura della sua personalità, un aspetto completamente sconosciuto a Javier. Come era stata forte sua madre, come era stata appassionata nella sua fiducia in lui e come era stata mal ricompensata dall'ambiguità e dalla sessualità irrequieta del marito! Era fragile, quel genio, ed era solo un altro individuo con un istinto per l'indegnità.
Indossò la tuta e scese al pianterreno. La spia sul telefono lampeggiava. Ascoltò l'unico messaggio che gli era stato lasciato, pensando: nessuno mi chiama, in ufficio ho un centinaio di messaggi e a casa niente. La voce di Paco interferì con i suoi pensieri, e lo informò che una distorsione al ginocchio durante un allenamento aveva eliminato Pedrito de Portugal dalla scena, offrendo una possibilità a Pepe per il pomeriggio del lunedì seguente, lo stesso giorno in cui lui avrebbe consegnato i tori.
Falcón corse fino al fiume e lungo la riva oscura verso la Torre del Oro. Un altro corridore gli rivolse un cenno col capo e un altro ancora gli indirizzò un mezzo saluto: da quando aveva smesso la folle abitudine di pedalare da fermo, Falcón era diventato un corridore abituale. In lui si stavano aprendo strani canali: non aveva parlato ad Alicia delle lacrime assurde nel guardare il film di Ramón e di Carmen. Da dove gli veniva quel sentimentalismo assolutamente incompatibile con il suo lavoro? Quel pensiero lo costrinse a fermarsi di botto. Era senza fiato. Inconsciamente aveva accelerato la corsa per sfuggire ai pensieri disturbanti. Per questo era entrato nella polizia? Era stato per soddisfare il suo bisogno di un'osservazione spassionata delle tremende crisi della vita? Quello era forse un momento di verità? Corse fino a casa, prese una copia di
Al momento di spogliarsi per la doccia, il miglioramento prodotto dallo sforzo fisico era evaporato, nella schiena aveva una miriade di nervi vibranti e nello stomaco si era aperta una voragine che presentava una terrificante rassomiglianza con il buco nero descritto da Alicia. Gli parve che ogni pensiero positivo venisse risucchiato da quel precipizio e fu preso dal panico all'idea che tutto, compresa la sua salute mentale, potesse sparirvi dentro. Ingoiò un Orfidal.
Telefonò al fratello, voleva parlargli prima che se ne andasse nei pascoli per radunare i tori da trasportare a Siviglia per la corrida del lunedì seguente.
«Come va la gamba?» domandò Falcón.
«La gamba va bene», rispose Paco. «Ci sono notizie?»
«Per ora no.»
«Senti, un'altra cosa», gli annunciò Paco, «domenica saremo in otto.»
Silenzio.
«Ti eri dimenticato, vero?»
«Ho avuto troppo da fare», si giustificò Falcón. «Ricordi Ramón Salgado, il gallerista di papà? È stato assassinato ieri mattina. Devo occuparmi di quello e di altri due omicidi, perciò non ho potuto…»
«Hanno
«Proprio così. Il funerale è oggi pomeriggio.»
«Non riesco a immaginare perché mai si siano presi il disturbo.»
«Qualcuno l'ha fatto.»
«Be', in ogni caso… domenica saremo in otto.»
«Rinfrescami la memoria.»
«Verremo a casa tua a pranzo, ci fermeremo a dormire, il giorno dopo andremo a mangiare fuori, sul lungofiume, e poi la corrida, seguita da una cena al ristorante. Martedì mattina torneremo alla
«Avevo dimenticato.»
«Farai bene a chiamare Encarnación.»
Falcón riagganciò e telefonò subito a Encarnación, la quale gli assicurò che avrebbe preparato le camere, ma che non le sarebbe stato possibile cucinare quella domenica. Però avrebbe mandato sua nipote. Lo pregò di lasciarle i soldi per la spesa, avrebbe comprato tutto lei più tardi. Falcón andò al bancomat in calle Alfonso XII e ritirò trentamila pesetas. Al suo ritorno, alle nove, il telefono stava squillando. Era Pepe Leal: aveva ottenuto lo spazio di Pedrito de Portugal. Falcón gli offrì un letto, ma Pepe preferiva restare con la sua squadra all'hotel Colón.
«Ci vedremo domenica sera», disse Pepe. «Parleremo un po', potrai prepararmi per lunedì, tranquillizzarmi.»
Falcón gli disse del famoso toro
Alle nove e trenta Falcón chiamava Felipe, della scientifica, per vedere se fosse stato trovato qualcosa. Nella casa di Salgado non erano state rinvenute impronte. Si stavano occupando dei campioni di sangue ora, ma, fino a quel momento, erano tutti di Salgado. Falcón telefonò al Médico Forense per sapere a che punto fosse il rapporto sull'autopsia. Il medico legale non aveva ancora redatto il referto, perché aspettava alcuni risultati delle analisi del sangue dal laboratorio.
«Quando ho avuto la vittima qui ho notato che aveva tre contusioni intorno all'occhio destro», dichiarò. «Tutte le altre contusioni erano sulla parte posteriore e sul lato della testa, solo queste tre erano sulla parte frontale. E sono anche diverse dalle altre, non sono state prodotte da un oggetto duro e aguzzo, ma da qualcosa di smussato e relativamente morbido, forse un pugno. L'assassino lo ha colpito tre volte sulla faccia e mi domando perché. Dal livido si capisce che ha usato il pugno sinistro, ma so che l'assassino è destrimano.»
«Come fa a saperlo?»
«Volendo tagliare le palpebre di una persona già legata a una sedia, bisognerebbe mettersi alle sue spalle e tenerle la testa piegata all'indietro. L'incisione iniziale con il bisturi sull'occhio sinistro della vittima è stata fatta da sinistra a destra e lo stesso è stato per l'occhio destro.»
«Allora perché pensa che lo abbia colpito con il pugno sinistro?»
«Perché aveva la destra occupata.»
«Con che cosa?»
«Era infilata nella bocca della vittima che la stava mordendo.»
«Può provarlo?»
«Dopo averlo cloroformizzato per eseguire l'operazione, ha tolto i calzini dalla bocca in modo che la vittima non soffocasse mentre era priva di sensi. Quando si è ripresa, le ha infilato di nuovo i calzini in bocca, ma non è stato abbastanza rapido oppure la vittima ha avuto una reazione imprevista.»
«Ma come fa a sapere tutto questo?»
«Ho trovato sangue che non apparteneva alla vittima all'interno della sua bocca e nei calzini. Il sangue della vittima è del tipo 0 positivo, mentre questo sangue è AB positivo. Ho appena dato istruzioni di fare il test del DNA.»
Falcón riappese e subito udì il suono del cellulare. Era Felipe, con la conferma che uno degli spruzzi di sangue era di tipo AB positivo. La posizione della chiazza era a un metro e venti dalla gamba anteriore della sedia in direzione della porta. Mentre parlava il telefono fisso cominciò a squillare. Questa volta era Consuelo Jiménez.
«Come ha avuto questo numero?»
«Ho chiamato la Jefatura e mi hanno detto che lei non era ancora arrivato.»
«Alla Jefatura non danno questo numero e lei ha già quello del mio cellulare.»
«Ho il suo numero di casa da anni, me lo aveva fornito Ramón come favore», disse la signora Jiménez. «Suo padre e io ogni tanto ci sentivamo.»
«Ha qualcosa per me sul signor Carvajal?»
«Ho letto sul giornale che Ramón Salgado è stato assassinato dalla stessa persona che ha ucciso mio marito. Non mi aveva detto che gli avevano asportato le palpebre.»
«I giornali cercano il sensazionale», disse Falcón senza aggiungere altro.
«Eravamo buoni amici, Ramón e io», disse.
«Ma non tanto da farle ricordare il suo nome all'inizio delle indagini.»
«Ero sconvolta dall'intrusione dell'assassino nella nostra vita. Stavo solo cercando di esercitare un certo controllo sulle intrusioni dell'investigatore… tutto qui.»
«Si rende conto che il ritardo nello stabilire il collegamento può essere costato la vita a Ramón?» disse Falcón, esagerando volutamente per ottenere una reazione emozionale.
«Mi ha detto che vi sareste parlati.»
«Quando?»
«Ci siamo sentiti quasi tutti i giorni da quando Raúl è stato assassinato», spiegò la signora Jiménez. «Non ha controllato le telefonate?»
«Non ho ancora letto il rapporto.»
«Ramón era un uomo molto sensibile e coscienzioso.»
«Quando le ha detto che ci saremmo visti?»
«Avrebbe dovuto incontrarla ieri a colazione.»
«Le ha riferito di che cosa voleva parlare con me?»
«No.»
«Non sembra fosse per qualcosa che avrebbe potuto implicarla, no?»
«Perché avrebbe dovuto?»
«Le aveva raccontato del nostro patto?»
«No.»
«Mi avrebbe fornito un'informazione utile per sapere chi fossero i nemici di Raúl e in cambio io lo avrei lasciato per un giorno nello studio di mio padre», spiegò Falcón. «Lei sa perché volesse farlo? Passare un giorno nello studio di mio padre, voglio dire. Aveva detto che non si trattava di ragioni commerciali.»
«Era devoto a suo padre, Ramón doveva tutta la sua vita e il suo successo al genio di suo padre.»
«Allora di che si trattava? Voleva mettersi in comunicazione con lo spirito di Francisco Falcón?»
«Il cinismo non le si addice, Don Javier.»
«Quanto a fondo conosceva Ramón? Da quanto tempo lo conosceva?»
«Da quasi vent'anni.»
«Sapeva che era stato sposato?»
Silenzio.
«Sapeva che la moglie era morta dando alla luce un figlio?»
Silenzio.
«Sapeva che nel suo…» Falcón si interruppe, di colpo sopraffatto dalla futilità di tutto, la giacca greve sulle spalle.
«Pronto?» disse la donna.
«Mi dica che cosa sa di Ramón Salgado», riprese Falcón. «È stato sempre presente nella mia vita in qualche modo, compaio perfino nell'ultimo film dell'assassino,
«Non posso credere che non mi abbia detto di essere stato sposato», disse lei. «Mi raccontava tutto.»
«Forse non proprio tutto.»
«Be', per esempio mi aveva confessato di aver ucciso un uomo.»
«Ramón Salgado ha
«Ha detto che era stato un incidente… un incidente terribile, ma aveva ucciso qualcuno e questo gli pesava enormemente sulla coscienza.»
«Perché le avrebbe detto una cosa simile?»
«Perché io gli avevo appena raccontato tutto di me. Avevo bevuto, ero depressa dopo il secondo aborto e la fine della mia relazione con il figlio del duca. Gli ho confessato l'aborto e il modo in cui avevo guadagnato i soldi e… lei capisce, è diventata una conversazione molto personale.»
«Sono segreti gravi da condividere.»
«Eravamo due persone sole e deluse e ci siamo confidati le nostre storie in un caffè sulla Gran Vía, davanti a un brandy.»
«Le ha detto quando avrebbe ucciso quell'uomo?»
«All'inizio degli anni '60 a Tangeri. Aveva dato uno spintone a uno durante una discussione tra ubriachi, il tipo era caduto, aveva battuto la testa in un brutto punto ed era morto. Era stata messa a tacere ogni cosa, Ramón aveva sborsato un po' di soldi e aveva lasciato il paese.»
«Non crede che stesse mentendo?»
«Perché avrebbe dovuto confessare una cosa tanto terribile?»
«Se non per far sentire meglio lei? Be', la cosa poteva dare a Ramón una certa aura… un fascino di cui era assolutamente privo.»
«Posso dirle soltanto che lei non lo ha sentito pronunciare quelle parole, non ha visto quanto gli sia costato rivelarmelo.»
«Va bene», disse Falcón, «è vero, ma è stato quarant'anni fa…»
«Non è risalito a quegli anni nelle indagini sull'assassinio di Raúl? Ha detto che voleva ricostruire il quadro generale del passato. Questo fa parte di un altro passato.»
«Il problema ora è che i miei superiori e io abbiamo bisogno di un quadro generale del presente», disse Falcón. «Non posso nemmeno dimostrare che suo marito e Ramón fossero insieme a Tangeri nello stesso periodo. Non esiste nemmeno questo tenue legame.»
«Raúl aveva fatto conoscere Ramón a suo padre. Gli aveva dato una lettera di presentazione da portare con sé a Tangeri.»
«Che cosa successe in seguito tra Raúl e mio padre?» domandò Falcón, per un attimo affascinato dalla digressione. «Per quanto ne so, una volta arrivati a Siviglia non si sono mai più visti.»
«Non so, non ne ha mai parlato. Glielo avevo chiesto, ma lui non aveva risposto.»
«Va bene», riprese Falcón, tornando in argomento, «mi parli del presente nei rapporti tra Ramón e suo marito.»
«Quali rapporti?»
«È stato Ramón a presentarle Raúl, non è così?»
«Se dodici anni fa per lei è il presente, quando comincia il passato?»
«Che cosa mi dice dell'Expo '92? I nomi che le ho fatto erano collegati da…»
«Siamo solo a nove anni fa, stiamo facendo progressi, Inspector Jefe.»
«Se uno subisce violenze sessuali da piccolo, per quanto tempo crede che questo fatto segni la persona?»
Un silenzio, così profondo e prolungato che Falcón cominciò a chiedersi se Consuelo Jiménez fosse ancora all'apparecchio.
«Di che nomi stiamo parlando e che cosa hanno a che fare con le violenze ai bambini?» domandò la donna. In quel momento nella sua voce era evidente una sfumatura di rabbia.
«Questo è coperto dal segreto istruttorio», rispose Falcón, «ma un nome lo conosce… Eduardo Carvajal.»
«Se mi sta dicendo che mio marito o Ramón avevano qualcosa a che fare con un giro di pedofili dovrà risponderne a me e ai miei avvocati.»
«Continui a leggere i giornali», le disse Falcón e la signora Jiménez interruppe la comunicazione.
Pochi secondi dopo il suo cellulare squillava. Falcón non si era ancora staccato dal telefono da quando era tornato dal bancomat: il mondo intero stava convergendo su di lui.
«Dov'è?» gli domandò il Comisario Lobo.
«Non ho ancora avuto la possibilità di uscire di casa», spiegò Falcón, «ho risposto a una telefonata dopo l'altra.»
«Meglio così», disse Lobo. «Sarò in uno dei caffè della Plaza de Armas, dalla parte di avenida del Cristo de la Expiración. Tra un quarto d'ora.»
Lobo non gli aveva mai dato un appuntamento fuori dall'ufficio; e che posto per incontrarsi, poi! Poteva significare soltanto che l'argomento di cui voleva parlargli era troppo delicato per le mura piene di orecchie della Jefatura.
Falcón era nel patio quando il telefono fisso ricominciò a squillare. Tornò indietro, afferrò la cornetta. Silenzio.
«
«Che ne pensi ora di Ramón Salgado,
«
«Non chiamarmi così!»
«Allora non chiamarmi zio», ribatté Javier.
«Non hai risposto alla mia domanda sulla collezione di Hieronymus Bosch del tuo vecchio amico… un luogo perfetto per custodirla, no?»
«Immagini oscene, ma, sai, in Spagna abbiamo leggi contro la violenza all'infanzia e punizioni adeguate e severe per i criminali. Non è necessario che tu…»
«Capisco dove vuoi arrivare, Inspector Jefe. A Raúl piacevano le bambine e a Ramón i ragazzini torturati… molto interessante.»
«Ed Eduardo Carvajal?»
Silenzio.
«Basta uccidere, Sergio. Non hai più bisogno di farlo.»
«Non ho ucciso nessuno. Non è stato necessario.»
«Come sta il pollice?» domandò Falcón e la comunicazione si interruppe.
Strinse furiosamente il ricevitore. Lo aveva perduto. Tutte le domande da fare e le strategie da applicare gli si erano presentate alla mente qualche secondo troppo tardi. Sbatté giù la cornetta e uscì per incontrare Lobo.
Mentre percorreva calle Pedro del Toro ripensò alla natura del silenzio che aveva seguito il nome di Eduardo Carvajal. Era stato il silenzio di chi non aveva mai sentito quel nome e Falcón comprese di aver imboccato un altro vicolo cieco.
La Plaza de Armas, un tempo la principale stazione ferroviaria di Siviglia, ospitava ora una galleria di negozi, caffè e fast-food frequentati da perdigiorno. Lobo, che indossava una giacca troppo pesante per quella giornata mite, era seduto da solo a un tavolino accanto all'antico ingresso della stazione, con davanti due tazze di caffè.
«Ha l'aria sfinita, Inspector Jefe», esordì Lobo.
«Ho appena parlato con il nostro assassino.»
«Si sta ancora divertendo?»
«Non ero pronto a una conversazione con lui dopo tutte le telefonate che ho ricevuto stamani», spiegò Falcón. «Mi ha confuso chiamandomi 'zio' e non ho avuto nemmeno la presenza di spirito di domandargli come abbia trovato il mio numero.»
«Quale numero?»
«Il vecchio numero di telefono di mio padre… non lo dava a nessuno.»
«Forse l'ha trovato in casa di Ramón Salgado.»
«Forse.»
Mentre Falcón lo metteva al corrente delle telefonate, Lobo tamburellava con le dita sul bordo del tavolo.
«Era sorpreso dal collegamento che lei ha fatto», osservò Lobo.
«Lo ammetto, mi ha scosso.»
«E dalla signora Jiménez nessuna notizia sui rapporti tra suo marito e Carvajal, se non la sua rabbia all'idea che potesse esistere un collegamento», disse Lobo. «Che cosa intende fare ora, Inspector Jefe?»
«Credo che manderò comunque il computer alla buoncostume; potremmo trovare un collegamento con Carvajal tramite quel materiale.»
«La ragione per cui siamo qui potrebbe avere a che fare con questo», dichiarò Lobo. «Il nome della MCA Consultores mi è arrivato da un'altra fonte. C'è stata una fuga di notizie. Lei ne ha parlato con qualcuno?»
«Ho nominato alcuni dei titolari alla signora Jiménez, ma non ho fatto il nome della società», rispose Falcón. «E dopo aver visto il materiale sul computer di Salgado ho deciso di informare il Juez Calderón sulla mia nuova ipotesi, il che ha comportato un riferimento alla MCA Consultores.»
«Allora la fuga è avvenuta qui», affermò Lobo. «Ecco come la notizia è arrivata al Comisario León. Molto interessante.»
«Pensa che il Juez Calderón ne abbia parlato con il dottor Spinola o con il Fiscal Jefe Bellido?»
«Come crede che abbia avuto quel posto prima ancora di compiere trentasei anni?» domandò Lobo.
«Sembra molto capace.»
«Lo è, ma suo padre è anche il marito della sorella minore del dottor Spinola. Sono parenti.»
«In che modo le è arrivato il nome della MCA?» domandò Falcón.
«Siamo tutti alla mercé delle nostre segretarie.»
«E questo come influenzerà le indagini?»
«Qualsiasi cosa succeda, ci darà un'indicazione sul grado di colpevolezza.»
XXVI
La galleria era aperta ma vuota. Al piano superiore Ramírez e Greta, seduti uno accanto all'altra, stavano scorrendo gli elenchi degli artisti rappresentati. La donna, a capo chino, guardava la lista e parlava, l'uomo ammirava i suoi capelli. Si scostarono bruscamente quando l'Inspector Jefe arrivò in cima alla rampa di scale. Falcón ebbe la certezza di aver colto il principio di un'intesa sessuale tra i due. Pregò Greta di lasciarli soli per qualche momento.
«Abbiamo trovato il sangue», esordì, suscitando subito l'interesse di Ramírez.
«Nella casa di Salgado?»
«Sul pavimento e in bocca.»
«In bocca?»
«Quando Sergio gli ha infilato i calzini in bocca per la seconda volta, Salgado lo ha morso.»
Ramírez si allungò sulla sedia e sorrise, allargando le braccia. «Ora dobbiamo soltanto trovarlo», disse. «Ma perlomeno il Juez Calderón sarà contento di sapere che, quando lo avremo trovato, avrà qualcosa di concreto in mano.»
«Lavori con Greta…»
«Con piacere.»
«… metta insieme una lista di tutti gli artisti che usino filmati o video nelle loro opere e abbiano un recapito di Siviglia o di Madrid.»
«Madrid?»
«Ci ha spedito qualcosa da Madrid; potrebbe avere ancora un'abitazione là.»
«In che fascia di età dobbiamo cercare?»
«Diciamo fino a quarantacinque anni, tanto per precauzione… purché sani e robusti», rispose Falcón. «Conosce nessuno alla buoncostume che esaminerebbe il materiale che abbiamo trovato sul computer di Salgado per darci un parere sulla provenienza?»
Ramírez annuì, da uomo che sapeva come farsi dispensare favori. Tornarono sul profilo di Sergio, poi Falcón si avviò all'uscita. Sulle scale, si girò.
«Se Greta conosce qualcuno su quell'elenco che abbia avuto un'istruzione francese e che abbia trascorso del tempo in Francia o in Nordafrica, mettete in evidenza il nominativo.»
Davanti alla casa di Salgado Falcón scavalcò il nastro della polizia ed entrò nell'abitazione, deserta e priva di vita ora che il trambusto della scena del delitto era cessato. Non comunicava nemmeno tristezza, solo la sterilità del suo proprietario, un uomo dai gusti presi in prestito. Al pianterreno le pareti erano state imbiancate di recente, non vi era traccia di ninnoli, nessuna fotografia, nessun oggetto fuori posto, la mobilia un insieme di linee pulite; in soggiorno solo un quadro, un acrilico astratto quasi privo di colore. Nello studio, al centro della libreria, l'unica foto esposta: Francisco Falcón e Ramón Salgado, sorridenti, le braccia l'uno sulle spalle dell'altro.
Salì nella mansarda affacciata sul piccolo terrazzo dal quale si pensava che fosse passato Sergio. Felipe e Jorge l'avevano lasciata esattamente come era stata trovata, perfino la chiave della porta era ancora sul pavimento come quando erano entrati. Falcón la fissò per un attimo, poi chiamò Felipe con il cellulare e gli chiese dove avesse lasciato la chiave.
«L'abbiamo rimessa nella serratura, era meglio che correre il rischio che venisse spostata di qua e di là sul pavimento.»
«In questo caso… è tornato», disse Falcón.
«Dov'era la chiave?»
«Per terra, accanto alla porta, dove è stata trovata la prima volta. Perché dovrebbe voler tornare sulla scena del delitto?»
«Perché si è dimenticato qualcosa?» suggerì Felipe.
«Sì, significa che ha lasciato qui una cosa», affermò Falcón e una palma alta nel giardino accanto ondeggiò nella brezza in un sonoro fruscio delle foglie. A Falcón si rizzarono i capelli in testa mentre si concentrava nell'ascolto. E se fosse stato ancora lì? No, non in pieno giorno. Iniziò una lenta e metodica ricerca in tutta la casa. Era vuota. Tornò nella stanza dove era stato trovato il corpo di Salgado e, fermo in piedi davanti alla scrivania, rivide la scena con l'immaginazione.
Mentre Sergio gli infilava di nuovo i calzini in bocca, Salgado aveva ripreso i sensi e lo aveva morso; l'altro aveva reagito colpendolo tre volte sulla faccia, poi aveva fatto un passo indietro, stringendosi il pollice o l'indice ferito. Dove sarebbe potuto andare? La cucina era la stanza più vicina. Perciò aveva raggiunto il lavello, si era sfilato il guanto di lattice e si era lavato il dito. Probabilmente si era fatto prendere dal panico, sanguinava ancora e non c'era niente per tamponare la ferita, niente cerotti in giro.
Il rotolo di carta da cucina. Aveva strappato un po' di carta dal rotolo, l'aveva premuto sul taglio ed era salito nel bagno al piano superiore. Probabilmente a quel punto era agitato, i nervi non più saldi come prima, e forse anche incollerito. Probabilmente aveva avuto fretta di finire quello che aveva cominciato per potersene andare. Perciò era tornato da Salgado, aveva sistemato il terribile cappio, aveva fatto la sua telefonata e lo aveva guardato morire. Poi era uscito in fretta.
Perché gli aveva telefonato proprio quella mattina? Era preoccupato? A che punto ha interrotto la comunicazione? si domandò. Quando gli ho chiesto del pollice. È stato questo a dargli la risposta? Sì, deve essere stato così. Sergio ha capito che io non sapevo di quale dito si trattasse.
Le immagini si susseguirono nel cervello di Falcón, rulli di memoria srotolarono i loro segreti. Sua madre che entrava in bagno per lavarlo, che gli insaponava la schiena. Era vestita come se dovesse andare a un ricevimento. Si era tolta gli anelli e li aveva appoggiati in una conchiglia sul bordo della vasca.
Falcón tornò al lavello della cucina. Ora capiva. Ecco perché Salgado aveva continuato a mordere resistendo ai tre pugni in faccia: l'anello gli aveva dato un appiglio. Probabilmente l'aveva trascinato oltre la nocca e, quando Sergio si era sfilato il guanto bucato, l'anello era caduto nel lavandino. O no? Era un lavello di acciaio inossidabile, cadendo l'anello avrebbe prodotto un rumore, Sergio se ne sarebbe accorto… a meno che non fosse caduto direttamente dentro il foro di scarico… Falcón vi infilò le dita e incontrò il rivestimento di gomma. Nessun rumore, l'anello sarebbe finito dritto nel sifone. Prese la torcia, ma nella cavità non si vedeva niente. Chiamò di nuovo Felipe e gli domandò del lavello, che era stato ispezionato soltanto superficialmente, ammise l'uomo della scientifica.
In un ripostiglio sotto le scale Falcón trovò una cassetta degli attrezzi mai usata e nel giro di quaranta minuti scollegò il sifone con tutto il dispositivo per triturare i rifiuti. Lo mise in macchina e tornò alla Jefatura dove Felipe e Jorge stavano ancora lavorando. Forzarono la chiusura del dispositivo e staccarono le lame del trituratore che sembravano bloccate. Tirarono fuori tutti i rifiuti di verdura mettendoli su una lastra di vetro, Jorge vi frugò con cura ed eccolo lì: un anello d'argento contorto e ammaccato.
«Deve aver cercato di estrarlo», disse Felipe, «non c'è riuscito e allora ha deciso di triturarlo, ma il dispositivo si è bloccato. A quel punto avrebbe dovuto smontare tutto, perciò se ne è andato.»
«Potete raddrizzarlo, per vedere com'è?» domandò Falcón.
Felipe si mise al lavoro e quasi immediatamente chiese a Jorge di guardare meglio tra i resti vegetali del sifone, perché nell'anello doveva essere stata incastonata una pietra, che in quel momento risultava mancante.
«Il particolare bizzarro», fece notare Felipe, «è che in origine si trattava di un anello da donna, ne sono sicuro. Guardi qui…»
Mise il gioiello sotto la lente del microscopio e mostrò a Falcón la fascetta.
«Per allargarla è stato usato argento di una qualità diversa», disse Felipe. «Si vede dove è stata tagliata per inserire il pezzo nuovo. Un lavoro ben eseguito, comunque. L'unica differenza sta nel colore dell'argento.»
«Che cosa sa sull'argento?»
Felipe scosse il capo. Jorge annunciò di aver trovato la pietra, un piccolo zaffiro. Montarono l'anello su un pezzetto di plastilina e rimisero la pietra al suo posto.
«È un anello da donna, non c'è dubbio», affermò Felipe.
«Perché un uomo dovrebbe portare un anello da donna?»
«Un'amante?» suggerì Felipe.
«Se una donna le regalasse un anello come pegno, lei lo porterebbe? Lo farebbe allargare e lo porterebbe?» domandò Falcón.
«Forse no. Penso che preferirei tenerlo così com'è», rispose Jorge.
«Credo piuttosto che si tratti dell'anello di una defunta», disse Falcón. «Questo è un cimelio di famiglia.»
«Ma non abbiamo ancora risposto alla domanda», intervenne Felipe. «Perché un uomo dovrebbe portare un anello da donna? Deve avere un significato importante.»
«Ramírez porta un anello da donna», disse Jorge. «Chiediamolo a lui.»
«Come lo sapete?»
«Non si è mai chiesto perché abbia quell'anello con tre brillantini montati in oro? Voglio dire… proprio uno come Ramírez. Così una sera che eravamo in un bar gliel'ho domandato», spiegò Jorge. «Era l'anello di sua nonna. Ramírez non ha sorelle, perciò l'ha fatto allargare. Era molto attaccato alla nonna.»
«Che cosa ci rivela questo di Sergio?»
«Che non ha sorelle», rispose Jorge e i due poliziotti della scientifica si misero a ridere.
«Conosciamo qualcuno che sia esperto di argento?» domandò Falcón.
«Ci siamo già avvalsi di un vecchio gioielliere di qui. Ora è in pensione, ma ha ancora un laboratorio in plaza del Pan. Però non so se ce lo troverà di sabato pomeriggio.»
Il laboratorio era chiuso e nessuno nei negozi vicini aveva l'indirizzo di casa o il telefono dell'orefice. Falcón provò da qualche altro gioielliere, ma erano tutti impegnati o poco competenti in materia. Allora tornò alla galleria per sentire se Ramírez avesse fatto progressi con Greta. La porta era chiusa a chiave. Gli altri negozi della via stavano chiudendo per l'intervallo.
Estrasse il sacchetto di plastica con l'anello e qualcosa gli balenò nella mente, rapido, simile al lampo dell'esca nell'acqua agli occhi di un pesce. Lo perse nell'oscurità, ricordando le parole di suo padre: erano quelle le idee importanti, quelle che venivano dal profondo e scomparivano. Rimise il sacchetto in tasca. La donna che stava chiudendo il negozio accanto alla galleria gli disse che Greta probabilmente era andata da El Cairo a mangiare qualcosa.
Ramírez e Greta, seduti a un tavolino, mangiavano
«Non è tornato per il valore», disse, «argento e uno zaffiro, non è un anello tanto prezioso.»
«Dev'essere importante per lui», affermò Falcón. «Per questo mi ha telefonato stamani, aveva bisogno di sapere se lo avessimo trovato.»
«Crede che sia preoccupato all'idea che possiamo scoprire l'importanza di questo anello?»
«Chiaramente ha un passato. Basta il fatto che sia un anello da donna allargato in modo da poter essere portato da un uomo, a lasciar intendere che ha una storia.»
«Ma quale storia? E come o perché noi dovremmo comprenderla?»
«Ricorda quando mi ha telefonato per dirmi che aveva una storia da raccontare e che io non avrei potuto impedirglielo? Questo anello fa parte di quella storia e credo che noi lo abbiamo trovato troppo presto. Se riuscissimo a indovinare il passato dell'anello, sapremmo troppe cose su di lui, non so perché, ma è così.»
«Ma noi non sappiamo niente dell'anello», ribatté Ramírez, perplesso davanti all'importanza che Falcón stava attribuendo a quel piccolo elemento di prova.
«Ma lo sapremo», affermò Falcón, indietreggiando verso la porta. «Noi lo
Uscì incespicando dal locale, le due facce impresse nella mente. Greta sembrava interessata, Ramírez evidentemente lo giudicava uno squilibrato.
Tornato in calle Bailén, andò dritto nello studio. Sapeva che nelle altre stanze non vi era più niente degli effetti personali appartenuti a suo padre, Encarnación aveva provveduto a tutto nelle prime settimane dopo la morte. Aprì le imposte e si mise a passeggiare avanti e indietro intorno ai tavoli ingombri al centro della stanza. Stava elaborando il ricordo di sua madre che lo lavava dopo essersi tolta gli anelli. Dov'erano finiti i suoi gioielli? Ma certo, li aveva Manuela! La chiamò sul cellulare, ma la sorella disse di non averli mai visti. Quando Mamá era morta lei era troppo piccola; in seguito aveva domandato a suo padre dove fossero, ma lui le aveva confessato di averli persi durante il trasloco da Tangeri.
«Persi?» si stupì Falcón. «Non si perdono i gioielli della propria moglie.»
«Lo sai com'era tra me e papà», disse Manuela, «era convinto che a me interessassero solo i soldi, perciò quando gli chiedevo qualcosa, mi costringeva a strisciare per averla. Ma con i gioielli della mamma non ho voluto dargli soddisfazione. A parte il fatto che non erano niente di speciale, per quanto ricordo.»
«Ma cosa ricordi?»
«Le piacevano anelli e spille, ma non i braccialetti e le collane, diceva che erano catene per rendere schiave le mogli e non si era nemmeno mai fatta forare i lobi, perciò portava solo orecchini a clip. Non le piacevano le cose costose e preferiva l'argento, perché era di carnagione scura. Credo che l'unico suo anello d'oro fosse la fede nuziale», continuò, come se si fosse aspettata la domanda. «Fratellino, come mai vuoi sapere queste cose, di sabato pomeriggio per giunta?»
«Ho bisogno di ricordare una cosa.»
«Che cosa?»
«Se lo sapessi…»
«Sto scherzando, Javier. Tu hai bisogno di calma, stai prendendo il lavoro troppo… personalmente. Devi mettere un po' di distanza tra te e il lavoro,
«Vieni anche tu?»
«Sì, e porto con me Alejandro e sua sorella.»
Cercando di ricordare i particolari della dieta seguita dalla sorella di Alejandro, Falcón riagganciò. Nella stanzetta dove aveva trovato i diari frugò in tutte le casse. Non trovò nulla. Una sola cosa non aveva mai visto prima: un rotolo di cinque tele. Le srotolò e un piccolo diagramma cadde per terra tra le casse. Portò le tele nello studio, le distese, ma non le riconobbe. Non erano opera di suo padre. Strati su strati di pittura acrilica che dava un effetto di luminosità, come di un chiaro di luna offuscato da nuvole. Le arrotolò di nuovo.
Era ormai buio e Falcón si lasciò cadere sul pavimento, rendendosi conto di aver dimenticato di mangiare e di andare al funerale di Salgado. Sedette con la schiena appoggiata alla parete, le mani ciondolanti tra le ginocchia. Il suo comportamento cominciava a essere ossessivo; la massa di oggetti accumulati nello studio di suo padre gli stava ingombrando il cervello, un gomitolo impossibile da dipanare, come una lenza aggrovigliata. Telefonò ad Alicia, ma trovò la segreteria. Non lasciò nessun messaggio.
Tirò fuori un libro da uno scaffale e si accorse che rimaneva molto spazio tra i volumi e la parete. La sua ossessione riprese il sopravvento e cercò in tutti gli scaffali finché, dietro i libri d'arte, non ebbe trovato una scatola di legno che ricordava di aver visto sulla toletta di sua madre. Rammentò perfino di aver frugato con le piccole dita tra i gioielli in quello scrigno del tesoro da libro di avventure.
La scatola aveva un disegno geometrico moresco sul coperchio e sui lati. Non riuscì ad aprirla e non c'era traccia di serratura, ma, dopo aver provato e riprovato per più di un'ora, mosse un piccolo pezzetto di legno a forma di piramide e la molla scattò.
Davanti ai gioielli che le erano appartenuti, la figura di sua madre balzò davanti a lui con tale vivezza che Javier accostò la faccia allo scrigno, quasi sperando che, dopo tutti quegli anni, vi fosse ancora conservata una traccia del suo odore. Non trovò niente. Il metallo era freddo sotto le dita. Sparse i gioielli sul tavolo, gli orecchini, grappoli d'argento annerito, una spilla a forma di scimitarra con un'ametista, un grosso cubo di agata montato su una fascetta d'argento. Proprio come aveva detto Manuela, l'oro mancava. La fede era stata probabilmente sepolta con lei.
Fissò i gioielli e attese che il ricordo sacro riaffiorasse, come era stato sul punto di fare davanti alla galleria di Salgado, ma affiorò soltanto la conchiglia piena di anelli in una visione sobbalzante di se stesso nell'acqua del bagno, mentre la mano insaponata della mamma gli accarezzava il minuscolo torace.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
XXVII
Arrivò per prima, alle undici, la nipote di Encarnación, Juanita. Falcón era ancora intontito da un sonno pesante indotto dalle pillole; l'ultima, presa alle quattro del mattino, lo aveva praticamente sepolto nel cemento.
Dopo la doccia indossò un paio di pantaloni grigi, così larghi in vita che dovette cercare una cintura. Anche la giacca non gli cingeva più bene le spalle. Stava perdendo peso: nello specchio le guance apparivano incavate, gli occhi infossati nelle orbite e cerchiati di scuro. Si stava trasformando nell'immagine che da sempre aveva dei pazzi.
Le scarpe da ginnastica nere di Juanita scricchiolavano sul pavimento della cucina e un fiume di capelli scuri si agitava lungo la sua schiena ogni volta che la ragazza scuoteva la testa. Falcón controllò che il frigorifero fosse ben rifornito di
La cantina si trovava sul retro della casa, sotto lo studio; era un locale buio che aveva usato anche come camera oscura, ma nel quale non era più entrato da quando Inés se ne era andata. I suoi attrezzi per lo sviluppo delle foto erano ancora là in un angolo, il filo di nylon era ancora teso attraverso la stanza, con le mollette per appendere le stampe ad asciugare. Sentì all'improvviso la mancanza di quell'emozione che provava sempre davanti all'immagine che si andava formando sul foglio bianco immerso nel liquido, al volto che gli veniva incontro. Era quello dunque il segreto chiuso nella sua testa? Immagini che dovevano essere sviluppate, perché i ricordi latenti riprendessero forma e sfondassero il muro della consapevolezza, risolvendo il suo tormento?
La rastrelliera di metallo per le bottiglie di vino era divisa tra vini francesi e spagnoli. Falcón non toccava mai quelli francesi, bottiglie costose comprate da suo padre; ma quel giorno si sentiva in vena di festeggiare. Gli ultimi paragrafi dei diari che aveva letto la notte precedente lo avevano spinto alle lacrime, prima che il sonno giungesse, e sentiva di voler brindare alla generosità del suo defunto genitore. L'intimità che era esistita tra loro aveva trovato una conferma e Javier era disposto a perdonargli la depravazione e l'infedeltà. Scelse qualche bottiglia di Château Duhart-Milon, di Château Giscours, di Montrachet, di Pommard, di Clos-des-Ursules e cominciò a portarle in sala da pranzo, disponendole sul piano della credenza. Risalendo per la seconda volta dalla cantina, in una nicchia sopra la porta, vide un'urna che non aveva mai notato.
Non era più alta di quindici centimetri, troppo piccola per contenere resti umani. Posò le bottiglie, depose l'urna sul tavolo di sviluppo e accese la lampada che lo illuminava. Il tappo era un semplice cono di argilla sigillato con la cera; nessun segno particolare sull'urna di terracotta non smaltata. Falcón ruppe il sigillo e tolse il tappo. Versò una parte del contenuto sul tavolo. Era una sostanza gialliccia e granulosa, con qualche pezzetto più grosso e tagliente. La smosse con il dito: alcuni frammenti erano scuri e all'improvviso quei sedimenti gli apparvero macabri, simili a ossa frantumate. Lasciò tutto sul tavolo, colto da un improvviso moto di repulsione.
Paco e la sua famiglia furono i primi ad arrivare e mentre le donne salivano al piano superiore e i bambini scorrazzavano nella galleria, Paco portò in casa un
Juanita dispose sul tavolo apparecchiato nel patio ciotole di olive e altri
Paco era soddisfattissimo e parlò dei suoi tori, tutti consegnati in perfette condizioni per la corrida del giorno seguente. Il segno dell'incornata era ancora visibile su Biensolo, ma il
Alle quattro del pomeriggio erano seduti a tavola davanti all'agnello arrosto. Manuela notò subito la qualità del vino e domandò quante altre bottiglie stesse nascondendo il «fratellino». Per distrarre la sua attenzione Javier le parlò dell'urna. La sorella gli chiese di vederla e, quando il pasto fu arrivato alla fine e Paco si fu acceso il suo primo Montecristo, Javier andò a prenderla in cantina. Manuela la riconobbe subito.
«Che strano», disse, «non so come papà abbia perduto i gioielli della mamma e sia riuscito a far arrivare sana e salva
«Ah, Manuela! Papà non buttava mai via niente», osservò Paco.
«Ma questa è della mamma. Me la ricordo. L'avevo vista per due o tre giorni sulla sua toletta… più o meno un mese prima che morisse. Le avevo chiesto che cosa fosse, perché era diversa da tutte le altre cose che aveva lì, credevo che fosse un unguento di quella donna del Rif, la sua cameriera. Mamá aveva detto che conteneva lo spirito del genio e che non doveva mai essere aperta. Strano, no?»
«Stava solo scherzando con te, Manuela», disse Paco.
«Vedo che l'hai aperta», osservò Manuela. «Nessun genio?»
«No», rispose Javier, «si direbbero ossa o denti frantumati.»
«Non sembra roba molto spirituale», commentò Paco.
«Macabra più che altro», convenne Javier.
«Avrei detto che, dopo tutte le cose orrende che hai visto, non ti saresti fatto impressionare da un mucchietto di vecchie ossa, fratellino, non
«Ma frantumate?» replicò Javier. «Ne ho ricavato l'impressione di qualcosa di violento.»
«Come sai che si tratta di ossa umane? Potrebbero essere di mucca o qualcosa del genere.»
«Ma perché 'lo spirito del genio'?» domandò Javier.
«Lo sapete chi gliel'aveva data quell'urna, no?» intervenne Paco. «È stato papà… tanto tempo fa. In quel periodo c'era qualcosa di strano in casa. Non vi ricordate? Mamá una volta aveva acceso un falò nel patio, tornando da scuola avevamo visto quella macchia nera vicino al fico.»
«Lui era troppo piccolo», disse Manuela, «ma hai ragione, papà le consegnò l'urna il giorno dopo. Un'altra cosa curiosa: quella scultura meravigliosa che le aveva regalato l'anno prima per il suo compleanno… un bel giorno scomparve. La teneva accanto allo specchio, le piaceva moltissimo. Le chiesi dove fosse finita e lei mi disse soltanto: 'Il Signore dà, il Signore toglie'.»
«E più o meno in quel periodo cominciò ad andare a messa tutti i giorni», disse Paco.
«Sì, prima andava solo una volta la settimana», confermò Manuela. «E smise anche di portare gli anelli, aveva tenuto solo quell'agata da poco prezzo che le aveva regalato papà per la sua festa. Quell'anello te lo ricordi, vero, fratellino?»
«No.»
«Papà aveva dato a te il pacchettino da portarle durante la cena di compleanno. La mamma ha scartato il pacchetto e il coperchio della scatola si è aperto di scatto e ti ha colpito sul naso. È uscito un fiore di carta a molla e dentro il fiore c'era l'anello. Una cosa molto romantica. Mamá era commossa, ricordo la sua espressione.»
«Deve aver saputo che le sarebbe accaduto qualcosa», affermò Paco. «Andare a messa tutti i giorni, portare solo quell'anello, regalo di papà. È stato lo stesso per me quando sono stato incornato a La Maestranza.»
«Lo stesso, che cosa?» domandò Javier, affascinato da quei vecchi ricordi, toccandosi perfino il naso per cercare di rammentare il coperchio che lo aveva colpito.
«Sapevo che stava per accadermi qualcosa.»
«E come?» intervenne il suocero di Paco, uno dei grandi scettici della vita.
«Lo sapevo e basta», insistette lui, «sapevo che ero sul punto di un grande evento ed essendo giovane e arrogante pensavo che si sarebbe trattato della fama.»
«Ma che cosa sapevi?»
«Non lo so», rispose Paco, agitando le mani, «era una sensazione, come se tutto si riunisse…»
«Convergesse», lo aiutò Javier.
«I toreri sono sempre stati molto superstiziosi», concluse il suocero.
«Sì, be', quando si rischia la vita… tutto assume un significato», cercò di spiegare Paco. «Le stelle, i pianeti… roba così.»
«Stelle e pianeti che si allineano su di
«Sto esagerando», si giustificò Paco, «forse era solo un sesto senso, forse è solo in retrospettiva che io attribuisco un significato importante a un fatto che ha rovinato la mia gioventù in una manciata di secondi.»
«Scusami, Paco», disse il suocero, «non volevo sminuire…»
«Ma era proprio per quello che ho voluto fare il torero. Amavo la purezza del pericolo, era come vivere una vita sempre a quel livello di consapevolezza. Solo che ho sbagliato a interpretare i segni. Nessuno avrebbe potuto predire quel disastro, durante tutta la
Su questo la riunione si sciolse; Manuela uscì con la sua compagnia, la famiglia di Paco, compresi i suoceri, si ritirò per la siesta e Javier e suo fratello rimasero seduti davanti a una bottiglia di cognac. Paco era quasi ubriaco.
«Forse eri troppo intelligente per fare il torero», suggerì Javier, tornando sull'argomento.
«Sono sempre andato malissimo a scuola.»
«Allora, forse,
«Non pensavo mai. Ho cominciato dopo, una volta sfracellata la gamba ho dovuto schiarirmi le idee. Dovevo buttare nella spazzatura tutti quegli articoli e quei filmati dei miei momenti di gloria che non erano mai esistiti e mai sarebbero esistiti in futuro. Mi avevano lasciato completamente svuotato. Avevo incubi tremendi e tutti pensavano che io rivivessi quell'istante terribile, ma, per quanto mi riguardava, era una cosa che apparteneva al passato. I miei incubi riguardavano il futuro.»
Paco si versò altro cognac e fece scivolare la bottiglia verso Javier, che scosse la testa. Paco gli passò il cilindro di un sigaro e Javier glielo rimandò indietro.
«Sempre controllato, eh?» commentò Paco.
«È questo che credi?» Mancò poco che Javier scoppiasse a ridere.
«Oh, sì, niente riesce mai a toccarti, a turbare la tua calma interiore. Non come me. Ero assolutamente sconvolto allora, la gamba in pezzi e nessun futuro. È stato papà a salvarmi, sai. Mi ha installato nella
«Be', era un soldato, sapeva capire gli uomini», disse Javier, consapevole di distorcere i fatti in favore di suo padre, a beneficio di Paco.
«Stai ancora leggendo quei diari?»
«Quasi tutte le notti.»
«Hanno cambiato in qualche modo l'idea che ti eri fatto di lui?»
«Be', è assolutamente sincero, sincero in modo terrificante. Lo ammiro per questo, ma le sue rivelazioni…» rispose Javier, scuotendo la testa.
«Del tempo della Legione?» domandò Paco. «Sono stati i più duri, i legionari, lo sai.»
«È stato coinvolto in qualche azione brutale durante la Guerra civile e in Russia, nella Seconda guerra mondiale. Parte della brutalità sperimentata in quegli anni era rimasta in lui anche a Tangeri.»
«Noi non l'abbiamo mai vista», obiettò Paco.
«In qualcuna delle sue operazioni commerciali è stato abbastanza duro e senza scrupoli», disse Javier. «Ha usato le stesse tecniche impiegate durante la guerra… il terrore. E ha smesso solo quando si è dedicato a tempo pieno alla pittura.»
«Credi che la pittura lo abbia aiutato?»
«Penso che abbia trasferito molta violenza nella sua pittura», spiegò Javier. «È famoso per i suoi nudi, ma moltissimi dei suoi lavori astratti sono impregnati di desolazione, di violenza, di tenebra, di decadenza, di depravazione.»
«Depravazione?»
«Leggere quei diari è come lavorare a un'indagine su un delitto. Lentamente, un passo dopo l'altro viene tutto a galla… la vita segreta. La società, e anche noi, vediamo solo ciò che è accettabile, ma io credo che nostro padre non si sia mai liberato della sua brutalità. Questa emergeva in altri modi. Lo sai come faceva lui, che vendeva i quadri e poi correva nello studio a dipingere lo stesso lavoro che aveva appena venduto. Io credo che quella fosse una forma di brutalità. Doveva sempre ridere per ultimo.»
«Lo fai apparire come una persona non esattamente amabile.»
«Amabile? Chi lo è oggigiorno? Siamo tutti complicati e difficili. Solo che papà ha affrontato delle difficoltà particolari in un periodo brutale.»
«Non spiega perché fosse entrato nella Legione?»
«È l'unica cosa di cui non parla. Vi fa riferimento solo alludendo a un certo 'incidente'. E, dato che parla quasi di tutto il resto, deve essere stato terribile. Una cosa che ha cambiato la sua vita e con la quale non è mai venuto a patti.»
«Era solo un ragazzo», disse Paco. «Che cosa diavolo può succederti a sedici anni?»
«Quanto basta.»
Il campanello della porta squillò.
«È Pepe», disse Javier.
Pepe Leal era alto e magro come un chiodo. Sulla soglia si teneva eretto, i piedi uniti, la testa alta, come se fosse costantemente in attesa di qualcosa. Aveva sempre un'espressione seria e indossava giacca e cravatta in tutte le occasioni. Non risultava che avesse mai portato i jeans. Sembrava un ragazzo appena uscito da una scuola privata e non un uomo in procinto di entrare nell'arena e affrontare un toro di cinquecento chili, per ucciderlo con grazia e contegno.
I due uomini si abbracciarono. Javier accompagnò Pepe in sala da pranzo, tenendogli un braccio intorno alle spalle. Lo abbracciò anche Paco. Sedettero a un'estremità della tavola e Javier rifletté che era sempre così con i toreri, sempre separati dalla gente comune, e non perché erano in una forma fisica perfetta, bevevano solo acqua e sedevano a qualche centimetro di distanza dalla tavola. La differenza stava nel fatto che il torero era un uomo che affrontava regolarmente la paura e la superava. Non perché avesse raggiunto uno stato di permanente assenza di paura. Era un essere umano; ogni volta che entrava nella
Javier lo aveva visto terreo e tremante nelle ore che precedevano la corrida, seduto nella sua camera d'albergo, senza pregare, perché non era religioso, senza mai cercare aiuto da qualcuno. Era solo un essere umano pietrificato dalla paura che non riusciva a controllare il proprio terrore. Poi cominciava a vestirsi e aveva inizio il processo. Mentre veniva avvolto lentamente nel suo
«Mi sembri in buona forma, Pepe», osservò Paco. «Come ti senti?»
«Come al solito», rispose il ragazzo in tono allegro. «E come stanno i tori?»
«Javier ti ha parlato del
Pepe fece segno di sì.
«Se lo batti, te lo prometto, non dovrai mai più stare con le mani in mano. Madrid, Siviglia e Barcellona saranno tue.»
Pepe annuì di nuovo, i nervi troppo scoperti per riuscire a parlare. Paco gli fece un resoconto sugli altri tori, poi, intuendo che Pepe voleva restare solo con Javier, si scusò e si ritirò per la siesta. Pepe si rilassò di circa due millimetri sulla sedia.
«Hai l'aria di lavorare troppo, Javier», disse Pepe.
«Sì, sto perdendo peso.»
«Verrai all'albergo prima della corrida?»
«Cercherò, è naturale, sono sicuro che le indagini potranno fare a meno di me per qualche ora.»
«Tu mi aiuti sempre», disse Pepe.
«Non hai più bisogno di me.»
«Sì, invece. Per me è importante.»
«E come va la paura?»
«Sempre uguale, in questo sono costante, il mio livello è fisso… ma più alto di quasi tutti gli altri.»
«Mi interesserebbe sapere come fai a controllarla», disse Javier, intravedendo all'improvviso un'opportunità.
«Come se dovessi affrontare un uomo armato.»
«Stavo pensando a una forma diversa di paura.»
«È sempre paura, sia che si téma di morire, sia che qualcuno ti faccia: 'Bù!'»
«Sei un esperto», rise Javier, abbracciandolo scherzosamente, incapace di contenere il suo affetto per il ragazzo. Forse non era quello un argomento di cui parlare, pensò, gli avrebbe solo infettato la mente con le sue idiozie.
«Dimmi che cosa ti preoccupa, Javier. Come hai detto tu, la paura è la mia specialità. Mi farebbe piacere aiutarti.»
«Hai ragione… si ha paura di cose esterne a noi… tu hai paura del toro, io dell'uomo armato, entrambe cose imprevedibili. Ma sono soltanto
«Ecco, è proprio così, sai quanto me della paura. Controllarla fa parte del tuo addestramento, della tua volontà di affrontarla come cosa inevitabile.»
«Inevitabile?»
«Tu ti sei impegnato con lo stato ad affrontare criminali pericolosi per conto dei cittadini di Siviglia, io sono impegnato per contratto a combattere contro un toro. Sono responsabilità inevitabili che non possiamo schivare, altrimenti non potremo lavorare mai più. L'inevitabilità è utile.»
«La tua paura del fallimento è maggiore della tua paura del toro.»
«Prova a pensare a tutti i soldati che hanno combattuto in guerra, con armi tra le più distruttive che l'uomo abbia mai conosciuto… quanti di loro si sono comportati da vigliacchi? Quanti sono scappati? Molto pochi.»
«Forse questo significa che abbiamo una capacità enorme di accettare il nostro fato?»
«Perché cercare di controllare l'incontrollabile? Potrei smettere anche domani di fare il torero, perché ho troppa paura di essere ferito e di morire, eppure attraverso tranquillamente strade affollate di macchine, guido sulle autostrade e viaggio su aerei nei quali potrei facilmente incontrare una fine ingloriosa.»
«E così è inevitabile. Che cosa mi dici della volontà di affrontare la paura?» domandò Javier. «A me questo sembra coraggio.»
«Lo è. Siamo coraggiosi. Dobbiamo esserlo. Non è mancanza di paura. È riconoscimento della paura, è ammissione di debolezza e volontà di superarla.»
«Parli spesso di queste cose?»
«Con qualcuno dei toreri più intelligenti. Nella nostra professione non sono molte le menti eccelse. Ma dobbiamo tutti affrontare questo problema, anche i più grandi tra noi. Che cosa ha detto Paquirri quando un intervistatore gli ha domandato quale fosse la cosa più difficile da fare quando si era davanti al toro? 'Sputare', ha risposto lui.
«La prima volta che ho dovuto affrontare un uomo armato un superiore mi ha detto: 'Ricorda, Falcón, il coraggio è sempre retrospettivo. Lo si ha solo dopo'.»
«Questo è vero», disse Pepe, «e perciò possiamo parlarne, Javier.»
«Ma ora io sono nella morsa di una paura diversa», continuò Falcón, «una paura che non avevo mai sperimentato. Vivo in uno stato di timore permanente e il peggio è che non ho davanti a me un uomo armato o un toro e non importa quanto io sia coraggioso, perché non ho niente di concreto da affrontare… se non me stesso.»
Pepe corrugò la fronte. Voleva essere di aiuto. Falcón scacciò il problema con un gesto.
«Non ha importanza», disse, «non avrei nemmeno dovuto parlartene. Mi chiedevo soltanto se esistesse qualche trucco del mestiere, se i toreri, che convivono con la paura, avessero un modo di autoingannarsi…»
«Mai», affermò Pepe. «Non bariamo mai con noi stessi su questo. È un lato ironico della nostra professione. Si ha
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
XXVIII
Alle otto e trenta Falcón era già in attesa di fronte al laboratorio del gioielliere. Il vecchio arrivò dieci minuti dopo e l'ispettore lo seguì in una stanza tappezzata di orologi da parete; appesi a ganci in vari scaffali c'erano anche centinaia di orologi da polso, mentre sul banco di lavoro erano disposti i meccanismi interni di molti altri.
«Lei non è un orefice?» domandò Falcón.
«Lo ero», rispose il vecchio. «Mi sono ritirato, credo che l'orologiaio sia un mestiere più adatto a un uomo della mia età. Quando si ha poco tempo davanti, è bene tenerlo d'occhio. Che cosa mi ha portato?» .»
«Vorrei che identificasse il tipo di argento con cui è stato realizzato un anello», domandò l'ispettore mentre esibiva il tesserino di riconoscimento.
L'anziano orologiaio sedette al banco, prese una lente e vuotò il sacchetto di plastica su un panno di velluto. Fissò la lente nell'orbita e osservò l'anello.
«È stato allargato», dichiarò quasi immediatamente, «hanno usato un tipo d'argento differente. L'originale è di quello che noi chiamiamo titolo 925 millesimi, l'altro è molto meno puro. Lo si capisce dalla colorazione più grigia; contiene probabilmente il 20 per cento di altri metalli invece del 7,5.»
«Dove si può trovare un argento così?»
«Non è di origine europea, nessuno lo vorrebbe qui. Se mi dicesse che l'ha trovato a Siviglia o in Andalusia, suggerirei che provenga dal Marocco. Là usano leghe simili e moltissimo di quell'argento arriva qui sotto forma di gioielleria da poco prezzo. Quando ci si sfila dal dito un anello così rimane un segno verdastro sulla pelle, a causa dell'alta percentuale di lega di rame nell'argento.»
«E l'anello originale?» domandò Falcón. «Qual è la sua origine?»
«Non sarei in grado di provarlo in tribunale, perché non è marchiato, ma, a parer mio, è spagnolo, degli anni '30. A quel tempo si usava regalare alle figlie un anello d'argento quando diventavano donne, un'usanza che non è durata; oggi non se ne vedono più di questi anelli.»
Alla Jefatura Falcón cercò subito Felipe e Jorge in laboratorio, per far analizzare la piccola quantità di sostanza, avvolta in un pezzetto di carta di giornale, prelevata dall'urna che aveva trovato in casa.
Ramírez e il resto della squadra erano in attesa nel suo ufficio, dove Ramírez stava distribuendo l'elenco degli artisti scelti tra quelli della galleria di Salgado, una lista di più di quaranta nominativi divisa in tre livelli di probabilità.
«I nomi sono molti», osservò Falcón.
«Non sono soltanto quelli dei clienti di Salgado e degli artisti che erano stati respinti. Greta ha messo insieme i nominativi di tutti quelli dell'area di Siviglia che usano film, video o alta tecnologia nelle loro opere. Ne sta preparando uno anche per Madrid.»
Ramírez gli porse sei fogli che Falcón posò sulla scrivania. Vide una lettera indirizzata a lui, ma la ignorò.
«Credo che dovreste lavorare in coppia su questo elenco», annunciò. «Il ricercato potrebbe essere pericoloso e forse si aspetta una nostra visita… se è sulla lista. Stiamo cercando un individuo di sesso maschile, alto circa un metro e ottanta, di circa settanta chili e di carnagione scura. Potrebbe avere sangue straniero, forse nordafricano. Conosce il francese e potrebbe aver studiato in quel paese a un certo punto della sua vita, anche se è spagnolo e parla perfettamente castigliano. In questo momento il segno particolare per identificarlo è la traccia di un morso sull'indice della mano destra e forse ha le nocche della sinistra graffiate o escoriate.»
Falcón mostrò il sacchetto contenente l'anello.
«Questo è stato trovato nel sifone del lavello in casa di Salgado. È un anello da donna che è stato allargato per adattarsi a un dito maschile. L'argento usato per allargarlo è di bassa lega, potrebbe essere di origine nordafricana. Questo non significa che dobbiamo cercare esclusivamente maschi nordafricani; è molto probabile che sia spagnolo da qualche generazione. Tenete la mente aperta su questo. Non voglio reclami per questioni di razza. L'Inspector Ramírez suddividerà l'elenco e vi affiderà gli incarichi.»
Ramírez portò gli uomini nell'altro ufficio e Falcón aprì la lettera: un appuntamento con il dottor David Rato alla Jefatura alle nove e trenta. Richiamò Ramírez e gli domandò chi fosse.
«È lo psicologo della polizia», rispose Ramírez.
«Vuole vedermi.»
«Probabilmente è solo un colloquio di routine.»
«Non ne ho mai fatti.»
«I funzionari in situazioni di alto livello di stress spesso sono chiamati a sottoporvisi. Io ne ho fatto uno tre anni fa, in seguito a una sparatoria nella quale uccisi un sospetto.»
«Io non ho sparato a nessuno.»
Ramírez si strinse nelle spalle. Falcón gli ricordò l'incontro con il Juez Calderón a mezzogiorno. L'ispettore uscì, portandosi dietro tutta la squadra. Falcón telefonò a Lobo, il quale era fuori sede per tutto il giorno, almeno così gli riferì la segretaria. Cominciò a sudare e si premette il fazzoletto sulla fronte, come su una ferita. Ho i rubinetti che perdono, accidenti a me, pensò. Anche i palmi si inumidirono. Andò in bagno, si lavò le mani e la faccia e prese un Orfidal.
L'ufficio dello psicologo si trovava in una sezione della Jefatura poco frequentata, al piano di sopra, e godeva di una vista diversa del parcheggio. Falcón venne fatto accomodare immediatamente e trovò il dottore che gli tendeva cordialmente la mano. Lo psicologo, un tipo sulla cinquantina, indossava un completo grigio scuro con il panciotto. Sulla scrivania aveva un unico foglio di carta.
«Non credo di essere mai stato dallo psicologo della polizia», dichiarò Falcón.
«E le due volte a Barcellona?»
Falcón fu assalito dal panico, trovandosi in pieno vuoto di memoria. Due volte a Barcellona?
«Lei ha svolto indagini sull'esplosione di un'autobomba nella quale è rimasta uccisa la figlia dodicenne di un uomo politico e anche su una sparatoria nello studio di un avvocato dove morì una madre di tre figli.»
«Sì, mi scusi, certamente. Intendevo dire da quando sono a Siviglia.»
Il medico lo visitò, un esame comprensivo del controllo del peso e della pressione, poi sedette di nuovo alla scrivania.
«Perché sono qui?» domandò Falcón.
«Lei si sta occupando di un caso molto difficile, delitti particolarmente orripilanti.»
«Ho visto di peggio», mentì Falcón.
«Tutti qui alla Jefatura pensano che sia il caso peggiore che lei abbia mai visto.»
«A Siviglia. Ero a Madrid prima di venire qui.»
«È cinque chili sotto il suo peso forma.»
«Casi come questo richiedono un grande dispendio di energia nervosa.»
«Nei due casi di Barcellona lei pesava settantanove chili. Ora ne pesa settantaquattro.»
«Non mangio molto regolarmente in questo periodo.»
«Vuol dire da quando si è separato da sua moglie?»
Mentre Falcón si rendeva conto di quanti fattori dovessero essere presi in considerazione, sotto di lui si spalancò un piccolo abisso.
«Ho una governante che mi prepara i pasti. Solo che non ho trovato il tempo per consumarli, tutto qui.»
«La pressione arteriosa è leggermente alta. Alla sua età è previsto un aumento rispetto ai valori di 120/70, ma lei è a 140/85, sono valori al limite. E ha gli occhi cerchiati. Dorme bene?»
«Dormo molto bene.»
«Sta prendendo qualche farmaco?»
«No», rispose Falcón disinvolto.
«Ha notato niente di diverso nelle sue funzioni corporali? Sudore, diarrea, diminuzione dell'appetito?»
«No.»
«E nelle funzioni mentali?»
«No.»
«Nessun pensiero ripetitivo, perdita di memoria, tendenza a un comportamento ossessivo… come lavarsi ripetutamente le mani?»
«No.»
«Nessun dolore articolare? Alle spalle, alle ginocchia?»
«No.»
«Può dirmi se qualcuno dentro o fuori della Jefatura possa avere motivo di preoccuparsi per il modo in cui lei si comporta di recente?»
Un'altra ondata di panico. La diarrea di cui aveva negato l'esistenza divenne all'improvviso una possibilità.
«No, non saprei.»
«Lo stress provoca effetti diversi sulle persone, ispettore capo, ma le caratteristiche fondamentali rimangono le stesse. Le forme lievi, provocate dal superlavoro unito ai problemi in famiglia, possono causare reazioni fisiche per indurci a fare una pausa. Non è insolita la comparsa di un dolore al ginocchio. Forme estreme di stress mettono in moto un meccanismo atavico, il riflesso del 'combattere o fuggire', l'esplosione di adrenalina che ci dà la forza di colpire l'aggressore o di scappare lontano. Non viviamo più nella foresta primordiale, ma la nostra giungla urbana può provocare la stessa reazione. La pressione combinata di un pesante carico di lavoro con altri fattori di stress, la morte di un genitore e il divorzio dalla moglie, può scatenare un flusso permanente di adrenalina. La pressione aumenta, il peso cala perché l'appetito viene a mancare, il cervello è in subbuglio, il sonno diventa difficile, il corpo reagisce come se la mente avesse incontrato qualcosa di cui aver paura. Sudorazione intensa, ansia, crisi di panico seguite da perdita di memoria e da pensieri ossessivi. Ispettore capo, lei presenta tutti i sintomi di un forte stress. Mi dica, quando è stata l'ultima volta che si è preso un pomeriggio libero?»
«Ne prendo uno oggi.»
«Quando è stata l'ultima volta?»
«Non ricordo.»
«Dal suo arrivo a Siviglia quasi tre anni fa si è concesso solo una vacanza di due settimane», soggiunse il dottor Rato. «Prima di quest'ultimo caso, qual era il suo carico di lavoro?»
Vuoto totale. Il panico gli invadeva il petto come etere.
«Glielo dirò io, ispettore capo», riprese Rato. «L'anno scorso lei ha investigato su quindici delitti, contro i trentaquattro dell'ultimo anno a Madrid.»
«Che cosa vuol dimostrare, dottore?»
«Forse lei si sta nascondendo nel lavoro?»
«Nascondendo?»
«Vi sono aspetti positivi anche nello spiacevole compito che lei deve svolgere. C'è la routine, c'è la struttura, ci sono i colleghi. E, se si vuole, il lavoro può non finire mai. Si potrebbe passare un anno solo occupandosi di scartoffie, immagino.»
«Giusto.»
«La vita reale è complicata, le relazioni non funzionano, gli amici vanno e vengono. E, alla sua età, la gente comincia a morire e noi dobbiamo affrontare lutti, cambiamenti e delusioni. Ciò nonostante esiste la possibilità di essere felici ma, per esserlo, occorre entrare in rapporto con qualcuno. Quando è stata l'ultima volta che ha fatto sesso?»
Un'altra domanda sconvolgente, alla quale Falcón per poco non saltò su dalla sedia e non si mise a passeggiare avanti e indietro nella stanza.
«Non intendevo essere offensivo», si scusò lo psicologo.
«No, certo che no, è solo che non mi sento rivolgere questa domanda da quando ero all'università.»
«Nessun amico glielo ha mai chiesto?»
Amici, pensò Falcón. Né amici, né amiche. Quasi si sentì salire le lacrime agli occhi al pensiero di non avere amici, sembrava impossibile che la vita fosse scivolata via così, senza che lui se ne accorgesse. Da quando non aveva più avuto un amico? Sbatté contro il muro della memoria finché non gli venne in mente che Calderón, per lui, avrebbe potuto essere una sorta di amico.
«Quando è stata l'ultima volta che ha avuto un rapporto sessuale?» domandò di nuovo il medico.
«Con mia moglie.»
«Quando vi siete separati?»
Vuoto.
«L'anno scorso», rispose Falcón, annaspando mentalmente.
«Quale mese?»
«Maggio.»
«Si è separato in luglio, e probabilmente questa è la ragione per cui non è andato in vacanza», disse il dottor Rato. «Quando ha fatto sesso con sua moglie l'ultima volta?»
Falcón fu costretto a eseguire un calcolo rozzo e spiacevole. Se ci siamo separati in luglio, pensò, e lei non mi ha permesso di toccarla per due mesi, allora doveva essere maggio.
«
«Un anno senza sesso, ispettore capo», gli fece notare il medico. «Com'è la sua libido?»
Libido, bella parola. Suona come una spiaggia privata. Ma sì, scendiamo nella libido.
«Ispettore capo?»
«Probabilmente non un gran che, come forse avrà già immaginato.»
Gli tornò alla mente l'immagine di Consuelo Jiménez, quella di lei inginocchiata sulla sedia con la gonna rialzata. Era libidine? Accavallò le gambe.
Il dottor Rato mise fine al colloquio.
«Tutto qui?» si stupì Falcón. «Non deve dirmi qualcosa?»
«Scriverò un rapporto. Non sta a me riferirle nulla, tocca ai suoi superiori. Non sono io il suo datore di lavoro.»
«Ma che cosa dirà ai miei superiori?»
«Questo non è argomento di discussione.»
«Mi dia almeno un'idea generale», insistette Falcón. «'Mettetelo in manicomio' oppure 'Ditegli di prendersi una vacanza'?»
«Non è una scelta multipla.»
«Ha intenzione di consigliare un controllo psicologico completo?»
«Il nostro è stato un colloquio iniziale a seguito di alcune preoccupazioni espresse all'esterno della struttura.»
Calderón, si disse Falcón. Quel fatto davanti a casa sua con Inés.
«Mi dica che cosa riferirà nel suo rapporto.»
«Il colloquio è terminato, ispettore capo.»
Grazie alla fortuna più che alla prontezza di riflessi, Falcón uscì intero dai recinti de La Maestranza dopo aver sistemato Biensolo nel suo
Andò a casa. Non era pronto per niente e per nessuno, la sua concentrazione fileggiava come una vela squarciata. La memoria gli filtrava pensieri e immagini disparate nel cervello. Si trascinò in camera e si buttò supino sul letto, scosso da un brivido a ogni singhiozzo che gli scuoteva le spalle. La tensione era troppa, troppa. Le lacrime gli scorsero sulle guance, bagnarono il cuscino, la cosa massiccia che cercava di salirgli in gola quasi lo soffocò. Poi dormì. Senza pillole. Sfinimento puro.
Lo svegliò il cellulare. Gli sembrava di avere due pietre bollenti al posto degli occhi, le palpebre spesse come cuoio. Paco gli disse che erano già al ristorante e stavano finendo tutte le sue
Durante la Feria de Abril, davanti all'hotel Colón c'era sempre molto movimento: i fattorini dell'albergo non si fermavano mai mentre manager, allenatori e membri delle squadre scendevano da automobili e pulmini. Nei caffè di fronte all'albergo indugiavano gli ammiratori, meno numerosi quel giorno data la mancanza di grossi nomi in cartellone: il torero più conosciuto era Pepín Liria, seguito da Vicente Bejarano e dallo sconosciuto Pepe Leal.
Falcón salì nella camera di Pepe. Uno dei suoi
Il torero era seduto su una sedia al centro della camera, la camicia sbottonata e fuori dai pantaloni. Era senza giacca, senza cravatta, non aveva né scarpe né calzini, a furia di stringersi la testa tra le mani aveva ridotto i capelli a una matassa arruffata, il sudore gli colava sulla fronte e sul petto. Era pallido, la sua paura messa a nudo.
«Non dovresti vedermi così», protestò.
Bevve un sorso d'acqua da un bicchiere posato sul pavimento e abbracciò Javier, scappando via subito per correre in bagno a vomitare.
«Mi hai sorpreso nella fase discendente», disse poi, «sono quasi arrivato in fondo alla mia paura, tra un momento comincerò a blaterare e tra mezz'ora sarò un'altra persona.»
Si abbracciarono di nuovo. Falcón avvertì l'odore acuto del vomito.
«Non preoccuparti per me, Javier», lo rassicurò Pepe. «Va tutto bene. Le cose stanno andando per il verso giusto, lo sento. Oggi sarà la mia grande giornata. La
Stava farfugliando. Si abbracciarono un'ultima volta, poi Falcón uscì.
Il bar e il ristorante dell'albergo erano affollati, il chiasso cacofonico. Riuscì a strizzarsi dentro il
Alle cinque si avviarono nel tepore delle strade verso La Maestranza, l'odore di sigari costosi e da poco prezzo mescolato a quello della colonia, della brillantina e del profumo da donna. Il sole era ancora alto e la brezza lievissima, condizioni quasi perfette. Ora toccava ai tori.
Il gruppo si divise. Paco e Javier si portarono ai loro posti privilegiati nella
I toreri avanzarono nell'arena con le loro squadre, tutti nei loro
Gli stalloni si ritirarono, seguiti dai muli che avrebbero trascinato i tori uccisi fuori dalla
La porta sul buio si spalancò. Silenzio. Un'unica voce gridò parole di incoraggiamento e il toro, mezza tonnellata di animale, si precipitò incontro al sole della
Una tromba annunciò i
I
Il nervosismo e il disinteresse per la muleta che il toro aveva mostrato all'inizio divennero più evidenti: Pepe occupò quasi mezza
Il primo toro di Pepín Liria si rifiutò di combattere. Dopo una decina di passi nell'arena, nella luce abbagliante e nel clamore, fece dietrofront. Trotterellò lungo le barriere, colpendole con le corna. Il solo momento interessante fu quando si gettò contro la muleta: un corno si piantò nel terreno e il toro eseguì una perfetta capriola ricadendo con tutto il suo peso nell'arena.
Il toro di Vicente Bejarano era forte, veloce, interessato alla muleta e piacque subito alla folla; ma non era la giornata di Bejarano, che non riuscì a stabilire nessun contatto con l'animale e, pur costruendo qualche bel momento scultoreo, non arrivò mai a controllare il suo avversario.
Alle 18.40 il sole brillava ancora sulla folla in attesa fremente sulle gradinate del
Dalla folla si levò un mormorio: gli spettatori erano incerti su quel toro, un animale che forse la sapeva troppo lunga. Pepe si avviò verso di lui e distese la muleta davanti a sé. Il toro non gradì l'intrusione e lo caricò, rapido, diretto, a testa bassa. Da quell'istante la folla fu sicura che quello sarebbe stato il toro del giorno e tutti compresero che avrebbero assistito a qualcosa di unico, se Pepe fosse riuscito a controllarlo.
«Quel toro toccava a Pepín», commentò l'uomo seduto accanto a Paco.
«Stia a vedere», affermò Javier, «alla fine si ritroverà a urlare come tutti noi.»
Pepe eseguì due
Paco abbracciò Javier passandogli un braccio intorno al collo e lo baciò sulla fronte.
«
Uno dei
Pepe avanzò per la
Biensolo, le fauci serrate, i muscoli del dorso contratti, una striscia rossa di sangue che gli correva lungo il fianco destro fino alla zampa anteriore, fissò Pepe. Il giovane dispiegò la muleta in tutta la sua estensione e s'incamminò, a ogni passo puntando verso il toro la punta del piede e tenendo la cappa dietro di sé. Biensolo aspettava paziente. A quattro metri dal toro, Pepe si girò di fianco, distese il braccio e lentamente gli mostrò la muleta, come se volesse dirgli: «Posso offrirtela?» Il toro si lanciò all'attacco, le corna abbassate, ma Pepe parve dominarlo, costringendolo a rallentare, e solo quando il muso toccò la muleta permise all'animale di spingersi avanti, attirandolo, dicendogli che era quello, sì, l'incedere reale. E fu una cosa bella da vedere, la graduale torsione del corpo di Pepe, cedevole e forte come ferro battuto incandescente.
Il torero condusse Biensolo avanti e indietro e a ogni passo la danza si faceva più bella, il rapporto tra l'uomo e l'animale più forte, il reciproco rispetto diveniva più profondo. Un processo così lento che la folla non si accorse che il contatto si era stabilito, che il patto era stato accettato, che il torero e il toro avrebbero continuato nella loro rappresentazione fino all'unico finale possibile.
In nessun punto della
Eseguì i
Il silenzio era così assoluto quando Pepe si allontanò per cambiare la spada dritta con quella curva, la lama per uccidere, che Javier credette di udire il rumore dei passi sulla sabbia della
Le corna si rialzarono. Il contatto tra l'uomo e il toro si ristabilì. La folla, sapendo che, se avesse ucciso bene il toro, Pepe avrebbe avuto tutto, orecchie, coda,
Il momento. Le due forze si scontrarono con un impeto da togliere il fiato.
Momento sbagliato. La testa di Pepe si rialzò, la spada incontrò l'osso e venne deviata, il corno destro del toro si infilò nella parte interna della coscia e, con uno scatto, Biensolo scaraventò in aria il torero, un movimento così rapido che nessuno si mosse mentre Pepe volteggiava nel vuoto, spinto dalla trionfale potenza del corno. Poi il corpo sottile ricadde, spezzato come quello della vittima di un torturatore, e il corno scomparve nel ventre dell'uomo. Il toro si avventò, a testa bassa, stimolato da un riflesso atavico ora che il patto tra loro era stato infranto, trafisse l'uomo, urtando le assi della barriera in uno schianto di schegge che parve risvegliare di colpo tutti gli astanti.
La squadra di Pepe si slanciò oltre il muro, l'immobilità abbandonò la folla e un urlo acuto si levò dalle donne. Javier si precipitò giù dalla gradinata, scavalcando le teste degli spettatori inorriditi, con un balzo raggiunse la barriera dove Pepe era inchiodato. Il toro infieriva sulla sua vittima con forza rinnovata e formidabile. Pepe stringeva il corno con entrambe le mani, come un generale che, resosi conto della disfatta totale, avesse deciso di suicidarsi. Sul volto solo la tristezza del rimpianto.
Gli uomini della squadra tentarono di distrarre il toro, delle mani si sporsero al di là della barriera per sorreggere Pepe, le cui gambe dilaniate, con un orribile squarcio rosso là dove l'arteria femorale pompava sangue spesso, scuro, vitale, venivano sbattute contro le assi di legno.
Il toro si tirò indietro, girandosi con ferocia verso le cappe che gli sventolavano intorno, e fissò a uno a uno gli assalitori come un imperatore vittorioso ma impopolare che dovesse sopportare i fastidi della politica del tempo di pace.
Pepe fu sollevato oltre la barriera, le braccia spalancate, la chiazza rossa sempre più grande sullo stomaco e per un momento, mentre veniva trasportato a rotta di collo verso l'infermeria, fu una visione dolorosa, simile a una Pietà.
Javier corse dietro gli uomini che sorreggevano Pepe e il ragazzo protese una mano verso di lui. La notizia si era diffusa rapidamente e i soccorritori non persero tempo in infermeria, ma lo trasportarono direttamente verso la barella che il personale paramedico caricò sull'ambulanza in attesa.
Pepe chiamò Javier, la voce poco più di un soffio.
Falcón scavalcò la schiena di un infermiere che stava già tamponando lo squarcio aperto nello stomaco di Pepe. L'ambulanza uscì a tutta velocità dalla
L'ambulanza percorse veloce Cristobal Colón, le sirene urlanti, si immerse nel sottopassaggio di plaza de Armas. Pepe si passò la lingua sulle labbra, la bocca asciutta come cartone per la catastrofica perdita di liquidi, la mano fredda come carne morta. Un paramedico tagliò la manica del
«Mi dispiace», sussurrò il giovane torero.
XXIX
Durante la notte aveva piovuto. Il nuovo giorno si presentò lavato e rinfrescato, il sole giocava con le stille di umidità sugli alberi gocciolanti e i primi fiori di jacaranda esplodevano purpurei. Di fronte a tale visione Falcón si fermò e abbassò il finestrino. In città gli capitava di rado di trovare nella natura un'espressione della complessità della condizione umana, ma il fogliame verde della jacaranda, così alto, fragile, le foglie simili a felci piumate sullo sfondo del cielo azzurro e limpido, i grappoli di fiori violacei sospesi nel mattino senza vento usavano la sua stessa lingua, potevano parlare a chiunque del dolore.
Accese la radio. Le notizie locali erano tutte su Pepe Leal. I media cercavano di costruire una storia sul fatto che proprio mentre stava per uccidere il toro Pepe avesse rialzato la testa. Un radiocronista stava parlando in modo inconcludente di quell'incomprensibile distrazione. Qualcuno della redazione accennò ai flash dei fotografi, alla folla che aveva cercato di catturare quel momento. Un altro sostenne di ricordare un lampo più accecante degli altri, ma il giornalista lo smentì con sarcasmo. Il mito era cominciato. Falcón spense la radio.
Arrivato alla Jefatura, trovò che gli uomini della squadra si erano già dispersi, tutti tranne Ramírez. Si strinsero la mano e l'ispettore lo abbracciò e gli fece le sue condoglianze, prima di riferirgli un messaggio: il Comisario León voleva vederlo subito. Salì in ascensore fino all'ultimo piano, contemplando il suo riflesso vago nei pannelli di acciaio inossidabile: era un uomo tenuto insieme da fili sottilissimi, non avrebbe opposto nessuna resistenza.
Dieci minuti dopo era di nuovo in ascensore. Il peso del comando gli era stato tolto dalle spalle, per compassione gli avevano concesso due settimane di congedo e al suo ritorno avrebbe dovuto sottoporsi a un controllo psicologico completo. Non aveva aperto bocca, era privo di difese. Nel suo ufficio mise in ordine la scrivania, trovando che non vi erano oggetti personali, solo qualche lettera che si infilò in tasca, e la rivoltella di ordinanza che avrebbe dovuto consegnare, ma che non restituì.
Alle sei del pomeriggio assistette al funerale di Pepe. Era presente tutta la comunità delle corride, con Paco in uno stato inconsolabile e incontrollabile, che singhiozzava rumorosamente, il viso nascosto tra le mani, le spalle scosse, gravate dal peso della tragedia. Piangevano tutti, i partecipanti al funerale, i lavoratori del cimitero, i fiorai, i passanti, i parenti in visita alle tombe, e il dolore era sincero; ma non era per Pepe Leal, uno sconosciuto o quasi per quella gente, dato che non era un grosso nome delle corride. Là, in piedi, soffrendo a occhi asciutti tra gente che piangeva e tirava su col naso, Javier capì la vera ragione di quel dolore: era il pianto per una perdita personale. Si piangevano la gioventù, le prospettive, la salute, il talento perduti. La morte di Pepe Leal aveva, perlomeno temporaneamente, messo la parola fine alla possibilità. Perciò Javier trovava di cattivo gusto piangere insieme a loro; e non aveva nemmeno intenzione di fermarsi dopo il funerale, sarebbe andato a casa, alla sua casa ferita e silenziosa e alla pietosa vacanza forzata.
Rimase seduto nel suo studio, ancora con l'impermeabile addosso, scarabocchiando su un foglio con una matita. Voleva andare via. Le corna di Biensolo avevano aperto uno squarcio nella Feria e Falcón voleva essere lontano di lì per sanguinare sulla morte di Pepe. Prese una carta della Spagna, posò la matita su Siviglia e per tre volte la fece ruotare. Ogni volta la punta si rivolse direttamente a sud e a sud di Siviglia non c'era niente, a parte Barbate, un piccolo villaggio di pescatori. Ma al di là di Barbate, al di là dello stretto, c'era Tangeri.
Squillò il telefono, ma Javier non rispose: non aveva intenzione di accettare altre condoglianze.
La mattina seguente preparò la borsa da viaggio, infilandovi anche i diari non ancora letti, trovò il passaporto e chiamò un taxi per la stazione dei pullman alle spalle del Palacio de Justicia. Cinque ore e mezzo più tardi, ad Algeciras, saliva a bordo del traghetto per Tangeri.
La traversata durò un'ora e mezzo, un intervallo di tempo che Falcón trascorse quasi completamente a osservare una versione marocchina di se stesso prendere i dati personali di un gruppetto di sei ragazzi immigrati illegalmente in Spagna e rimpatriati. Erano allegri, i turisti regalavano loro sigarette e gesti di incoraggiamento. Il poliziotto era fermo ma non scortese.
Tangeri gli comparve davanti attraverso la foschia senza far affiorare alcun ricordo. Il lungo inverno piovoso aveva rivestito la campagna circostante di un verde scuro, sontuoso, un colore che Falcón non aveva mai associato al Marocco. Trovò qualcosa di familiare nella cascata di case bianche e sgretolate all'interno delle mura della città vecchia, una cascata che scendeva dalla casbah sulla cima dell'altura fino alla Moschea Grande, in basso. Al di là delle mura la
Il tassista lo portò dalla banchina all'hotel Rembrandt e cercò di fargli pagare 150 dirham per la corsa. L'antipatica discussione finì in modo disonorevole: metà della somma richiesta cambiò di mano. Al banco della reception, ancora nel suo splendore di marmi anni '50, Falcón ritirò la chiave della camera 422 e salì, portandosi da solo il bagaglio.
L'albergo nel mezzo secolo trascorso aveva sofferto: mancava un pannello di vetro da una porta della camera, la vernice sugli infissi di metallo era scrostata, la mobilia aveva l'aria di essersi rifugiata lì per sfuggire a un marito violento; ma la vista della baia era magnifica e Falcón, seduto sul letto, rimase a contemplarla a bocca aperta mentre pensieri di sradicamento totale gli attraversavano la mente.
Uscì per mangiare qualcosa, sapendo che in quel paese si cenava presto, ma scoprì che il Marocco era indietro di due ore rispetto alla Spagna e alle sei del pomeriggio era già tutto chiuso. S'incamminò verso place de France e di lì, passando davanti all'hotel El Minzah, arrivò al Grand Soco ed entrò nella medina attraverso il mercato, che lo portò in una strada non lontana dalla cattedrale spagnola. Da quel punto cercò di ricordare la strada per arrivare alla vecchia casa di famiglia, una via che doveva aver percorso migliaia di volte con sua madre. Ma non ricordava nulla e ben presto si smarrì nel labirinto di vicoli finché, assolutamente per caso, si ritrovò davanti a un edificio che riconobbe.
Aprì la porta una domestica che parlava soltanto arabo. Scomparve. Si presentò poco dopo un uomo in un burnus bianco con babbucce di pelle ai piedi. Falcón si presentò, spiegò chi era e l'uomo rimase stupefatto. Era stato suo padre a comprare la casa, direttamente da Francisco Falcón. Javier fu accolto cordialmente e l'uomo, Mohammed Rachid, gli fece visitare l'abitazione, la cui struttura pareva esattamente com'era un tempo, con il fico al suo posto e la strana stanza dal soffitto alto con la finestra in cima.
Rachid invitò Falcón a cena. Davanti a una grande terrina di cuscus, Javier spiegò che sua madre era morta e si informò sulla possibilità che qualche vicino di quel tempo fosse ancora vivo. Venne mandato in giro un ragazzo con le istruzioni e dopo pochi minuti era già di ritorno con un invito per il caffè nella casa accanto.
«La cosa insolita è che si presentarono
Falcón non riuscì a controllare il tremito delle mani, nemmeno incrociando le dita con forza. Il sudore gli colava sulla faccia e la nausea lo assaliva ascoltando il racconto della tragedia, un racconto riferito a cuor leggero. Si alzò barcollando dai cuscini sul pavimento, rovesciò la tazzina del caffè che non aveva bevuto. Mohammed Rachid si alzò a sua volta per aiutarlo.
Arrivarono insieme fino al posteggio del taxi di Grand Soco e una Mercedes ammaccata lo riportò all'hotel Rembrandt. Una volta uscito da quella casa, nella medina, aveva ritrovato la calma, aveva controllato il panico. Era successo soltanto che il racconto espresso con bontà dal vecchio gli aveva riportato tutto quanto alla memoria. L'orrore di quella mattina. Sua madre morta nel letto e l'indecoroso tumulto all'esterno. Sì, rammentava… eppure vi erano ancora spazi vuoti e lui non aveva voluto che quell'uomo continuasse, perché… Non sapeva perché. Aveva soltanto voluto scappare via di lì il più in fretta possibile.
Tornato in albergo, si gettò sul letto nella stanza buia e guardò il mare al di là delle luci della città e del porto. Era in uno stato di assoluta desolazione, le membra scosse da brividi in uno spasmo di solitudine mentre tutto il dolore differito per la morte di Pepe affiorava alla superficie. Rannicchiato in posizione fetale cercò di tenersi stretto, contraendo i muscoli, perché temeva di andare in pezzi in modo irreparabile se non lo avesse fatto. Qualche ora dopo allentò la tensione e si spogliò, prese una pillola per dormire e perse i contatti col mondo.
La mattina era quasi completamente trascorsa quando riaprì gli occhi. Non c'era acqua calda. Sotto la doccia fredda si rese conto d'un tratto che stava piangendo, un fiume di lacrime che non riusciva ad arrestare. Le mani abbandonate lungo i fianchi, scosse miseramente la testa: il suo corpo era ormai sfuggito del tutto al controllo.
Camminò fino a place de France e si fermò al Café de Paris per un caffè. Da lì si recò al consolato spagnolo e, mostrando il tesserino della polizia, chiese se a Tangeri vi fosse ancora qualcuno vissuto lì verso la fine degli anni '50, inizio degli anni '60. Gli dissero di provare nel ristorante Romero e di chiedere di Mercedes.
Il ristorante era in un giardino incuneato fra due strade che conducevano a una rotonda. Aprì la porta un uomo anziano in giacca bianca e fez con evidenti problemi di respirazione e Javier lo seguì al tavolo. Un cane pechinese si mise ad abbaiare, facendolo sussultare con i suoi latrati penetranti.
Ordinò una bistecca e chiese di Mercedes Romero, e il vecchio indicò una donna anziana, ben pettinata, bionda, che stava facendo un solitario a un tavolino in fondo al ristorante vuoto. Falcón pregò il vecchio di darle un biglietto di presentazione che scrisse su un foglio del taccuino. Il vecchio si allontanò con passo incerto, posò il biglietto davanti a Mercedes, le riferì l'ordinazione e ricevette un po' di soldi per comprare la bistecca.
Mercedes, attraversato lentamente il locale, afferrò il pechinese per la collottola e gli accarezzò la pancia prima di buttarlo sotto un tavolo vuoto. Sedette di fronte a Javier e gli domandò se fosse il figlio di Francisco Falcón. Javier confermò.
«Io non l'ho mai conosciuto personalmente», disse la donna. «E nemmeno Pilar ho conosciuto, ma ero amica di Mercedes, la sua matrigna, signore, che aveva più o meno la mia età. Veniva spesso a pranzo nel ristorante che i miei avevano nel Grand Hôtel Villa de France. Eravamo molto unite e la sua morte per me è stato un dolore terribile.»
«Non l'ho mai definita matrigna», disse Falcón, «l'ho sempre chiamata la mia seconda madre. Anche noi eravamo molto uniti.»
«Sì, mi diceva sempre che la considerava un vero figlio. Quanto avrebbe voluto che seguisse le orme di suo padre! Sperava che lei potesse diventare un artista anche più grande di lui.»
«Avevo appena otto anni a quel tempo.»
«Allora quello non lo ricorda?», chiese la donna, accennando a qualcosa alle spalle di Javier.
In una semplice cornice nera sulla parete Falcón vide il disegno di una donna. Sotto si leggeva: «Mercedes».
«No, non lo ricordo.»
«L'ha disegnato lei nell'estate del 1963. Mercedes me lo aveva dato come regalo di Natale. Raffigura la sua seconda madre, naturalmente, non sono io quella. Le chiesi perché lo avesse dato a me e lei mi rispose in maniera stranissima: 'Perché con te sarà al sicuro'.»
A Falcón salirono le lacrime agli occhi, ma aveva rinunciato ormai a controllare le emozioni.
«È annegata», disse. «Rammento ancora la sera in cui è uscita per non tornare più. Il corpo non è mai stato ritrovato e credo che non rivederla abbia reso la perdita ancora più dura per me. Avevo visto mia madre nella bara…»
«Dov'è ora suo padre?»
«È morto due anni fa.»
«Forse ricorda qualcun altro di quel periodo… l'agente di suo padre, Ramón Salgado?»
Falcón annuì con forza e le raccontò che Salgado era stato appena assassinato e che lui era un investigatore della polizia. Le rivelò la ragione della sua presenza a Tangeri, mentre il vecchio ritornava malfermo sulle gambe con la bistecca e l'insalata, sulle quali alitò pesantemente mentre serviva.
«Se a quel tempo fosse stato un investigatore, forse avrebbe potuto indagare sulla morte di Mercedes con uno sguardo un po' più acuto di quello della polizia di qui.»
«Che intende dire, signora Romero?» domandò Falcón in tono sommesso.
«Non dovrei parlare male dei morti, ma Mercedes era mia amica e io ho sofferto molto per la sua perdita, specialmente così, in una disgrazia sul mare. Aveva trascorso moltissimo tempo sul mare, Mercedes. Suo marito, Milton, possedeva uno yacht, lei aveva attraversato più volte l'Atlantico, era un'esperta e possedeva quello che si dice un autentico 'piede marino'. Non commetteva errori. Dissero che quella sera il mare era ingrossato per via di una burrasca nello stretto, ma io posso assicurarle che non era nulla a paragone delle tempeste che Mercedes aveva affrontato nell'Atlantico. Dissero che era caduta fuori bordo, ma io per prima non l'ho mai creduto, come non ho creduto a quello che si diceva allora su come fosse stato sbadato suo padre a perdere due mogli. Quel genere di pettegolezzi mi disgustava. Ma sia suo padre sia Ramón Salgado avrebbero dovuto perlomeno essere obbligati a render conto delle loro azioni in un'inchiesta ufficiale.»
Falcón si alzò da tavola, la bistecca intatta nel piatto, e uscì dal ristorante. Non aveva nessuna intenzione di stare ad ascoltare discorsi del genere. Ecco che cosa voleva dire essere famosi, la gente godeva nel fare supposizioni a spese delle persone celebri. D'accordo. Ma lui non si sarebbe prestato a quel gioco. Tornò a piedi direttamente all'hotel Rembrandt, salì subito nella camera 422, si buttò sul letto, si mise il guanciale sulle orecchie e serrò le palpebre.
Si svegliò con il buio. Un forte temporale stava infuriando sullo stretto e sulla Spagna, i lampi saettavano per centinaia di chilometri illuminando le grandi nubi ammassate che ribollivano nel cielo notturno. Fuori piovigginava. Trovò un ristorante e ordinò stufato d'agnello, annaffiandolo con una bottiglia di Cabernet Président. Ritornò barcollante all'albergo e crollò sul letto, risvegliandosi in seguito in un bagno di sudore, completamente vestito. Si spogliò e tornò a letto. La pioggia investiva a raffiche i vetri della finestra.
Il venerdì mattina si annunciò tetro e bagnato. Falcón aveva un'altra ricerca da svolgere, vana come le altre probabilmente. Pagò il conto dell'albergo e prese un
Alle sette aveva già perso la sua guida nella medina e stava vagando senza scopo nei vicoli dietro carretti carichi di menta fresca quando, in una via stretta, si imbatté in uno spettacolo che lo lasciò totalmente paralizzato dal panico.
Un uomo con un carro di bidoni d'acciaio stava versando il latte nei recipienti ricavati da zucche dove le donne locali facevano lo yogurt. Il getto di liquido bianco gli provocò un attacco di nausea. La calma piatta e candida dei recipienti lo costrinse a voltarsi e a fuggire correndo finché si ritrovò fuori della medina.
Rinunciò a cercare qualcuno che potesse spiegargli «l'incidente» dei diari di suo padre. Trovò un albergo economico e bevve birra mangiando
Quella notte lo svegliò un incubo, un incubo terribile, per uscire dal quale dovette camminare avanti e indietro a lungo nella piccola stanza. Aveva sognato il nulla, un biancore terribile, un vuoto amorfo, divorante che non conteneva né ricordi, né passato, né presente, né futuro. Era la fine del tempo e pareva reclamare lui.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
XXX
Falcón si alzò presto per prendere un
Alle due del pomeriggio era di nuovo a Siviglia. Sulla segreteria trovò un messaggio del Comisario Lobo: questi, furioso, aveva consumato gran parte del nastro per dirgli come non fosse una coincidenza che il lacchè del Comisario León, Ramírez, avesse ufficialmente depennato Consuelo Jiménez dalla lista dei sospettati non appena aveva assunto il controllo delle indagini. A Javier non importava. Andò dritto nello studio di suo padre. La scatola dei gioielli era ancora aperta sul tavolo dove l'aveva lasciata. Afferrò l'anello di agata e lo strinse nel pugno, come se, imprimendovi la sua geometria, potesse far scattare il chiavistello della memoria. Camminò avanti e indietro, prendendo a calci una pila di riviste sotto il tavolo e facendola franare ai suoi piedi.
Una copertina era completamente nera, con un titolo inglese:
Suo padre era stato trascinato sino a tal punto? Ossessionato dalla perdita del suo genio, era stato spinto, avendo dipinto il sublime senza più riuscire a ritrovarlo, verso le immagini più orride… per fare che? Per ritrovare la grandezza, sconvolgendosi la mente? Per seppellirsi nella speranza filosofica che la bellezza potesse esistere solo se accompagnata dal suo contrario? Falcón sentì di doversi liberare prima possibile di quelle immagini agghiaccianti e mentre allontanava le riviste a calci si accorse che tutta la pila consisteva di pornografia, spinta all'eccesso, bestiale, depravata al di là di ogni immaginazione.
Sul tavolo, sopra la pila di riviste, il rotolo delle cinque tele che non aveva riconosciuto. Le stese di nuovo e le fissò sulla parete di lavoro, notando che la tela era vecchia ma la pittura era acrilica, un tipo di colore che suo padre aveva cominciato a usare soltanto verso la fine degli anni 70. Era anche certo che non fossero opera di suo padre e rimpianse che Salgado non fosse lì per parlargli di quei dipinti.
Poi ricordò l'autore di falsi, il mezzo zingaro che abitava da qualche parte nell'Alameda, quello che a lui non piaceva, l'uomo che, in mutande nere, si era grattato i genitali mentre parlava con suo padre. Come si chiamava? Era qualcosa di strano, non un vero nome. Gli tornò in mente qualche altro particolare del suo laboratorio: tutti i dipinti erano capovolti sui cavalletti, quell'uomo li copiava alla rovescia. El Zurdo, ecco come si chiamava. Il mancino. Per imitare le pennellate eseguite con la destra metteva i quadri a testa in giù. Falcón trovò un indirizzo nella vecchia rubrica di suo padre, alla zeta, ma non un numero di telefono.
Salì su un taxi davanti all'hotel Colón e si fece portare in calle Parras, non lontano dall'Alameda. Nessuna risposta dall'appartamento di El Zurdo, ma il vicino gli disse che era andato a pranzo nel suo solito locale, un bar in calle Escuderos che si chiamava La Cubista.
Sei uomini soli seduti ai tavoli mangiavano guardando la televisione. Non ne riconobbe nessuno.
«Mi chiedevo quanto tempo ci avresti messo», disse una voce mentre Falcón si avvicinava al bancone del bar.
Il tintinnio delle posate cessò, ma la telenovela sullo schermo continuava e l'uomo che aveva parlato, un tipo scuro di pelle, dai denti lunghi, si alzò, i capelli grigi appena visibili sotto un cappello nero sulla cui fascia erano appuntati distintivi e spille. Era vestito di nero da capo a piedi.
«Tu devi essere Javier Falcón», disse.
«Che cosa glielo fa pensare?»
«Perché sei entrato con un rotolo di tele sotto il braccio e con l'aria di un bambino sperduto.»
«El Zurdo?»
L'uomo gli indicò la sedia di fronte a lui.
«Hai già mangiato?»
«Si stava chiedendo quanto tempo…»
«… Javier Falcón avrebbe impiegato a venire da me», disse, voltandosi per guardare il menu sulla lavagna. «Allora,
«
El Zurdo gridò l'ordinazione e Falcón appoggiò il rotolo di tele al tavolo vicino. Il suo bicchiere fu riempito di vino rosso.
«Ci siamo visti soltanto una volta», disse Falcón.
«E tu non hai voluto darmi la mano.»
«L'aveva appena usata per grattarsi.»
El Zurdo scoppiò in una risata. Una donna posò un piatto di stufato d'agnello davanti all'ispettore capo.
«Che cos'hai là?» domandò El Zurdo accennando alle tele.
«Cinque dipinti. Non li riconosco, non sono di mio padre. Volevo sapere se fossero copie fatte da lei.»
El Zurdo scostò il piatto vuoto e prese uno stuzzicadenti da un vasetto sul tavolo. Falcón cominciò a mangiare.
«Perché ti interessano questi dipinti? Sei un poliziotto, no? Me l'ha detto tuo padre.»
«Non sono in servizio, se è questo che pensa», rispose Falcón. «Sono in permesso.»
«Vuoi venderli?»
«Voglio sapere che cosa sono prima di bruciarli.»
El Zurdo si accese una sigaretta, si alzò, avvicinò i due tavoli e srotolò le tele, osservandole l'una dopo l'altra con aria sicura.
«Sono tutte mie», disse alla fine, «sono copie che avevo fatto per tuo padre, ma non sono lavori suoi. Mi aveva chiesto il favore di copiarli per un pittore svizzero che li aveva appena venduti alla galleria di Salgado e voleva evitare di pagare le tasse. Naturalmente lo svizzero avrebbe portato con sé le copie da mostrare alla dogana per far vedere che non aveva venduto nulla. Perciò non capisco come mai siano ancora nello studio di tuo padre.»
«Le tele su cui dipingere gliele aveva date mio padre?»
«Sì. Erano vecchie tele e c'era su qualcosa che tuo padre aveva coperto con uno strato di pittura.»
«Qualcosa di suo?»
«Non glielo domandai.»
El Zurdo continuò a fumare mentre Falcón mangiava.
«Vuoi sapere che cosa c'è sotto la pittura?» domandò El Zurdo.
«Credo di sì.»
«Non mi sembri tanto sicuro.»
«Si crede di voler sapere finché non si scopre di cosa si tratta.»
Presero un taxi che li portò a calle Laraña e alla Facultad de Bellas Artes, attraversarono il patio interno e salirono al piano superiore dove, per quindicimila pesetas, un amico di El Zurdo mise le tele in una macchina speciale e consegnò loro cinque immagini stampate delle opere originali che stavano sotto l'ultimo strato di pittura. Il risultato era incomprensibile, un nulla fatto di tratteggi incrociati, di bande nere su fondo bianco, qua e là un particolare riconoscibile, come un occhio, una gamba, uno zoccolo, la coda di un animale.
El Zurdo non riuscì a capirci nulla. Si salutarono ai piedi della gradinata, e lo zingaro disse che avrebbe sempre potuto trovarlo a La Cubista all'ora di pranzo. Javier tornò a casa a piedi. Buttò su un tavolo le tele e le stampe, telefonò ad Alicia e si accordò per vederla quella sera.
«Mi hanno sollevato dall'incarico», dichiarò mentre la terapeuta gli prendeva il polso, «e tra dieci giorni dovrò sottopormi a un esame psicologico completo.»
«Non ne sono sorpresa», soggiunse Alicia, «probabilmente il suo comportamento stava diventando piuttosto strano.»
«È stato per via di quel fatto con Inés e il Juez de Instrucción, lei ha pensato che la stessi pedinando, ma io l'ho incontrata per caso, come a volte succede nei miei pensieri.»
«Mi ha già detto tutto questo.»
«Davvero? Ah, sì, per un pazzo pochi giorni diventano eoni. Io non faccio che rivivere la mia vita, ma continuo a sbattere contro un vuoto di memoria, ci sbatto più e più volte e alla fine sono esausto e ricomincio di nuovo fino a quando mi ritrovo davanti alla stessa porta chiusa. È sfibrante e fa sembrare storia antica il tempo tra le esperienze reali della vita quotidiana. Le ho detto che sono stato a Tangeri?»
«Non ancora. Perché ha deciso di andare a Tangeri?»
«Mi hanno dato un permesso per gravi motivi familiari.»
Le parlò della morte di Pepe Leal.
«Che cosa sperava di trovare a Tangeri… quarant'anni dopo?»
«Risposte. Nel Terzo mondo la vita non si muove con gli stessi ritmi di qui. Ho creduto di poter trovare qualche persona che ricordasse cose che io avevo dimenticato e che avrebbero rimesso in moto la mia memoria.»
«Ma perché Tangeri? Aveva perduto il suo lavoro a causa di Inés, perché non risolvere questo problema? Che cosa l'ha spinta laggiù?»
«Sono stato trascinato, non è stata una decisione conscia, sono andato dove mi ha condotto la sorte. Mi sono messo nelle mani di altri… e sono finito davanti alla nostra vecchia casa nella medina.»
«Nessuna decisione conscia?»
«Nessuna.»
«Mi ricordi quando esattamente si è manifestata questa sua specie di follia.»
«Ho avvertito il cambiamento in me quando ho visto la faccia della prima vittima.»
«E qual è stata la prima cosa, al di fuori delle sue indagini, che le ha fatto pensare che il cambiamento non fosse dovuto, per esempio, al trauma di uno spettacolo orripilante?»
Un lungo silenzio.
«Sono andato in centro per prendere la rubrica della vittima e mi sono imbattuto in una processione della Semana Santa. Non so perché, ma vedere la Madonna… per poco non sono svenuto. È stata un'esperienza sconvolgente.»
«Lei è credente?»
«Niente affatto.»
«E dopo di quello?»
«Ho visto mio padre in una delle foto della vittima e ho appreso che aveva avuto una relazione prima della morte di mia madre.»
«Ma nella
«Trovare i diari con la sua lettera… ha messo in moto qualcosa. Ha smosso qualcosa, intendo dire, una specie di… tenebra. Quella notte mi sono comportato in modo molto strano, ho creduto che potesse esservi qualcosa di perverso in me. Non avevo mai visto quel lato della mia natura, mi sono sempre comportato inflessibilmente bene. Deciso a comportarmi bene.»
«Lo fa perché ha paura?»
«Sì.»
«Di che cosa?»
«C'è stato dell'altro quella notte», rispose Falcón. «Stavo cercando di trovare la prostituta che era stata con la vittima la sera della sua morte. Era sparita. In quell'occasione l'assassino si è messo in contatto con me per la prima volta. Mi ha chiesto: 'Siamo vicini?' e poi ha aggiunto: 'Più vicini di quanto pensi', come se sapesse qualcosa di me, e ora so che era vero.»
«Che cosa crede che sapesse di lei?»
«Credevo volesse dire che eravamo vicini fisicamente, che mi avesse seguito, ma più tardi pensai che forse avesse voluto dire che non eravamo molto diversi, lui e io», disse Falcón, impuntandosi sulle parole. «Sapevo che aveva ucciso la ragazza e mi sentivo in colpa.»
«In colpa?»
«Sospettavamo che ci fosse un legame tra l'assassino e la ragazza, ma non abbiamo dato seguito alla cosa. Avremmo dovuto insistere. Abbiamo sbagliato…»
«Lei non ha
«Mi sento ugualmente colpevole.»
«Ma colpevole di che cosa?»
Lungo silenzio.
«Quella sera mi sono imbattuto in un'altra processione. E, sa, era… così bella… la Madonna. È ridicolo che un manichino vestito possa essere tanto… commovente», sospirò. «Non sono riuscito a sopportarlo, non sono riuscito a sopportare tutto ciò che rappresentava e ho dovuto fuggire, ho dovuto allontanarmi da lei.»
«E questo aveva a che fare con il suo senso di colpa nei riguardi della ragazza?»
«Sì. Con il mio fallimento.»
«Lei sa chi è la Madonna?»
«Sì.»
«Sa che cosa incarna?»
Falcón annuì.
«Lo dica», insistette Alicia.
«È la madre assoluta.»
«La madre assoluta», ripeté Alicia. «Mi dica perché è andato a Tangeri.»
«Volevo sapere come… volevo sapere che cosa fosse successo quando morì mia madre.»
«Lo ha scoperto?»
«Non proprio. Ho saputo che cosa era successo sulla strada, davanti a casa, un ricordo confuso che mi aveva sempre turbato. Era soltanto la donna del Rif, la cameriera di mia madre che aveva fatto una scena, una cosa abbastanza normale per le donne arabe. Probabilmente anche lei sa che…»
«Non crede a quello che sta dicendo, non è vero, Javier? Lei considera questo importante.»
«Non mi pare.»
Alicia emise un lento sospiro. Di nuovo l'impenetrabile muro.
«Che cos'altro ha trovato a Tangeri?»
«Un pettegolezzo assurdo sul modo in cui era morta la mia seconda madre.»
«La sua seconda madre?»
«Non lo ritengo credibile al punto da poter essere riferito.»
«E che altro?» domandò Alicia, reagendo bruscamente a quella resistenza a confidarsi.
«Ho un'inesplicabile paura del latte», rispose Falcón; e le raccontò dell'episodio nella medina di Tetuán e del sogno conseguente.
«Che cosa significa il latte per lei?»
«Niente.»
«E questo ha sognato, niente?»
«Volevo dire che non ha altro significato se non che ho sempre detestato il latte e i suoi derivati… proprio come mio padre.»
«E che cosa producono le madri per nutrire i loro bambini?»
«Devo andare», esclamò Falcón, «l'ora è già finita, lei avrebbe dovuto essere più rigorosa con me sul tempo.»
Si diressero alla porta e Falcón cominciò a scendere le scale senza voltarsi a guardarla e senza accendere la luce.
«Tornerà, non è vero, Javier?» gli gridò dietro Alicia.
Nessuna risposta.
Una volta a casa, si chiuse nello studio a sfogliare le immagini dei quadri stampate in bianco e nero, con il senso di colpa e di fallimento che gli scuoteva l'anima. Fissò le stampe alla parete e le guardò arretrando di qualche passo. Erano del tutto prive di senso. Provò a cambiare l'ordine in cui le aveva disposte, pensando che quello fosse il problema, ma ben presto si rese conto che le possibilità di disposizione erano migliaia.
Il vento soffiava nel patio, scuotendo la porta. Falcón uscì e, seduto sul bordo della fontana, batté il piede sulle lastre di marmo del pavimento, e quelle forme rettangolari gli ricordarono il diagramma caduto dal rotolo di tele.
Strappò dalla parete le stampe e salì di corsa nello studio del padre: il diagramma era ancora sul pavimento del ripostiglio, tra le scatole. Cinque rettangoli che si intersecavano, ognuno numerato. Si precipitò di nuovo al piano sottostante, posseduto dall'idea che la chiave del mistero fosse lì. Ma quale mistero? Nel patio rallentò il passo fino a fermarsi.
Le certezze. L'idea del crollo delle certezze gli rovinò addosso come in una serie di immagini da colossal biblico: statue rovesciate, chiavi di volta crollate, archi ripiegati su se stessi, colonne spezzate in giganteschi frammenti scannellati. L'immagine che aveva di suo padre non era già più quella di un tempo, si era cambiata in quella del legionario violento, del veterano di Leningrado traumatizzato dalle esplosioni, del contrabbandiere capace di uccidere e infine dell'artista tormentato. E tuttavia ognuno di questi aspetti poteva essere spiegato. Colpevole non era la natura dell'uomo, la colpa era del secolo più feroce della storia, della cruenta e crudele Guerra civile, della catastrofica Seconda guerra mondiale, della brutalità rimasta nella gente che, alla fine, si era trasformata nell'edonismo della Tangeri del dopoguerra; sarebbe sempre stato possibile puntare il dito contro le influenze esterne che avevano avuto un effetto devastante su Francisco Falcón nel suo stato di fragilità. Ma forse questo era diverso, forse questo gli avrebbe rivelato qualcosa di profondamente personale, una terribile debolezza che avrebbe portato allo scoperto il mostro nascosto. Ed era questo che voleva?
In che modo, durante il loro primo incontro, Consuelo Jiménez aveva definito lui e Inés? Aveva detto che la loro era stata un'unione tra cercatori della verità. La ragione unica per cui si era imbarcato in quel viaggio terribile era stata la smania irresistibile di scoprire la verità. E, arrivato fin lì, si sarebbe forse ritirato, per finire nel solo luogo in cui portava la
Portò il rotolo di tele nello studio e le dispose ognuna accanto alla stampa corrispondente, ma non riuscì a trovare nessun ordine di numerazione; sul retro delle tele non era stato scritto nulla se non le lettere I e D. All'improvviso si sentì stanco e provò un desiderio terribile di stendersi sul letto. Poi, sul margine di una stampa, vide alcuni segni d'inchiostro e si rese conto che suo padre aveva numerato i dipinti sulla parte frontale, oltre il punto in cui la tela si tendeva sul telaio. Riuscì a ricostruire i numeri e a metterli nell'ordine giusto, procedendo per eliminazione. Poi comprese che la I e la D stavano per
Era l'ultima occasione che aveva per abbandonare tutto e andarsene.
Si girò, le palpebre serrate.
Poi aprì gli occhi e vide ciò che aveva fatto suo padre.
XXXI
Falcón attaccò alla parete i fogli stampati mentre El Zurdo era occupato ad arrotolarsi e accendersi uno spinello. Proprio mentre aspirava il primo tiro, Javier gli batté una mano sulla spalla. El Zurdo si girò.
«
«Quella?» sibilò Falcón. «
«
«Non è un lavoro notevole», disse Falcón, «è un lavoro schifoso.»
«Ehi! Io non sono coinvolto come te», ribatté El Zurdo, «io lo guardo…»
«Come un'opera d'arte?» domandò Javier incredulo.
«Tecnicamente. Voglio dire, è straordinario creare cinque pezzi a incastro, privi di significato e apparentemente senza un collegamento… non avevo nemmeno notato le linee di giuntura del puzzle, eppure, una volta messi insieme i pezzi…»
«Diventano l'espressione più abietta dell'odio di un uomo verso la moglie e la madre dei suoi figli, quale solo la mente di un mostro potrebbe produrre», affermò Javier.
I due uomini rimasero in silenzio mentre l'orrore di quell'opera riempiva la stanza. L'immagine ricostruita aveva rivelato una donna avvinghiata a due satiri che la stavano devastando, l'uno assalendola da dietro e l'altro riempiendole la bocca. Ma non era uno stupro. Nell'unico occhio visibile della donna si leggeva la partecipazione compiaciuta. Era nauseante. Javier passò davanti a El Zurdo, strappò i fogli dalla parete, li appallottolò e li scaraventò in un angolo vuoto del laboratorio.
«Che cosa mai può averlo indotto a creare una…?»
«Fatti un tiro di questo», suggerì El Zurdo.
«Non lo voglio.»
«Ti calmerà.»
«Non voglio calmarmi.»
«Senti… forse aveva scoperto che lei aveva una relazione con un altro.»
«Oh», esclamò Javier, «mentre lui era assolutamente innocente, vero? Lui non se ne andava in giro a sodomizzare ragazzini ogni volta che poteva…»
«Per le donne era diverso, a quei tempi», disse El Zurdo.
«E invece lui non era andato a uomini durante la notte
«Odiava le donne», affermò El Zurdo con aria sicura.
«Come? Non ho capito… che cosa?»
«Ho detto che odiava le donne.»
«Ma di che sta parlando, El Zurdo?»
«Di quello che ho detto… e non intendo quei genere di misoginia allora assolutamente normale, era un sentimento che si spingeva ben al di là di tutto ciò.»
«Si è sposato due volte, ha dipinto quattro nudi femminili tra i più sublimi che si siano mai visti e
«Io non
«Glielo ha detto
«Da quando eravamo diventati amanti.»
Si creò un lungo silenzio durante il quale Javier si lasciò cadere su una poltrona malandata, accasciato, consapevole di essere lì a bocca aperta, le guance afflosciate, le braccia assolutamente prive di forza.
«Quando?» domandò alla fine a voce bassa.
«Dal 1972 per undici o dodici anni, finché non cominciò ad avere paura dell'AIDS.»
«Allora… quella volta che venni qui con lui…?»
El Zurdo annuì. Trascorsero altri minuti penosi.
«E non trova che non esista ironia più grande?» domandò Javier.
«Perché ha dipinto quei nudi? Quello era solo il suo lavoro… non voleva dire che fosse anche la sua vita.»
«Da dove scaturiva… quell'odio?» domandò Javier. «Non riesco a capire cosa abbia potuto generarlo.»
«Da sua madre.»
Il cervello di Javier cominciò a scandire il tempo come un metronomo che contasse i secondi che mancavano alla follia.
«Nei suoi diari accenna a un 'incidente'», disse. «Una cosa accaduta quand'era ragazzo e che lo aveva indotto ad andarsene di casa e a entrare nella Legione. Credo che possa averne parlato con qualcuno, con mia madre, per esempio, ma non l'ha mai scritto. A lei lo ha detto?»
«Sì, me lo ha rivelato», rispose El Zurdo. «Te ne parlerò, se vuoi. Voglio dire… certe cose, più si allontanano nel tempo, meno sembrano importanti. Solo che decidono quale direzione prenderà la nostra vita in quel momento.»
«Me lo dica.»
«Che cosa sai dei genitori di Francisco?»
«Praticamente nulla.»
«Be', avevano un albergo a Tetuán negli anni '20 e '30. Erano molto conservatori, sua madre era cattolica praticante e suo padre beveva. Quando succedeva diventava cattivo e si sfogava sui figli e sugli impiegati. Non ti serve altro per capire che cosa sia successo.
«Una mattina suo padre scoprì Francisco a letto con uno dei ragazzi della casa e perse completamente la testa. Mentre Francisco si rannicchiava in un angolo della stanza, suo padre ammazzò il ragazzo a randellate sotto i suoi occhi. Soltanto quando quella furia tremenda si fu placata l'uomo si rese conto del suo gesto. In qualche modo si liberarono del cadavere e Francisco dovette rimanere nella stanza finché non ebbe lavato ogni goccia di sangue e imbiancato le pareti.»
El Zurdo si distese sulla sedia, allargando le braccia.
«E che cosa c'entra sua madre?» si stupì Falcón. «Aveva detto che…»
«Sua madre non gli rivolse più la parola, gli fece mancare completamente l'affetto materno e si comportò come se il figlio non esistesse. Per lui non veniva nemmeno apparecchiato il posto a tavola. Per quanto la riguardava, con le sue idee meschine e bigotte, il figlio aveva commesso qualcosa che non poteva essere perdonato.»
«Glielo ha detto lui questo?»
«Molto tempo fa. Più di vent'anni, direi.»
«Quando eravate amanti?»
«Sì. Passò molto tempo prima che tornasse agli uomini dopo una cosa come quella. Soltanto a Tangeri, dopo la Seconda guerra mondiale, ricominciò a… anche se aveva avuto una passione per un altro legionario morto in Russia, Pablito… ma non era nato nulla tra loro e, naturalmente, fu una donna a tradire Pablito…»
«Parla di lui nei diari. Mio padre faceva parte del plotone di esecuzione che fucilò la donna», disse Falcón. «Aveva mirato di proposito alla bocca.»
«Sai perché la nostra relazione è durata così a lungo?» disse El Zurdo. «Perché non ho mai tentato di capirlo, non gli ho mai chiesto niente. Certe persone rifuggono dall'intimità e tuo padre era una di queste. Le donne vogliono capire, vogliono conoscere il loro uomo e, quando scoprono chi è e non ne sono contente, fanno una di queste due cose: cercano di cambiarlo oppure lo abbandonano. Sono parole di tuo padre, non mie. Io non sono mai stato con una donna, i miei gusti sono più particolari.»
Andarono a La Cubista per colazione. Javier ordinò tonno, El Zurdo scelse un piatto a base di carne di maiale e bevve vino durante il silenzio tormentato di Javier, incoraggiandolo a fare lo stesso fino all'arrivo delle portate.
«Sai per quale altro motivo io piacevo a tuo padre?» disse El Zurdo. «Questa è una cosa strana. Gli piacevo perché copiavo. Curioso, no? Ammirava il mio lavoro, gli piaceva il fatto che capovolgessi le tele, lo interpretava come una mancanza di rispetto per gli originali, anche se gli avevo detto che lo facevo solo perché non volevo essere distratto dalla completezza dell'opera, non dovendo fare altro che cercare di copiarla con la massima precisione. Sai, qualche volta pensava che le mie copie fossero, in effetti, migliori degli originali. Perciò due collezionisti americani hanno sulle pareti le mie copie firmate da lui. L'arte, mi diceva, era così. Niente è originale.»
Falcón sorseggiò il vino, prese coltello e forchetta e cominciò a mangiare.
«Quando lo ha visto l'ultima volta?» domandò poi.
«Circa cinque anni fa. Abbiamo pranzato qui, era contento, aveva risolto il suo problema di solitudine.»
«Si sentiva solo?»
«Tutto il giorno, ogni giorno. L'uomo famoso nella sua grande casa buia.»
«Aveva amici, no?»
«Mi aveva detto che non ne aveva. L'unico amico lo aveva perso nel 1975.»
«Chi era?»
«Raúl Jiménez… ho sentito che è stato assassinato di recente», rispose El Zurdo.
«E perché avevano smesso di vedersi?»
«È interessante. Io non riuscivo a capire perché mai fosse tanto furioso con lui. Mi disse che si era imbattuto in Raúl un giorno qui a Siviglia. A quanto pare vivevano nella stessa città, sulle due rive del fiume, ma non lo avevano mai saputo. Erano andati a pranzo insieme e tuo padre gli aveva chiesto notizie della famiglia e lui gli aveva detto che stavano tutti bene. Avevano parlato della fama di tuo padre e del successo del suo amico negli affari, insomma di tutte le cazzate di cui possono parlare due vecchi amici, se non che tuo padre non gli aveva chiesto come mai non avesse cercato di mettersi in contatto con lui. Voglio dire, data la celebrità di tuo padre, Raúl doveva aver saputo che viveva a Siviglia da più di dieci anni. Ma questo si spiega con quanto era successo. Alla fine del pranzo Raúl gli aveva detto una cosa del tutto inaspettata, che non aveva niente a che fare con la loro conversazione. Forse avrai letto nei diari che tuo padre aveva lasciato la Legione ed era venuto qui per fare il pittore. Aveva del denaro da parte, i risparmi della sua paga di combattente in Russia.»
«E qualcuno glieli aveva rubati», disse Falcón. «Per questa ragione mio padre finì per andare a Tangeri.»
«Giusto», confermò El Zurdo. «E proprio questo gli disse Raúl quel giorno alla fine del pranzo. Gli disse che era stato
«Perché?»
«Tuo padre riteneva che Raúl Jiménez non avesse il diritto di modificare il corso della vita del prossimo. Ricordo la mia obiezione: se era per il meglio, che importava? Lui aveva fatto fortuna laggiù, era diventato famoso… ma non voleva ascoltarmi, girava infuriato per tutta la casa gridando: 'Mi ha rovinato! Quel
«Era anche infuriato perché Raúl glielo aveva
«Prima ha detto che mio padre aveva risolto il suo problema di solitudine.»
«Mi aveva assicurato che non desiderava avere amici, ma anelava a una compagnia.»
«E Manuela?» domandò Javier. «Manuela non andava a trovarlo?»
«Sì, ma non gli era mai piaciuta molto, Manuela. Lei veniva a trovarlo qualche ora la settimana, ma non era questo che tuo padre voleva. Aveva bisogno di avere qualcuno che riempisse il vuoto della sua casa, qualcuno giovane e senza complicazioni, che guardasse avanti, che fosse sempre inesorabilmente allegro. E aveva fatto un accordo con l'università qui e a Madrid, per avere uno studente in casa per un mese alla volta. Per lui aveva funzionato. Io non lo avrei sopportato.»
«Non mi ha mai detto che si sentiva così solo.»
«Forse con te non voleva ammetterlo», disse El Zurdo. «Forse non voleva modificare il corso della
Era quasi buio quando Javier tornò a casa compiendo una lunga deviazione. Entrando, inciampò in due pacchetti sul pavimento; entrambi erano stati spinti dentro l'apertura dove il postino infilava le lettere e nessuno dei due aveva l'indirizzo, ma solo i numeri 1 e 2 scritti sull'involucro.
Li portò nel suo studio, dove teneva un paio di guanti di lattice, aprì il primo pacchetto e tirò fuori una busta sulla quale era scritto: «Lezione di vista n. 4». All'interno il cartoncino recava le parole: «
Nel pacchetto c'era qualcosa d'altro, qualcosa di più pesante. Falcón distese un foglio di carta sulla scrivania e vi depose ciò che, a prima vista, gli era sembrato un pezzo di vetro ma che risultò essere la scheggia di uno specchio. La girò con la punta di una biro. Scritte con una sostanza che pareva sangue disseccato si leggevano le iniziali P.L.
Falcón si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Sapeva che cosa stava facendo Sergio. Sergio si stava impossessando del mito elaborato dai media, dicendogli che aveva usato la scheggia di specchio per distrarre Pepe nel momento in cui stava per uccidere il toro. Javier non lo credeva, non era possibile; ma la cosa lo interessava, perché aveva capito che finalmente aveva forzato la mano a Sergio. C'era disperazione in quello stratagemma arrogante e poco sottile.
Batté il dito sul cartoncino dove era scritta la lezione di vista. L'allusione al genio gli ricordò le parole che sua madre aveva usato quando Manuela le aveva chiesto che cosa contenesse l'urna di argilla. Tracce di ricordi premettero contro la membrana della sua coscienza, ma nulla filtrò. Spinse via il cartoncino e aprì il secondo pacchetto, che conteneva una serie di fotocopie. Dalla grafia capì che si trattava dei diari di suo padre.
Falcón lasciò che i fogli fotocopiati gli cadessero dal grembo e si sparpagliassero sul pavimento. Era ipnotizzato dai suoi pensieri, dalla conferma del fatto che l'assassino avesse avuto accesso ai diari di suo padre; e ora, con le informazioni avute da El Zurdo, Falcón sapeva che doveva trattarsi di uno degli studenti d'arte che suo padre aveva ospitato in casa per sentirsi meno solo.
La Facultad de Bellas Artes era certamente chiusa, El Zurdo irraggiungibile. Sfogliò la rubrica di suo padre e trovò il nome di una persona dell'università con il numero di telefono di casa. Provò a chiamare, ma non ottenne risposta.
I suoi pensieri si rivolsero a Raúl Jiménez e alla rivelazione che aveva provocato la rottura con Francisco Falcón. Gli sembrava improbabile che suo padre non ne avesse fatto parola nei diari, poi si rese conto che era avvenuta in una data successiva a quella delle righe finali, nelle quali annunciava di essere ormai definitivamente annoiato.
Javier scostò bruscamente la sedia e corse al piano superiore, rallentando poi il passo quando fu nella galleria fino a fermarsi davanti allo studio di suo padre, lo sguardo fisso nella pupilla nera della fontana nel patio. Un'idea apparentemente priva di collegamento gli aveva attraversato la mente. Uno degli elementi insolubili del caso era ciò che Sergio aveva costretto Raúl Jiménez a vedere. Dove aveva preso quelle immagini? Gli scheletri nell'armadio di Salgado erano stati abbastanza facili da scoprire per gli investigatori, avevano trovato il baule nella mansarda e i film, ma con Raúl Jiménez non erano arrivati mai a niente; nonostante le interminabili ricerche alle Mudanzas Triana, non si era trovata nessuna prova che il materiale là conservato da tempo fosse stato manomesso.
Si staccò dalla parete della galleria ed entrò nello studio del padre. L'ultimo diario era nel ripostiglio. E là, una decina di pagine dopo quella che aveva creduto essere l'ultima, lesse:
La storia che Falcón aveva sentito da El Zurdo terminava così:
Falcón sfogliò le pagine vuote fino alla fine, poi tornò a ciò che aveva appena letto e lo rilesse. La parola «Ciempozuelos» lo colpì. Da quelle righe Sergio aveva forse saputo tutto, tutta la tragedia familiare, e gli si era presentata un'occasione: Marta a Ciempozuelos. Ma Marta non parlava o quasi. Falcón ricostruì mentalmente la sua visita laggiù. Il dottore che medicava la ferita di Marta. Ahmed che la riportava nella corsia, Marta che vomitava dopo il trauma della caduta. Ahmed che andava a prendere il carrello per pulirla. E a un tratto lo vide, con la chiarezza di un'idea creativa: il piccolo baule sotto il letto di Marta.
XXXII
Ahmed non gli aveva detto che cosa contenesse quel baule. Falcón controllò l'ora: le dieci di sera. Scese nello studio, prese il taccuino, sfogliò le pagine finché trovò il nome del medico di Marta, la dottoressa Azucena Cuevas. Telefonò all'ospedale a Ciempozuelos: la dottoressa era tornata dalle ferie e sarebbe stata reperibile l'indomani mattina. L'ispettore capo parlò con l'infermiera di notte del reparto di Marta, spiegò il suo problema e ciò che desiderava vedere. L'infermiera gli disse che l'unico momento in cui Marta si lasciava togliere la catenina con la chiave era durante la doccia quotidiana e che la mattina seguente avrebbe riferito alla dottoressa Cuevas la sua richiesta.
Avendo preso una pillola di troppo, Falcón dormì più a lungo del solito e fece appena in tempo a salire sul treno AVE di mezzogiorno per Madrid, sempre affollato di lunedì. Era come al solito in giacca e cravatta, l'impermeabile sul braccio e il revolver carico nella fondina. Dal treno telefonò alla dottoressa Cuevas, che accettò di rimandare la doccia di Marta al pomeriggio.
Dalla estación de Atocha prese un taxi direttamente per Ciempozuelos e alle tre e mezzo del pomeriggio era seduto nello studio del medico in attesa che l'inserviente addetta alle pulizie portasse il bauletto di Marta.
«Che cosa sa dell'infermiere, di Ahmed?» domandò Falcón.
«Della sua vita privata, niente. Per quanto riguarda il lavoro è bravissimo, di una pazienza infinita, nessuno lo ha mai sentito alzare la voce con questi poveri infelici.»
Il bauletto arrivò e qualche minuto dopo un'infermiera portò la chiave e il medaglione attaccati alla catenina di Marta. Falcón aprì il baule, che era in realtà un vero e proprio altarino dedicato ad Arturo. L'interno del coperchio era coperto di fotografie che Marta era riuscita in qualche modo a conservare. Un biglietto di auguri di compleanno fatto a mano mostrava una donna stilizzata con gli occhi che sporgevano dalla testa, i capelli rigidi come stecchi e «Marta» scarabocchiato sotto. Dentro il bauletto macchinine di metallo, un calzino grigio da bambino, un vecchio quaderno, matite mordicchiate. Sul fondo due rulli di pellicola da 8 mm, uguali a quelli trovati nel magazzino delle Mudanzas Triana. Falcón mise un pezzo di pellicola davanti alla luce e vide Arturo in braccio alla sorella. Rimise tutto a posto, abbassò il coperchio e chiuse il baule. Aprì il medaglione: conteneva un unico ricciolo di capelli castani. Restituì la catena all'infermiera mentre l'inserviente portava via il bauletto.
«Dov'è Ahmed in questo momento?»
«Nel parco, sta facendo passeggiare due pazienti.»
«Non voglio che sappia di questa mia visita.»
«Potrebbe essere difficile», obiettò la dottoressa Cuevas, «la gente parla, non c'è altro da fare qui.»
«C'è mai stato uno studente d'arte che abbia lavorato nel reparto di Marta?»
«Qualche tempo fa abbiamo sperimentato per tre mesi una terapia artistica», rispose la dottoressa Cuevas.
«Quale specie di terapia?» domandò Falcón. «Chi erano i terapeuti?»
«Erano tutti volontari, si trattava di una cosa che facevamo il sabato e la domenica. Volevamo vedere se i pazienti avrebbero reagito positivamente a un'attività creativa che potesse far loro rivivere l'infanzia.»
«Da dove venivano gli artisti?»
«Uno dei membri del consiglio di amministrazione dell'ospedale è un regista. Aveva reclutato quelli della sua troupe che avessero avuto una formazione artistica. Tutti giovani.»
«I loro nomi sono stati registrati?»
«Sì, per forza, abbiamo provveduto noi alle loro spese di viaggio.»
«Come venivano pagati?»
«Per quel che so
«Non ricorda nessun nome dei giovani di sesso maschile che hanno collaborato nell'esperimento?»
«Solo i nomi di battesimo: Pedro, António e Julio.»
«Non c'era un Sergio?»
«No.»
«Andrò a parlare con il personale amministrativo.»
La dottoressa Cuevas aveva ragione, un Pedro e un António avevano fatto parte dei volontari, entrambi con cognomi assolutamente spagnoli. Il terzo nominativo fornito dalla segretaria del servizio amministrativo colpì tuttavia l'attenzione di Falcón, perché si trattava di un certo Julio Menéndez Chefchaouni.
Alle nove di sera era di nuovo in calle Bailén e, aprendo la porta, inciampò in un altro pacchetto, anche questo senza indirizzo e con il numero 3 scritto sull'involucro.
Era esausto. Portò il pacchetto nel suo studio, dove la spia della segreteria stava lampeggiando: un messaggio del Comisario Lobo che lasciava il suo numero di casa, ma Javier non ebbe la forza di richiamarlo e s'infilò direttamente sotto la doccia.
In cucina lo aspettavano pane e
Quando lesse il nome per la prima volta, Falcón si alzò di scatto e compì un giro dello studio stringendo i pugni. L'indomani mattina avrebbe avuto il numero del documento di identità dell'assassino e un indirizzo. Bevve altro whisky e si riempì di nuovo il bicchiere.
Javier vuotò il bicchiere. Mentre la gravità di ciò che stava leggendo si sprigionava dalla pagina per riempire tutta la stanza del suo orrore cancrenoso aveva continuato a versarsi il liquore e, a quel punto, era ubriaco. Il senso di trionfo lo aveva abbandonato, aveva la sensazione che le sue guance di gomma fossero state ripetutamente schiaffeggiate, i piedi erano nascosti dai fogli caduti dalla mano sempre più debole. La testa gli ciondolava sulla spalla. Istintivamente raddrizzò il collo, respingendo il sonno e quanto nel sonno lo aspettava, ma ben presto rinunciò a ogni resistenza, lo sfinimento ebbe la meglio, mente e corpo furono messi fuori gioco.
Sognò se stesso addormentato, non da adulto, ma da bambino. Sentiva la schiena calda, era al sicuro sotto la zanzariera e, nel dormiveglia, sapeva che era il sole a scaldarlo e che accanto alla sua testa, sulla parete, poteva vedere attraverso le palpebre abbassate il piccolo cratere che aveva grattato nella parete imbiancata. Sentì divincolarsi nel suo corpo la felicità infantile che gli saliva dalle viscere nell'udire sua madre che lo chiamava: «
Si svegliò immediatamente, perché era certo che la mamma sarebbe stata lì nella stanza e che sarebbe stato felice e amato.
Ma lei non c'era. Quello che c'era si agitò per un attimo davanti a lui finché la vista non gli si schiarì. Era nel suo studio, seduto su una delle sedie dallo schienale alto della sala da pranzo, e non poteva muoversi perché qualcosa gli stava segando il collo, i polsi e le caviglie. I piedi erano nudi e freddi sulle piastrelle del pavimento.
XXXIII
Non c'era nulla sulla scrivania di fronte a lui. I quadri erano stati tolti dalla parete.
«Sei sveglio, Javier?» domandò una voce alle sue spalle.
«Sono sveglio.»
«Se cerchi di gridare sarò costretto a imbavagliarti con i tuoi calzini, quindi, per favore, sii ragionevole.»
«Non riuscirei più a gridare ormai.»
«Davvero?» disse la voce. «Vedo che hai letto. Lo hai finito?»
«Sì.»
«E che cosa pensi del grande Francisco Falcón e del suo affidabile gallerista, Ramón Salgado?»
«Che cosa ti aspetti che pensi?»
«Dimmelo. Mi piacerebbe sentirlo.»
«Avevo appena cominciato a ritenerlo un mostro… avevo trovato quei cinque terribili dipinti nel suo studio… e ora… ora lo so. Non sapevo, però, che fosse anche un impostore. Questo aggiunge… o meglio, toglie la dimensione definitiva. È un mostro e basta, non rimane nient'altro.»
«La gente perdona molte cose alle persone di genio», disse la voce. «Tuo padre lo sapeva. Oggi puoi violentare e uccidere, ma se sei un genio saranno indulgenti con te. E perché credi che tolleriamo il male in qualcuno che ha ricevuto il talento da Dio? Perché sopportiamo l'arroganza e i modi rozzi di un grande goleador? Perché accettiamo l'ubriachezza e l'adulterio in uno scrittore, purché ci doni le sue poesie? Perché siamo disposti a stuprare, mutilare, ammazzare per qualcuno che ci dà l'illusione di credere in noi stessi? Perché permettiamo al genio di sfuggire al castigo?»
«Perché ci annoiamo facilmente», rispose Javier.
«Tuo padre aveva ragione, tu vedi le cose in modo diverso.»
«Quando te l'ha detto?»
«È scritto da qualche parte in quei diari.»
«In verità mi diceva sempre che io avevo avuto la benedizione della normalità.»
«Diceva così perché sospettava qualcosa.»
«Che cosa?»
«Non è questo l'ordine giusto», affermò Sergio.
«Allora dimmi tu qual è.»
«Che genere di mostro pensi fosse tuo padre? Quanto terribile?» domandò la voce. «Per ora sappiamo che era un assassino, un pirata, un edonista depravato, un impostore e un ladro, ma il mondo è pieno di gente così, sono mostri molto comuni, direi. Che cosa rende straordinario un mostro?»
«Mio padre era un individuo carismatico. Aveva fascino e spirito, era intelligente…»
«Non si può certo andare in giro con le labbra gocciolanti di sangue», disse Sergio. «Bisogna per forza avere due facce o la società ci sistema subito.»
«Comprendeva l'ambiguità della natura umana, il bene e il male che convivono in noi…»
«È una scusa, Javier», lo interruppe la voce, «non è questo a renderlo straordinario.»
Il cervello gli sbatteva di qua e di là mentre Javier lottava contro i cavi che lo immobilizzavano.
«Era un dissacratore dell'innocenza», disse.
«Normale.»
«Approfittava della fiducia degli altri.»
«Normale, ma andiamo meglio», commentò l'uomo. «Prova a pensare alla più eccezionale, incomprensibile…»
«Non posso. La mia mente non ragiona così. Forse la tua sì. Tu scovi gli orrori più segreti del prossimo e glieli metti davanti agli occhi. Ecco, trovo che
«Ritieni mostruoso ciò che ho fatto?»
«Hai ucciso tre persone nel modo più orribile…»
«Non le ho uccise io.»
«Se dici così, vuol dire che sei pazzo e allora io non posso parlare con te.»
«Ramón Salgado si è impiccato pur di non affrontare la sua musica.»
«Aiutare gli altri a suicidarsi ti rende innocente?»
«Raúl Jiménez si è divincolato fino a morire.»
«E l'innocente Eloisa?»
«Oh, probabilmente sono nella fase della rimozione… proprio come te.»
«Già, la colpa di tutto è della società», dichiarò Javier in tono conclusivo.
«Non essere banale. Non sono venuto qui per ascoltare frasi fatte, voglio idee creative.»
«Allora dovrai aiutarmi.»
«Puoi dirmi chi ti vuole o ti ha voluto bene?»
«Mia madre.»
«È vero.»
«La mia seconda madre mi ha voluto bene.»
«Davvero commovente che tu non la chiami
«E, che ti piaccia o no, mio padre mi ha amato. Ci volevamo bene, eravamo molto uniti.»
«Davvero?»
«Me lo ha detto lui. Me lo ha perfino scritto nella lettera che accompagnava i diari.»
Silenzio, mentre gli orizzonti cambiavano nella mente.
«Dimmi della lettera», disse la voce. «Non l'ho vista.»
Javier recitò la lettera parola per parola.
«Interessante davvero. E che cosa hai capito da questo scritto, Javier?»
«Aveva fiducia in me. Aveva fiducia in me più che in mia sorella e in mio fratello.»
«È interessante che ti abbia nominato guardiano e distruttore delle sue opere. Quale pensi fosse il suo stato d'animo mentre ti immaginava intento a leggere la lettera nel ripostiglio, circondato da quei miserevoli tentativi di copiare i dipinti di mio nonno?»
«Tuo nonno?» ripeté Javier, a se stesso, con il sudore che gli colava dall'attaccatura dei capelli sulla faccia.
«Non hai detto quale fosse la data della lettera», riprese la voce. «Quando l'ha scritta?»
«Il giorno prima di morire.»
«Un tempismo straordinario.»
«Aveva già avuto un infarto.»
«E il testamento? In quale data l'aveva scritto?» domandò la voce.
«Tre giorni prima della morte.»
«Suppongo che la coincidenza non sia
«Che cosa vuoi dire?»
«Dove è stato trovato tuo padre dopo il secondo attacco di cuore?»
«In fondo alle scale.»
«A quel punto doveva già sapere che i diari erano spariti, che rischiava di essere scoperto, che rischiava la fine del suo universo», spiegò l'uomo. «Niente di più facile che gettarsi giù sul duro marmo e lasciare tutto quanto nelle mani del suo figlio
Javier fu costretto a tacere. Rimase immobile, la pressione sempre più forte nella sua mente, il pavimento della memoria cigolante sotto un peso vecchio di decenni.
«Così funziona la coscienza. È un processo lento. Dare la scalata alle mura imprendibili della rimozione è faticoso», disse la voce. «Ma non possiamo concederci il lusso del tempo. Dimmi, perché pensi che tuo padre volesse farti leggere quei diari?»
«Non voleva. La lettera è chiara a questo proposito.»
«Quale proposito?» La voce era tagliente. «Pensi sul serio si aspettasse che tu, un investigatore, gettassi via quella lettera e continuassi la tua esistenza come se niente fosse?»
«Perché no?»
«Senti, Javier, lo dirò io al tuo posto. La lettera ti dice di
«Perché… perché potessi condividere il dolore della sua vita tormentata?»
«Che cos'è, la battuta di un film? Qualcosa di carino e sentimentale stile Hollywood, forse?» disse la voce. «Non tollero certa roba qui, Javier. Ora dimmi perché — mi sembra di essere tuo padre con Salgado in questo momento — dimmi
«Perché potessi imparare a odiarlo?»
«Come sei patetico, Javier! Perché avrebbe lodato tanto le tue capacità di investigatore e ti avrebbe detto che ti sarebbero state utili per ritrovare il diario mancante?»
Javier lottò duramente contro l'idea che gli si era appena affacciata alla mente. E continuò a opporvi resistenza. Non gli era rimasto altro. Era una delle poche cose che lo avevano sostenuto. L'amore di suo padre durato quarantatré anni. Perfino all'amore di un mostro era difficile rinunciare.
«Un piccolo aiuto per te, Javier. Non lo leggerò tutto… solo i punti pertinenti. Sei pronto?»
La voce continuava, ma distante ora, perché Javier era di nuovo laggiù e camminava verso lo studio di suo padre, chiamato lì per apprendere la terribile notizia che gli era già arrivata quella mattina attraverso le spesse pareti imbiancate a calce. Una nube di tristezza riempie la casa e il piccolo sente solo il battito del suo cuore mentre sguscia attraverso la porta e si trova alla presenza di suo padre che lo chiama. Javier pensa che lo abbraccerà stretto e lo bacerà sulla testa, ma Francisco invece lo prende per un braccio, glielo pizzica e glielo tira così forte che Javier si alza sulla punta dei piedi. L'enorme viso di suo padre si abbassa al livello del suo e l'uomo punta il dito contro un occhio di Javier, come se fosse una pistola carica.
Di nuovo nel corridoio, fuori dallo studio di suo padre, Javier si esamina il braccio. Gli salgono le lacrime agli occhi, scendono rapide e pulite lungo le guance lisce. Si sente la bocca piena di saliva e sa che Mercedes non tornerà mai più. Non sentirà mai più l'odore di lei mentre il suo rimane sotto le lenzuola ben rimboccate, le sue piccole dita non seguiranno più il contorno dell'orecchio di lei. Ed è colpa sua. Non avrebbe mai dovuto dirglielo. Si mette a correre, lungo il corridoio, su per le scale, fino alla sua camera, fino al suo letto, ma ormai il baratro buio di quella comprensione è in lui, come il dolore al braccio.
«Questo chiarisce un po' le cose?» domandò la voce e Javier ebbe la sensazione di essere nel traffico di una strada affollata, finché non fu di nuovo scaraventato nella realtà, lo sguardo sempre fisso sul bicipite, come se stesse esaminando l'escoriazione che gli aveva provocato dolore tanti anni prima.
«Mi voleva ancora bene», sbottò, la bocca piena di saliva. «Mi stava solo avvertendo, ma mi voleva bene. Non siamo vissuti tanti anni insieme senza…»
«Continui a non crederci. Io posso capirlo, Javier, è difficile rinunciare a questo… come è difficile rinunciare alla vita… finché non diviene assolutamente intollerabile. Finché le proprie azioni…»
«Ma chi
«Io sono i tuoi occhi», rispose la voce. «Attraverso di me imparerai a vedere. Di quanto coraggio disponi, Javier?»
Javier scosse il capo, niente affatto coraggioso, tuttora schiacciato dal peso della morte di Mercedes che gli gravava sulla coscienza e pieno di terrore all'idea delle nuove possibilità, dei nuovi orrori, quelli che conosceva ma non rammentava ancora.
«Hai paura, non è vero, Javier? Hai paura di quello che vedrai.»
La faccia di Javier tremava sotto la tensione del cavo.
«Che cosa hai mostrato agli altri… a Raúl e a Ramón?» domandò, cercando disperatamente di rimandare il momento. «Che cosa hai scoperto di tanto terribile da far vedere a loro due?»
«Dovresti saperlo ormai», disse la voce, «non ho mostrato niente di terribile, nessun figlio abbandonato o lattanti morti, nessuna fanciulla violentata o ragazzi sodomizzati e strangolati; certe cose si possono vedere al telegiornale, al cinema, sulle riviste, su Internet, alla TV. Siamo assuefatti alla brutalità della condizione umana, niente ci inorridisce più. Hai visto le immagini che aveva Salgado sul computer? Hai visto che cosa guardava Raúl Jiménez mentre si scopava la sua
«E allora
«Ho fatto vedere a tutti e due la felicità che avevano abbandonato.»
«La
«Arturo che giocava sulla spiaggia con Marta. Lei gli faceva il solletico, sai, gli faceva il solletico finché Arturo non resisteva più. Il sonoro l'ho aggiunto io. Manuela non ti faceva mai il solletico? Solleticarti a morte, quasi, solleticarti finché non era più solletico, ma tortura. Ah, la mente gioca tali scherzi, Javier… dopo decenni di rimozione.»
«E Ramón? Che cosa hai mostrato a Ramón? La moglie felice…»
«Credo che sia stato Raúl a dargli quei filmetti come regalo di nozze. Gli sposi felici, Ramón e Carmen. Hai ascoltato i nastri?»
Javier annuì.
«Ce n'era un altro, l'ho portato via io. Carmen alla fine cantava, la voce non era eccezionale, ma cantava per Ramón… una canzone d'amore. Ramón, alla fine, applaudiva e io ho colto la sua emozione. Ho cambiato un poco la registrazione, ho eliminato gli applausi… solo quei tre urli disperati: 'Ramón! Ramón! Ramón!'»
Javier rabbrividì al pensiero della raffinatezza di quella tortura. Al pensiero di quei due uomini che avevano dovuto affrontare il doppio orrore del taglio chirurgico e degli ultimi momenti di vera felicità crudelmente sfigurati dal montaggio sonoro.
«E a me? Che cosa mi farai vedere?» domandò. La paura stava scatenando la rabbia di Javier, che si sforzava di ricordare l'ultima volta in cui era stato felice. «Quale felicità ho abbandonato io?»
«Ti benderò per qualche momento», disse la voce. «Quando ti toglierò la mascherina, vedrai.»
Un elastico sulla nuca, poi la morbida oscurità ovattata. Era piacevole quel buio vellutato, trapuntato. Javier pensò che non avrebbe mai più dovuto uscire da quella tenebra. Qualcosa venne posato sulla scrivania, la sedia fu spostata in avanti, l'adrenalina cominciò a fluire nel suo organismo. Il panico assoluto dentro di lui si assottigliò, gli scorse nel sangue, raffreddandolo, sangue simile a etere ora. Javier era gelato e tremante. Delle dita gli sfilarono la maschera ma Falcón tenne gli occhi chiusi.
«Apri gli occhi, Javier», disse la voce. «Tu, meglio degli altri, sai che cosa succederà se non li aprirai. Davvero, non è niente di terribile.»
«Li aprirò. Concedimi solo un po' di tempo.»
«È una cosa che vedi tutti i giorni.»
«Lo sai che non è per la cosa sulla scrivania, è per la cosa nella mia testa», ribatté Javier.
«Apri gli occhi.»
«Sì.»
«Il tempo si sta esaurendo.»
«Li aprirò.»
«Ti costringerò ad aprirli. Lo sai come te li farò aprire, lo sai come faccio.»
Javier si sentì stringere e piegare all'indietro la testa nella morsa di un gomito piegato, il collo teso al punto da non riuscire a gridare. Avvertì il tocco della lama. Era come ghiaccio. La bruciatura fredda di un metallo insensibile. Qualcosa di caldo gli gocciolò sulla guancia, più denso del sudore o delle lacrime. Spalancò gli occhi mentre la sua testa si piegava in avanti.
Sul tavolo era posato un bicchiere di latte. Si ritrasse immediatamente, ma troppo tardi, l'immagine gli si era infilata nel cervello come una scheggia di vetro. Non aveva idea del perché fosse così spaventato, non vi era nessuna logica nei lampi di paura che pulsavano da sinapsi a sinapsi, da nervo a nervo, finché tutto il suo corpo fu scosso da spasmi tali da far traballare la sedia.
La benda gli ricadde sugli occhi, chiudendo fuori la ridicola realtà di un bicchiere di latte. Una mano gli sfiorò i capelli mentre un corpo si sporgeva sopra di lui.
«Fiutalo.»
Javier inspirò una boccata di un odore nauseabondo, greve, dolciastro, mentre un sapore di uova marce gli impregnava la saliva e il sudore freddo lo bagnava in tutto il corpo. Vomitò.
L'odore fu allontanato, il bicchiere di nuovo posato sulla scrivania. L'uomo riprese la posizione alle sue spalle.
«Sapevo che saresti stato coraggioso», disse la voce.
«Non mi sento coraggioso», balbettò Javier, tossendo e ansimando.
«Quale odore hai sentito?» domandò la voce.
«Mandorle e latte. Come fai a sapere che odio le mandorle e il latte?»
«Chi era abituato a bere latte di mandorle tutte le sere prima di dormire?»
«Mia madre, credo.»
«Tu
«La sua cameriera…»
«No, lei lo
«Io no», disse Javier in fretta, al modo di un bambino. La bugia istintiva. «Non ero io. Era Manuela.»
«Sai perché tuo padre ti odiava?»
Al colmo dell'infelicità, Javier lasciò ciondolare la testa, la scosse di qua e di là, negando, negando tutto ciò che affiorava nella mente.
«Perché tuo padre ha fatto in modo che tu lo amassi?»
«Non capisco, non ti capisco più.»
«Calmati ora, Javier. Ti leggerò una storia, proprio come faceva tuo padre per farti addormentare. Che storia abbiamo stasera? Sì, stasera sarà questa: 'Una piccola storia di dolore che diverrà il tuo'.»
Di nuovo gli parve che la voce di Sergio si allontanasse mentre le parole continuavano inesorabilmente a precipitare su di lui. Javier si sta guardando i piedi nudi sul pavimento, il bicchiere di latte di mandorle tenuto alto fino al mento. Si morde il labbro concentrato al massimo, non vuole versarne nemmeno una goccia, e ha un soprassalto nel vedere suo padre comparirgli accanto all'altezza della spalla. La faccia grande è emersa dal buio così all'improvviso che per poco Javier non fa cadere il bicchiere, ma, grazie a Dio, suo padre glielo toglie di mano.
«Sono solo io», dice il papà e, spalancando gli occhi in modo esagerato, si stropiccia le dita sopra il bicchiere, dicendo: «Abracadabra».
Rimette il bicchiere in mano a Javier.
«Va tutto bene», dice, baciandolo sulla testa. «Va', portaglielo. Non versarlo.»
Javier stringe il bicchiere, suo padre gli batte qualche colpetto sulla spalla e di nuovo i suoi piedi si muovono sulle piastrelle di terracotta, il contorno di ogni avvallamento e di ogni linea di giunzione impresso nella pianta nuda. Raggiunge la porta, posa il bicchiere sul pavimento; gli occorrono due mani per girare la maniglia. Raccoglie il bicchiere, entra. Sua madre alza gli occhi dal libro, lui richiude la porta con la schiena, arretrando finché non sente lo scatto della serratura. Posa il bicchiere sul comodino e si arrampica sul letto, la mamma lo abbraccia forte e per un momento il bambino Javier si perde nella morbidezza della sua camicia da notte. Sente la mano di sua madre, la mano senza anelli, posarsi sul suo piccolo ventre piatto, fargli il solletico. Sente il suo calore, l'odore di lei nel tessuto di cotone mentre la mamma lo stringe forte, schiacciandogli le costole contro le sue, e gli dà un ultimo bacio pieno di trasporto sulla fronte, un bacio che lo segna per sempre con il suo amore.
Javier si immobilizzò sulla sedia tornando alla buia realtà della mascherina. I cavi lo stringevano ancora, la palpebra bruciava ancora in un angolo, il velluto della maschera era inzuppato di lacrime e la voce alle sue spalle continuava a far rotolare le ultime parole del diario di suo padre.
Sergio aveva finito e nella casa regnava il silenzio. Le lacrime di Javier, che avevano inzuppato la mascherina mescolate al sangue del taglio sulla palpebra, ora gli rigavano le guance. Si sentiva prosciugato. Dietro di sé avvertì un movimento, un panno gli si chiuse sul naso e sulla bocca e un odore acre di qualche sostanza chimica disgustosa come l'ammoniaca gli scaraventò il cervello in un'altra galassia priva di suoni.
XXXIV
Fu un momento di respiro. Il cervello cloroformizzato volteggiò nello spazio in silenzio. Il ritorno alla realtà fu frammentario: brandelli di audio, poi schegge di video. La testa si rialzò, la stanza ondeggiò, lame di luce colpirono gli occhi e Javier fu risvegliato bruscamente dal terrore che gli fosse stato fatto qualcosa di terribile.
Poteva vedere e le palpebre si sollevavano e si abbassavano ancora. Il sollievo si diffuse in tutto il suo essere. Tossì. Il cavo non gli serrava più il viso e i piedi erano liberi dalle gambe della sedia, ma i polsi vi erano ancora legati. Si orientò nella stanza. Non era più rivolto verso la scrivania ora. Si piegò in avanti, cercando di inghiottire il groppo che gli si stava agitando nel petto e gli saliva in gola. Singhiozzò, lottando contro i ricordi, ogni certezza in frantumi. Esisteva una possibilità di sopravvivere a tutto ciò?
Un rumore. Rotelle sul pavimento. Qualcosa che gli stava passando troppo vicino, un soffio d'aria. Un uomo — Sergio, o Julio ormai? — gli sfrecciò accanto fino alla parete di fronte sulla poltrona girevole della scrivania.
«Sveglio?» domandò, scostandosi dal muro e portando la poltrona vicino a lui, una vicinanza che gli provocò un attacco di nausea.
Julio Menéndez Chefchaouni si distese sulla sedia, rilassato. La prima impressione di Falcón fu di bellezza. L'aspetto era quasi femmineo, lo fece pensare alla star di un gruppo musicale, con i lunghi capelli scuri, i dolci occhi castani, le ciglia lunghe, gli zigomi alti e la pelle chiara, liscia. La specie di viso che un obiettivo avrebbe potuto amare; ma solo per un momento.
«Ecco, Inspector Jefe», disse il giovane, incorniciandosi la faccia con le mani. «Ecco la faccia del male assoluto.»
«Non hai ancora finito?» domandò Falcón. «Che altro può esserci, Julio?»
«Ritengo che il progetto abbia bisogno… non proprio di un finale perché non credo nei finali, e nemmeno nei principi o nelle metà, se è per questo, ma di far conoscere il suo scopo.»
«Il progetto?»
«Come credo abbia scritto tuo padre nei suoi diari: 'Nessuno dipinge più'. Imbrattare tele non è molto dissimile da quanto facevano gli uomini della caverne.
«E come si chiamerebbe questo tuo progetto?»
«Anche questo è una novità. Il titolo è in continua evoluzione, si tratta di tre parole inglesi che possono essere disposte in qualsiasi ordine, usando qualsiasi preposizione nel mezzo. Le parole sono:
«O
«Sapevo che avresti capito subito.»
«E dove verrebbe esposto il progetto?»
«Oh, questa parte non mi riguarda veramente», rispose Julio. «Sarà in tutti i mezzi di comunicazione, naturalmente, ma… be', avrai certamente sentito parlare di persone che hanno dedicato la vita, per esempio, alla letteratura. Questo progetto è un'estensione di tal genere di attività. Credo che probabilmente insisterà per apparire solo postumo.»
«Comincia dal principio», disse Falcón, «sono abbastanza convenzionale in certe cose.»
«Come ora sai, Tariq Chefchaouni era mio nonno, mia madre era la sua unica figlia, che sposò uno spagnolo di Ceuta. Il gene della sua arte ha saltato una generazione, ma è arrivato a me. Dopo il mio primo anno qui alle Bellas Artes, mia madre e io andammo a trovare la famiglia a Tangeri. Chiesi di vedere le opere del nonno, ma seppi che era andato tutto distrutto nell'incendio che lo aveva ucciso, a parte pochi effetti personali e qualche libro. Solo un paio di anni dopo chiamarono per dirmi che avevano trovato, nel corso di alcuni lavori di ristrutturazione, una piccola cassetta di peltro sotto il pavimento della sua stanza.
«Io ero qui, a Siviglia, studiavo arte, e conoscevo benissimo i nudi Falcón, perché al secondo o terzo anno avevo fatto una ricerca su quei dipinti. In effetti anche prima di venire a Siviglia ero ossessionato da quei nudi e quando venni a sapere che tuo padre viveva qui, lo incontrai un paio di volte, per farmi spiegare qualche particolare tecnico che non avevo capito. Naturalmente lui mi conosceva solo come Julio Menéndez. Fu molto… affabile. Simpatizzammo. Mi disse che avrei potuto chiamarlo, se avessi avuto bisogno di chiarire qualche altro particolare. Così, quando fui tornato a Tangeri ed ebbi aperto questa cassetta, mi affascinò enormemente scoprire che, a quanto pareva, anche mio nonno aveva avuto la mia stessa ossessione… se non che, come avrebbe potuto? Era già morto quando erano stati dipinti i nudi Falcón.»
A questo punto Julio aprì la cassetta e tirò fuori quattro piccole tele delle dimensioni di una cartolina. Le porse l'una dopo l'altra a Falcón. Erano riproduzioni perfette dei quattro nudi famosi.
«Non si possono vedere bene senza lente di ingrandimento e una buona luce, ma ti assicuro che sono perfette… ogni pennellata è l'esatta miniatura del suo originale. Ora guarda sul retro.»
Girò le piccole tele: ognuna di esse era dedicata a Pilar, seguita dalle date maggio 1955, giugno 1956, gennaio 1958 e agosto 1959.
«Nella cassetta ho trovato un'altra cosa, che non ho più.»
«L'anello d'argento con lo zaffiro», disse Javier. «L'anello di mia madre.»
«In un primo momento pensai di mostrare le miniature a tuo padre, ritenendo che le avesse perdute e che, chissà come, fossero finite in mano a mio nonno. Poi ricordai che i nudi Falcón erano stati tutti dipinti nel giro di un anno e che le date non coincidevano con quelle scritte sul retro. Ero confuso.»
«Quando è successo?»
«Fine del 1998, principio del 1999.»
«E quando hai cominciato a pensare che ci fosse sotto qualcosa di più sinistro?»
«Mentre ero a Tangeri tuo padre ebbe un infarto e sul giornale uscì un articolo accompagnato da una sua vecchia foto degli anni '60. Quello era l'uomo, mi disse uno dei miei parenti più anziani, che si era presentato dopo la morte di mio nonno per comprare i suoi pochi disegni rimasti.
«Tornai a Siviglia e alle Bellas Artes seppi che ospitava ancora in casa gli studenti per qualche settimana alla volta. Gli telefonai. Si ricordava di me e io mi offrii di fargli compagnia. Era debole dopo l'infarto e io avevo modo di entrare nello studio quando volevo. Il ripostiglio era chiuso a chiave, ma non impiegai molto tempo per aprire la porta. E là trovai la conferma che mi serviva, grazie alla stupefacente mediocrità dei suoi tentativi di riprodurre le opere di mio nonno, conferma che ebbi anche dai diari. Li lessi tutti e quando ebbi finito rubai quello più importante e me ne andai. Non tornai più. Non gli parlai più. Ero folle di rabbia. Avrei pubblicato il diario e avrei rivelato al mondo il vero Francisco Falcón… ma tuo padre morì.»
«Perché non hai pubblicato ugualmente il diario?»
«Mi ero reso conto che la storia mi sarebbe stata tolta dalle mani e io volevo averne il controllo», rispose Julio.
«Ma deve essere accaduto dell'altro.»
«Perché?»
«Perché tu ne facessi il tuo progetto.»
«Non è successo niente, questa è la natura del processo creativo. Un giorno ho deciso che sarebbe stato interessante sapere tutto di Raúl Jiménez e di Ramón Salgado, scoprire che cosa fossero diventati. Perciò cominciai a girare
«E Marta?»
«È straordinario come certe cose, quando si comincia a lavorarci su, ti trovino, perché non sei tu a trovarle in realtà. Sapevo, grazie ai diari, che viveva a Ciempozuelos e mi interessava molto vederla, sapere qualcosa di lei, ma non potevo farlo senza attirare l'attenzione su di me. Allora io lavoravo come freelance per gli effetti speciali al computer per una casa di produzione di Madrid e uno dei registi, un giorno, mi propose di fare del volontariato in un istituto per malati mentali a Ciempozuelos, per un esperimento di terapia artistica. Accettai subito. Marta, però, non faceva parte dei pazienti coinvolti nell'esperimento. Dovevo ancora trovarla.»
«È stato allora che hai fatto amicizia con Ahmed?»
«Quando ho visto il bauletto di metallo sotto il letto ho capito che dovevo assolutamente scoprire che cosa contenesse e Ahmed era la mia unica possibilità. Sono bravo nel fare amicizia con le persone, specialmente con quelle come Ahmed… Capisci,
«Come Eloisa.»
«Sì», confermò Julio tranquillamente. «Ahmed mi ha mostrato la cartella di Marta e quando ho letto la lettera dello psicoanalista di José Manuel Jiménez, ho capito di avere un progetto.»
«E come ti è venuta l'idea di uccidere?»
«Da te, non appena ho scoperto che eri l'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla», rispose Julio. «Il fatto che fosse proprio il figlio di Francisco Falcón a indagare sui delitti di suo padre mi è sembrata un'occasione da non perdere assolutamente. Conferiva un senso particolare a tutto il progetto.»
«Non è stata una decisione razionale.»
«Gli artisti non hanno una mente razionale. Come si può pensare che io turbi la mente degli altri, se la mia è una calma piatta?»
«Uccidere non è arte.»
«Hai dimenticato la parola 'vero'», disse Julio, in piedi ora, le pupille all'improvviso di un nero massiccio e scintillante, non interessate all'esterno, ma all'interno. «Avresti dovuto dire il Vero Uccidere non è Arte oppure… oppure… Uccidere non è Vera Arte.»
«Siediti, Julio. Stai seduto un momento… non abbiamo finito», disse Javier.
«Sai, il problema è…», riprese il giovane, «il problema è che… che vedo le cose con troppa chiarezza ora, mi sembra di non riuscire a ridimensionare la mia capacità di visione. Una volta che si è ucciso qualcuno, tutto diventa così reale… è insopportabile. Lo sapevi questo, zio, lo sapevi questo?»
«Hai ragione, io
«È la ragione per cui non ti ho ammazzato. Ho solo cercato di farti del bene, di salvarti dalla tua cecità.»
«Sì, è così, ora lo capisco e te ne sono grato», disse Javier. «Solo un'ultima cosa vorrei sapere da te.»
«È stato detto tutto, tutto fatto e scritto e filmato… rimane una cosa soltanto ormai», lo interruppe Julio.
Si portò alle spalle di Falcón, fece ruotare la sedia in modo che Javier si trovasse di fronte alla parete opposta. Sulla scrivania erano posati il bicchiere di latte di mandorle, il diario rilegato in pelle e la pistola di ordinanza. Julio prese un coltello e tagliò il cavo che legava alla sedia la destra di Falcón.
«Ora devo andare», disse, buttando il coltello sulla scrivania. «Sai che cosa devi fare. Non dovresti essere costretto a sopportare più di quanto hai già sopportato.»
I loro sguardi si incontrarono, poi ritornarono alla pistola posata sopra il diario, accanto al bicchiere: ricordo di ciò che aveva fatto e di ciò che aveva perduto.
«Lì sta la tua soluzione», disse Julio. «L'unico modo di chiudere la partita e di lasciarsi tutto definitivamente alle spalle.»
Il sudore bagnò le mani di Falcón, gli colò sulla fronte. Possibile che avesse ancora tanti liquidi nel corpo? Prese la pistola: era carica. Tolse la sicura con il pollice, contemplò l'arma, poi la rivolse lentamente contro se stesso. In quel momento il suicidio non mancava di attrattive per lui, era la soluzione più semplice di fronte a quel nulla improvviso che gli si era spalancato davanti, il passato scomparso, il futuro fragile e incerto. L'amore di suo padre… mai esistito. Solo odio, odio che lui, Javier, aveva alimentato… unicamente vivendo. E poi, chi era adesso? Era forse ancora Javier Falcón? I fili che lo tenevano insieme erano il rimorso e il dolore; tirando l'uno o l'altro, sarebbe andato in pezzi. Ed ecco che tutto avrebbe potuto finire, essere superato. Una piccola pressione sul grilletto e il serbatoio della sofferenza sarebbe saltato in aria.
All'improvviso un muro nella memoria crollò e dalla breccia, nell'intrico della sua mente, in luogo di un'ulteriore sofferenza si affacciò il ricordo del bacio di sua madre, il bacio che lo aveva segnato con il suo amore per sempre. E, sotto la pressione delle labbra di lei, Javier seppe chi era, ritrovò il bambino che era stato per lei. E qualcosa, una parte di quel vasto nodo, si sciolse in lui; all'improvviso fu in grado di vedere chiare linee di pensiero che, pur non prive di complessità, erano perlomeno concepibili.
Una delle pressioni che lo schiacciavano si era allentata. Lui non apparteneva all'uomo che aveva conosciuto come suo padre, eppure… c'era sempre stato qualcosa, loro due erano uniti in modo inestricabile, ma… ma che cosa? Era davvero così semplicistico come aveva detto Julio? Javier era stato davvero un costante promemoria per suo padre di tutti i suoi fallimenti? Era stato davvero l'emblema dell'odio? Oppure l'atto finale di suo padre era ambiguo come tutte le azioni umane? Le nostre costanti esigenze ci rendono deboli, le avversità ci conducono lungo sentieri infidi ad atti indegni e spregevoli, ma esiste sempre il polo di attrazione del legame originario. Raúl con Arturo. Ramón con Carmen. Francisco Falcón con Javier.
Suo padre, mettendogli in mano quei diari, non avrebbe potuto volergli dire: «Ora mi conosci veramente, sentiti libero di odiare me e assolvere te stesso»?
Javier si girò. Julio era ancora in piedi sulla soglia, in attesa. Tremante, Javier tese il braccio e puntò l'arma contro il viso di Julio, la cui bellezza superficiale era scomparsa, lasciando solo i lineamenti distorti dalla follia.
«Vieni qui», ordinò Javier con un tono non privo di gentilezza, e Julio ubbidì.
Si avvicinò, anzi, finché la canna della pistola lo sfiorò tra gli occhi.
«Non ho intenzione di ucciderti», dichiarò Falcón, che aveva il polso sinistro ancora legato alla sedia.
Accadde tutto in un attimo. Prima che Falcón potesse cercare parole capaci di penetrare nella mente sconvolta che gli stava di fronte, le mani del ragazzo scattarono, una afferrò il polso di Javier, l'altra premette il dito sul grilletto e il fragore assordante dello sparo riempì la stanza e il patio, rimbombando nella casa deserta.
Julio fu proiettato all'indietro e piombò nel patio, frantumando i vetri della porta. Il sangue si allargò sulle lastre di marmo verso il cerchio di pietra della fontana.
Alle undici di sera le operazioni del
Alle undici e mezzo Lobo stava accompagnando Javier all'ospedale per fargli medicare la palpebra. Lobo gli raccontò come aveva fatto a determinare le dimissioni del Comisario León. Javier non reagì.
«Sa», riprese Lobo entrando nel parcheggio dell'ospedale, «su questo caso l'attenzione dei media sarà molto grande, specialmente a causa… dell'imprevisto coinvolgimento di suo padre.»
«Era questa l'intenzione di Julio», disse Javier, «voleva la massima visibilità, la più impressionante… come tutti gli artisti. La cosa non è più nelle mie mani. Io mi limiterò a…»
«Be', spero… credo di poterla aiutare a controllarla.»
Javier inarcò un sopracciglio con aria interrogativa.
«Dovremmo affidare la storia a un solo giornalista», spiegò Lobo. «In questo modo lei potrebbe far pubblicare immediatamente la sua versione dei fatti, prima che la cosa le venga strappata di mano e trasformata in un'orrenda storia di fantasia.»
«Non temo affatto una cosa del genere, commissario, unicamente perché non penso che vi sia un redattore capace di immaginare qualcosa di più orrendo del fatto che mio padre sia stato un bruto, un pirata, un ladro, un impostore per due volte uxoricida.»
«Perlomeno, in questo modo, la prima versione della storia si avvicinerà il più possibile alla verità. Credo sia sempre meglio che la prima impressione…»
«Forse lei si è già messo d'accordo con un giornalista, commissario», disse Javier.
Silenzio. Lobo si offrì di entrare con lui nel pronto soccorso, ma Javier non volle.
All'ospedale restò seduto sotto la vivida luce al neon della sua nuova vita mentre gli mettevano due punti di seta nella palpebra. La sua mente si ritrasse di fronte alla luce potente e lui chiuse gli occhi mentre i pensieri gli si contorcevano nella testa. Come avrebbero reagito Manuela e Paco all'assalto dei media? Che cosa avrebbe detto ai suoi fratelli? Vostro padre… ma non il mio, era un mostro? Manuela si sarebbe liberata subito da quel pensiero oppure tutta la cosa sarebbe semplicemente rimbalzata via da lei, Manuela non l'avrebbe fatta entrare in sé. Ma Paco… Suo padre lo aveva salvato dopo l'incidente con il toro, gli aveva donato la
«Le faccio male?» domandò il medico.
«No.»
«Infermiera, asciughi le lacrime.»
A mezzanotte lasciava l'ospedale, con la camicia ancora sporca di sangue. Prese un taxi per tornare a casa. Si fermò al centro del patio contemplando la statua di bronzo che emergeva dalla fontana. Sempre in movimento, quel ragazzo. Salì nello studio di suo padre e la nera pupilla della fontana lo seguì per tutta la galleria. Entrò nel ripostiglio e portò fuori tutti i tentativi di suo padre di copiare i lavori di Chefchaouni e le cinque tele che avevano formato l'osceno dipinto che raffigurava sua madre. Buttò tutto quanto giù nel patio, insieme con la scatola con le banconote e la pornografia. Discese con un bottiglione da cinque litri di alcol e ammucchiò tutto vicino alla fontana, versò l'alcol sulla pira improvvisata e vi gettò un fiammifero acceso. Le fiamme presero vita e una luce itterica tremolò nel patio silenzioso.
Andò nel suo studio dove la cassetta di peltro era ancora posata sulla scrivania, prese le cinque preziosissime miniature e le dispose l'una accanto all'altra. L'opera di suo padre. Del suo vero padre. Per un istante fu di nuovo sollevato in aria e guardò giù, verso il volto che non aveva mai ricordato e che ora vedeva per la prima volta.
Dopo la doccia, indossò una camicia pulita. Non aveva voglia di andare a letto o di stare in casa. All'improvviso sentiva il bisogno di vedere gente, anche persone che non conosceva… soprattutto persone che non conosceva. Uscendo nel buio della notte, fu attirato dalle luci lungo il fiume, nero e coriaceo, e poi da quelle di plaza de Cuba, dove la folla lo trascinò verso la Feria, su per calle Asunción. Si ritrovò davanti all'Edificio Presidente dove era cominciato tutto, un'intera vita prima, e rammentò Consuelo Jiménez, con i suoi occhi audaci. Ammirava il suo coraggio. Non aveva mai vacillato sotto gli assalti continui e, Calderón aveva ragione, la sua era stata una figura centrale. Ricordò la sua proposta per una cena e il rumore dei tacchetti sulle lastre di marmo. Scosse la testa. Troppo presto.
Si voltò ed entrò nella Feria de Abril attraverso l'imponente cancello illuminato in modo sgargiante, in quel mondo surreale dove tutti erano belli e felici. Dove le ragazze ancheggiavano nei
Camminò tra la gente che sorrideva, rideva, come se fosse drogata. Possibile che fossero tanti e tanto contenti? Pareva che in quella piccola galassia fosse lui l'unico essere umano ad avere un filo diretto con l'infelicità, l'unico che avesse ricordi e sensi di colpa, disperazione e paura. Sarebbe mai riuscito ad avere una vita completa, a strapparsi via dalla vita a metà che aveva vissuto fino a quel momento? Un battimani improvviso lo riportò di colpo al mondo di fantasia della Feria, con il ritmo delle
«Javier! Ehi! Javier!»
Sembrava che la donna piccoletta e rotonda in un
«Non mi riconosce? Sono Encarnación! Benvenuto, straniero! Lo straniero vorrà ballare una
La governante, una perfetta sconosciuta per lui, la donna che rappresentava tutto ciò che nella vita era privo di complicazioni, aveva finalmente preso una forma corporea. La seguì nella
Encarnación si trasformò in un istante. Quella donna di sessantacinque anni divenne elegante e misteriosa, civettuola e audace. Ballarono cinque o sei
NOTA DELL'AUTORE
Arrivato a metà dell'
RINGRAZIAMENTI
Prima di poter cominciare a scrivere questo libro dovevo scoprire come lavoravano la polizia e la magistratura; ho quindi intervistato alcune persone che mi sono state di grande aiuto. Vorrei ringraziare il Magistrado Juez Decano de Sevilla Andrés Palacio, los fiscales de Sevilla e l'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla Simon Bernard Espinosa, che mi ha parlato diffusamente anche del suo approccio ai casi di omicidio. I personaggi che nel romanzo ricoprono queste cariche non hanno alcun punto di contatto con le persone reali, né i rapporti professionali tra loro si possono considerare in alcun modo tipici.
Vorrei anche ringraziare il dottor Fernando Ortíz Blasco che non solo si è occupato della mia anca ma mi ha fornito numerose informazioni sulla corrida e sull'allevamento dei tori.
Per quanto riguarda Tangeri, ho avuto la fortuna di essere presentato da Frances Beveridge a Patrick Thursfield, il quale a sua volta mi ha messo in contatto con Mercedes Guitta, che è vissuta a Tangeri durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Li ringrazio tutti per il loro aiuto.
La mia amica Bindy North è stata tanto gentile da dare un'occhiata professionale ai dialoghi di argomento psicologico e offrirmi il suo parere, del quale le sono molto grato.
La ragione principale per cui questo libro è stato scritto riguarda due miei amici che vivono a Siviglia, Mick Lawson e José Manuel Blanco Marcos. Nel corso degli anni mi hanno comunicato, consapevolmente e inavvertitamente, una grande quantità d'informazioni sulla Spagna, sull'Andalusia e su Siviglia. Inoltre mi hanno sempre sostenuto con entusiasmo durante la mia carriera di scrittore, aiutandomi a rimettere insieme i pezzi quando mi è andata male e festeggiando con me quando mi è andata bene. Ho dedicato il libro a loro, un piccolo segnale per dire che nessuno potrebbe desiderare amici migliori.
Infine voglio ringraziare mia moglie Jane, che mi vede ben poco, se si fa eccezione per una schiena china su una scrivania, ma come sempre mi ha aiutato nelle ricerche, mi ha concesso il beneficio editoriale del suo occhio esperto e ha dissipato i miei frequenti dubbi. Non riesco a concepire di scrivere un libro senza di lei, il che certamente la rende la mia musa.